Il documento di programmazione per la sanità territoriale ha molti pregi e una rilevanza strategica. Solleva però alcuni aspetti problematici, che andrebbero subito risolti. A partire dall’insistenza sulle sedi fisiche fino alla frattura territorio-ospedale.
I limiti delle case di comunità
Il cosiddetto Dm71 è il documento di accompagnamento della Componente 1 della Missione 6 (salute) del Piano di ripresa e resilienza, che sarà varato a breve dal governo. È centrato sullo sviluppo delle reti territoriali dei servizi, con una efficace presentazione di principi, azioni e standard di riferimento. In un precedente contributo, ho messo in luce il problema delle conseguenze che avrà sulla spesa corrente. Qui analizzo alcune criticità del documento, senza tuttavia volerne sminuire i notevoli pregi e la rilevanza strategica.
La prima criticità riguarda le case della comunità, un ampliamento della vecchia definizione di case della salute per sottolinearne l’apertura a tematiche anche di ordine sociale. Sicuramente è importante la presenza sul territorio di sedi fisiche dove i pazienti trovano un punto di riferimento unico e omnicomprensivo dei loro problemi di salute e i professionisti trovano spazi di socializzazione e coordinamento. Ma per certi aspetti si tratta di un approccio un po’ fuori tempo, in una società in cui sempre più sono i servizi accessibili per via telematica e i riferimenti fisici diventano meno determinanti. Per esempio, la maggior parte dei cittadini non cerca un luogo fisico dove prenotare i servizi o dove ricevere un’ampia gamma di prestazioni. Si aspetta sistemi di prenotazione telefonica e via web ben funzionanti e l’accesso a strutture di prossimità. Ciò appare particolarmente rilevante nelle grandi aree urbane e laddove l’alfabetizzazione informatica è più avanti.
Prevedere in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale lo stesso modello di casa della comunità appare inappropriato e forse anche velleitario, visto che in alcune realtà regionali (Emilia-Romagna, Veneto, Toscana) sono già affermate da tempo, mentre in altre sono praticamente sconosciute (Lombardia e gran parte delle regioni del Sud). Si tratta anche di un tema di stratificazione della popolazione: quella giovane si aspetta un accesso rapido e facile ai servizi, anche al costo di meno continuità assistenziale, ad esempio con i “walk-in-centres”, luoghi dove si può accedere facilmente a un servizio medico senza prenotazione e senza che si debba essere necessariamente visti dal medico di medicina generale a cui si è iscritti. Molti di loro, probabilmente, si affiderebbero anche a sistemi automatizzati per cui, per problemi minori, vengono date indicazioni e prescrizioni in base ad algoritmi validati e testati (si veda l’esempio di Babylon in Regno Unito).
Per i pazienti di mezza età, invece, il tema principale è la prevenzione delle malattie croniche e la facilità di accesso agli screening. Qui, il potenziamento della prevenzione, dentro e fuori le case della comunità, diventa centrale e l’accesso agli screening dovrebbe essere facilitato con sistemi di prenotazione elettronica e la scelta del luogo dove la prestazione è erogata. Infine, per le persone più fragili, per le quali le case della comunità hanno sicuramento più senso, il tema centrale diventa la continuità assistenziale e la capacità non solo di offrire servizi di prossimità, ma di facilitare l’assistenza al domicilio del paziente (come d’altra parte previsto dall’ambizioso potenziamento della copertura di questi servizi per la popolazione over-65).
In sintesi, si può affermare che la casa della comunità è sicuramente un tassello importante del potenziamento dell’assistenza territoriale, ma rischia di proporre un modello un po’ arretrato rispetto alle dinamiche demografiche, tecnologiche e dei profili di utilizzo dei servizi.
Il secondo aspetto critico riguarda l’avere prodotto un documento programmatorio per l’assistenza territoriale distinto da quella ospedaliera. Se per un lato questo è comprensibile per un’azione di ribilanciamento, rispetto al Dm70, dall’altro rischia di favorire una frattura pericolosa. L’ospedale è e rimarrà il cuore delle conoscenze e competenze specialistiche e come tale continuerà a essere il punto di riferimento per diagnosi e terapie di pazienti con eventi acuti, ma anche con condizioni croniche. Come insegna la psichiatria, il modello più adatto per coniugare prossimità, territorialità, specializzazione e servizi ospedalieri sta in logiche dipartimentali che combinino ospedale e territorio. Non c’è cenno del tema nel Dm71 e questo potrebbe portare a una pericolosa divisionalizzazione della sanità con due ambiti, sempre che l’assistenza territoriale riesca veramente a decollare, scoordinati tra di loro. Ma forse, cercando di essere ottimisti, il tema della ricomposizione dei rapporti ospedale-territorio potrebbe essere il prossimo passaggio del percorso di programmazione.
Funzionalità ed efficienza
C’è poi il tema della funzionalità e dell’efficienza. L’istituzione di strutture di prossimità solleva il problema della numerosità dell’utenza e della disponibilità di professionisti. Per esempio, per i consultori familiari è previsto uno standard di un consultorio ogni 20 mila abitanti, fino a uno ogni 10 mila abitanti nelle aree rurali e interne, tra l’altro quelle dove la fertilità è più ridotta. Si tratta di uno standard irrealistico e chiaramente inefficiente. Facendo solo riferimento al percorso nascita e all’assistenza neonatale, si tratterebbe di dotare il Sistema sanitario nazionale di un consultorio ogni 60/70 bambini nati all’anno (30/35 se lo standard è un consultorio ogni 10 mila abitanti). Tra l’altro, il percorso nascita non può rimanere completamente all’interno delle case della comunità perché coinvolge necessariamente interventi da prestare in regime ospedaliero (per esempio l’amniocentesi). Ma anche se si vuole considerare tutta la parte relativa alla salute riproduttiva, si deve tenere conto che i bisogni dei giovani (per esempio sulla parte anticoncezionale) sono sostanzialmente cambiati con radicali modifiche socio-culturali che hanno visto, sia nelle famiglie che nella scuola, una maggiore attenzione a questi temi rispetto a 30 o 40 anni fa, quando i consultori furono promossi e istituiti. Diverso è il tema della salute mentale dei giovani, particolarmente colpiti dalla crisi pandemica. Ma qui occorre un ragionamento più ampio, che riconosca la necessità di un impegno maggiore del Ssn per problemi psicologici non gravi e di un raccordo con i centri di salute mentale.
In sintesi, il Pnrr è una grande occasione anche per la sanità perché mette a disposizione risorse per investimenti strutturali e tecnologici, ma lascia aperto il tema delle conseguenze sulla spesa corrente. Inoltre, sebbene innovativo e con una buona sintesi tra principi, azioni e standard, il Dm71 ha importanti limiti che dovrebbero essere affrontati in tempi brevi.
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Paola Ronca
Sia questo articolo sia alcuni precedenti (dello stesso autore) su PNRR e Sanità sottolineano la necessità che Rinascita e Resilienza per la Sanità dovrebbero prevedere reti territoriali di servizi con sedi fisiche che siano in grado di garantire “servizi accessibili per via telematica”, colmando tra l’altro un gap della Sanità pubblica nazionale rispetto a quanto già in funzione in altri paesi europei.
A questo proposito posso sottolineare che non si tratterebbe di partire da “zero”, in quanto piattaforme di telemedicina, specificatamente sviluppate, e funzionanti, in Italia esistono già e sono adottate da istituzioni sanitarie private; fra le più avanzate e articolate, qui sotto il sito di una start up di cui sono al corrente:
http://www.welmed.it
Se l’autore dell’articolo è interessato posso procurare ulteriore materiale informativo più specifico
Marcello
Vorrei partire da un dato. In Italia ad oggi si contano oltre 162 mila decessi da covid-19, in poco più di due anni di pandemia. Durante il secondo conflitto mondale1940.1945 in Italua si sono stmate 155 mila morti di civili. Quindi per la pandemia sono krti più italiani che nella seconda guerra mondilae. L’Italia ha avuto il pià alto tasso di mortalità tra i malati di covid nel mondo (attorno al 15%) cioè nel nostro paese morivano 15 persone su 100 che si ammalavano, fino all’introduzione di vaccini. Il tasso di mortalità per milione di abitanti è per l’Italia di 2,657 decessi, inferiore tra i 10 paesi più ricchi (industrializzati dicono i colti) del mondo solo agli STati Uniti che di morti ne contano 2.983.
Allora un paese serio con dei governanti seri, partirebbe da questo dato e riprogetterebbe l’intero sistema santario nazionale, che non so in quale luogo viviate ma vi comunico che è al collasso e si regge, ammesso che abbia ancora un senso usare questa espressione, solo e ripeto solo sulll’abnegazione di personale malpagato e distrutto da turni orami insostenibili. Altro che struture territoriali, Occorrono ospedali e tanti, personale, attrezzature, in breve un nuovo sistema sanitario nazionale Universale e gratuito. Altro che bonus facciate, ristori ecc. Altro che parlare di coniugare privacy e controlli fiscali. Abbiamo un tasso di evasione fscale che sottrae al paese un gettito annuo pari all’intero PNRR. Cominciamo a dire e fare cose serie.