La pandemia ha modificato piani e prospettive degli italiani espatriati negli ultimi anni. Arrivano a 600 mila quelli che rientrerebbero in patria se ci fossero le condizioni giuste. Molti sono millennials laureati, emigrati per lavoro e non per scelta.
Con la pandemia arriva la “Great Resignation”
Il Covid ha avuto un impatto significativo sulla popolazione di quasi tutto il mondo. Gli stati hanno chiuso le frontiere, bloccato i trasporti, frammentato un sistema globalizzato che non era pronto a questa prova.
A livello globale, tutto ciò ha dato vita a un fenomeno noto come “Great Resignation”: un numero in aumento di lavoratori e lavoratrici – tendenzialmente tra i 30 e i 45 anni – decide di lasciare il proprio impiego per intraprendere un percorso professionale che sia più in linea con i propri valori e le priorità riscoperte durante la pandemia.
Il fenomeno si manifesta anche fra coloro che lavorano in un paese diverso da quello d’origine, i cosiddetti expat, che nella pandemia sono stati spinti a vedere sotto una luce diversa le proprie scelte personali e professionali, inclusa quella del paese in cui mettere le proprie radici.
I progetti degli emigrati italiani
L’Associazione ChEUropa ha raccolto informazioni su 1.262 italiani all’estero, in maggioranza espatriati negli ultimi 15 anni, di età compresa tra i 26 e i 35 anni e in possesso di una laurea. La rilevazione è avvenuta nel corso dell’estate 2020, alla fine del primo lockdown. L’ampiezza del campione consente di estrapolare informazioni sul totale di coloro che sono emigrati negli ultimi 15 anni e che risiedono ancora all’estero – una popolazione che ammonta a circa un milione di persone – e di creare profili specifici sulla base del livello di studio, età, genere, background socio-economico e altro ancora. Il questionario si è concentrato sulle motivazioni della partenza, la situazione lavorativa attuale, le prospettive future e come queste sono state cambiate dalla pandemia.
Il Covid-19 ha mutato percezioni e piani futuri di una parte significativa degli expat. Più di un terzo degli intervistati ha migliorato la propria percezione dell’Italia già dai primi mesi della pandemia, contro un 15 per cento che l’ha peggiorata. Ad avere oggi una percezione peggiore del nostro paese sono soprattutto gli uomini e gli emigrati con un livello di istruzione più basso, mentre l’hanno rivalutato coloro che ne hanno nostalgia e che vi hanno trascorso un periodo prolungato durante il lockdown del 2020.
Il cambiamento di percezione si accompagna a un aumento delle prospettive di rientro permanente per molti italiani all’estero. Circa il 23 per cento degli intervistati ha dichiarato di aver considerato o accelerato i piani per il ritorno a seguito dei cambiamenti portati dal Covid nella propria vita, con un picco tra le donne (27 per cento).
Traducendo i dati del sondaggio in valori reali, si può stimare che circa 260 mila persone hanno preso più seriamente in considerazione l’idea di tornare in Italia a seguito del Covid. Circa 70 mila di loro stanno già cercando di farlo in modo attivo.
Una maggioranza degli espatriati italiani dichiara di non essersi lasciata influenzare dalla pandemia riguardo ai propri piani futuri, ma si stima che circa 20 mila di loro stiano comunque già cercando di rimpatriare, mentre altri 310 mila sarebbero disposti a farlo se si presentasse l’occasione giusta.
Sono quindi circa 600 mila gli italiani di recente emigrazione che sarebbero disposti a rientrare o già cercano di farlo. Il loro profilo tipico è costituito da millennials con un alto grado di istruzione e una certa nostalgia per l’Italia, emigrati per bisogno e non perché vogliosi di un’esperienza internazionale.
Lo stesso studio, infatti, indica che proprio i motivi di partenza continuano ad avere un peso determinante sullo stato emotivo degli italiani all’estero, anche a distanza di molti anni. Provano infatti nostalgia di casa soprattutto coloro che non riuscivano a trovare alcun tipo di lavoro in Italia o volevano una carriera più rapida, mentre non sembrano avere rimorsi coloro che sono emigrati per scelta o stile di vita, cercando esperienze internazionali o un migliore equilibrio tra vita privata e lavorativa.
Gli ostacoli al rientro
Benché le intenzioni siano salde, tra coloro che cercano attivamente di rientrare – circa 90mila persone – più di un terzo dichiara l’impossibilità di trovare un impiego. Un altro terzo invece indica motivazioni legate alla qualità dei lavori disponibili: troppo precariato (14 per cento), lavori poco stimolanti (12 per cento), stipendi bassi (10 per cento).
Tra coloro che attendono occasioni migliori per rimpatriare, più della metà non ha ancora iniziato la ricerca poiché ritiene che il mercato del lavoro in Italia non sia sufficientemente attrattivo. Si tratta soprattutto di laureati magistrali ed emigrati alla ricerca di migliori salari e meritocrazia. Un quinto di questo gruppo, per il prossimo futuro, preferisce ancora fare esperienze all’estero. Si tratta soprattutto di persone provenienti da famiglie agiate o da zone d’Italia con tassi di disoccupazione bassi, come le regioni del Nord-Ovest. Un 13 per cento non riesce infine a orientarsi sul mercato del lavoro nazionale. Molti di loro sono laureati triennali, un titolo poco valorizzato in Italia; oppure sono coloro che hanno lasciato il paese da più tempo.
Chi vorrebbe rientrare in Italia ha le idee chiare su come rendere più attrattivi gli ambienti di lavoro del nostro paese: più di due intervistati su tre hanno dichiarato che una delle priorità dovrebbe essere l’aumento dei salari, una percentuale che sale addirittura al 70 per cento tra gli uomini. Più della metà chiede poi ambienti di lavoro in cui venga valorizzata maggiormente la meritocrazia. Si tratta di un gruppo particolarmente trasversale, che riunisce uomini e donne, laureati e non, giovani e anziani, ricchi e poveri. Un terzo del campione, soprattutto coloro che lavorano nel mondo dell’università e della ricerca, si è concentrato invece sulla creazione di posti di lavoro qualificati. Infine, una percentuale simile chiede di valorizzare di più le esperienze svolte all’estero, mentre un quarto degli intervistati suggerisce di migliorare la conciliazione tra lavoro e famiglia. Sono soprattutto le donne – una su tre – ma anche coloro che provengono da situazioni familiari più agiate o dal Nord-Est del paese. Una piccola parte degli italiani all’estero – soprattutto uomini, emigrati per motivi di studio e residenti in Regno Unito e Paesi Bassi – vorrebbero vedere ambienti di lavoro più internazionali nelle imprese italiane. Mentre a suggerire una più ampia adozione del lavoro agile sono principalmente coloro che lavorano nel settore privato e provenienti dalle regioni del Nord-Ovest. Solo una parte residuale chiede la creazione di quote per giovani (10 per cento) e donne (5 per cento).
Dalle interviste si ricava quindi che poche azioni ben mirate riporterebbero in Italia molti connazionali, con i conseguenti benefici di una minore emorragia demografica e di un arricchimento di esperienze diverse. Questi dati andrebbero tenuti ben presenti dal legislatore nazionale, a maggior ragione perché gli expat – per quanto lontani – hanno una loro rappresentanza nelle aule parlamentari e attraverso il Consiglio generale degli italiani all’estero (Cgie).
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Savino
La p.a. a fare lo smart working e questi poveri ragazzi a continuare ad arrangiarsi rispetto ad un mercato che persiste nel chiedere loro di avere gli skills mentre altre persone vivono una vita agiata avendo come unici skills i posti dove andare a prendere il cappuccino o l’aperitivo. Semplicemente vergogna.
Gigi
Abolite le finte partite Iva una volta per tutte. Vedrete poi quanti ne tornano…
Roberta
Io sono una expat, vivo e lavoro a New York da 7 anni per scelta (avevo desiderio di fare una esperienza all’estero) e ora, malgrado ami gli US, sto cercando di rientrare in Italia per essere piu’ vicina a genitori che ormai sono anziani. Purtroppo non riesco a trovare opportunita’ lavorative in Italia, non sembra infatti che il bagaglio di esperienza accumulato oltreoceano rappresenti un plus, tutt’altro. Ho l’impressione che le aziende, una volta visto che mi trovo tuttora all’estero, scartino a priori la mia candidatura, pensando forse che il mio rientro richiederebbe tempi lunghi (falso) o le mie aspettative/richieste possano essere piu’ alte della media. Quindi evidentemente non tutte le aziende italiane considerano davvero una fonte di valore aggiunto noi expats… Cordiali saluti.
Cinzia
Sono rientrata da 7 mesi e ho pensato anch’io che sul posto avrei avuto più opportunità. Ho due lauree, un master e una specializzazione, parlo 4 lingue (C2 di tedesco) e una carriera appena buttata alle ortiche. In Italia (in Toscana) mi hanno proposto: un impiego (un ripiego) stagionale come giostraia e un posto da insegnante in una scuola privata a tempo pieno per 1.100€ (peccato che la retta per mio figlio costerebbe 400€, e non avrei altra possibilità che portarlo con me). Cosa fa male? La retorica del merito unita alla propaganda dei cervelli che starebbero rientrando, la caccia alle streghe (i poveri) e il finto amore per i bambini. Guardate i giardinetti italiani e meditate: se voi aveste 8-12 anni, non vi sentireste dei paria? Guardate come sono disposti i banchi a scuola e rispondete: pensate davvero che questo sia un Paese moderno?
Paolo
Dovresti provare a ricollocarti in un paese limitrofo o più vicino all’Italia dove la professionalità a un valore: Svizzera, Germania, Inghilterra. Poi sarai molto più vicina a casa, con un aereo low cost , in un ora sei a roma o milano.
Mirko
Si conclude dicendo che poche azioni ben mirate riporterebbe un bel po di expat in Italia, invece osservando la lista delle motivazioni, non la vado affatto fattibile. Non si possono aumentare gli stipendi per decreto legge, così come imporre la famigerata meritocrazia o valorizzare le esperienze all’estero, che attengono ad una questione culturale. Qualcosina si può fare subito, ma per il resto il processo è lungo e complesso.