Cresce l’occupazione in Italia. Il recupero è quasi del tutto dovuto al lavoro dipendente ed è trainato dalle varie forme di contratti a tempo determinato. Ci sono già gli strumenti per controllarne la corretta applicazione ed evitare gli abusi.

La ripresa dell’occupazione

Nei primi mesi del 2022 in Italia gli occupati sono aumentati, secondo l’indagine Istat sulle forze di lavoro, proseguendo il trend di recupero avviato da circa un anno. Tre appaiono gli elementi salienti della dinamica, sulla base dei dati destagionalizzati:

  1. il livello dell’occupazione (numero di occupati: 23 milioni a marzo 2022) è quasi ritornato a quello antecedente la pandemia che era, a giugno 2019, di 23,2 milioni; nel contempo, il tasso di occupazione ha già superato, sfiorando il 60 per cento, tutti i livelli precedenti: ciò è dovuto alla sottostante dinamica demografica di contrazione della popolazione in età lavorativa. I miglioramenti del tasso di occupazione, pertanto, non sono più da considerarsi automaticamente segnali positivi;
  2. il recupero degli occupati è praticamente tutto attribuibile al lavoro dipendente;
  3. è cresciuto molto, negli ultimi mesi, il lavoro a termine tanto che a febbraio-marzo ha raggiunto l’incidenza del 17,5 per cento sul totale del lavoro dipendente: è il nuovo massimo storico, avendo superato, seppur di qualche decimale, l’incidenza osservata prima della pandemia e prima del cosiddetto “decreto Dignità” (primavera-estate 2018: valori attorno al 17-17,2 per cento).

Quest’ultimo aspetto ha attirato particolare attenzione. In molti discorsi in occasione del 1° maggio è stato ripetutamente affermato che “tutta la nuova occupazione è precaria” e, sulla base anche di suggestioni provenienti da recenti iniziative spagnole, sono state affacciate proposte ritenute semplificatrici e risolutrici, come l’introduzione di “un contratto unico di inserimento al lavoro a contributo formativo e finalizzato alla stabilità occupazionale”.

Cosa è successo tra febbraio 2020 e febbraio 2022

Per capire qualcosa in più di quanto sta succedendo è indispensabile ricorrere ai dati amministrativi, perché quelli Istat-forze di lavoro non consentono l’analisi distinta delle diverse tipologie di rapporti a termine, che rispondono a diverse esigenze settoriali e strutturali.

Utilizzando i dati Inps sulla variazione delle posizioni di lavoro per singola tipologia contrattuale (imprese private extra-agricole) possiamo osservare quanto accaduto a partire dall’arrivo della pandemia (marzo 2020) fino a febbraio 2022 (ultimi dati disponibili pubblicati in questi giorni in Inps, Osservatorio precariato).

Ricaviamo che:

  1. le posizioni di lavoro a tempo indeterminato sono continuativamente aumentate: nel periodo analizzato sono cresciute di quasi 400 mila unità (ovviamente perché “protette” nelle fasi più acute della pandemia dal ricorso alla Cig Covid e dal contestuale blocco dei licenziamenti);
  2. l’apprendistato non ha sostanzialmente variato di consistenza;
  3. c’è stato un “rimbalzo” di rilievo post pandemia delle posizioni a tempo determinato: nei momenti di lockdown e di diffusione del virus (primavera 2020 e successivo autunno-inverno) erano diminuite (a dicembre 2020 quasi -200 mila), data la fortissima contrazione delle relative assunzioni; il recupero è “decollato” nel 2021 e a febbraio 2022 il livello risulta superiore a quello di 24 mesi prima per circa 200 mila unità; da notare che queste posizioni di lavoro sono cresciute soprattutto al Sud, trainate dal settore costruzioni;
  4.  soprattutto al Nord è aumentato, rispetto ai livelli pre-pandemici, il ricorso al lavoro somministrato: a fine febbraio 2022 il livello superava quello precedente al Covid per circa 100 mila unità;
  5.  il lavoro intermittente, che caratterizza in particolare il comparto alloggio-ristorazione, dopo la flessione nell’inverno 2020-2021 è ritornato sostanzialmente sui livelli antecedenti;
  6. il lavoro stagionale ha evidenziato il consueto ciclo con il picco estivo: la stagione estiva 2021 è stata meno compressa di quella 2020, mentre le stagioni invernali sono state significativamente condizionate dalla situazione sanitaria.
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Ne emerge dunque un quadro variegato: le tipologie di contratti a termine hanno accompagnato la ripresa occupazionale in misure e scansioni diverse, in risposta agli andamenti della domanda di lavoro.

Rapportando queste variazioni ai dati di stock relativi ai dipendenti delle imprese private extra-agricole – per quanto si tratti di valori imperfettamente confrontabili per questioni metodologiche – si può stimare che a febbraio 2022 rispetto a febbraio 2020 le posizioni di lavoro a tempo indeterminato siano aumentate attorno al 3-4 per cento, mentre l’insieme delle tipologie di rapporti a termine ha avuto un incremento attorno al 12 per cento, con la punta massima nel somministrato: +30 per cento.

I limiti dei contratti a termine

È utile, pertanto, riproporre continuamente l’interrogativo se il loro livello complessivo sia eccessivo e ingiustificato e quanto siano valide le sottostanti ragioni: sostituzione di personale in malattia, maternità o altro? picchi produttivi? stagionalità strutturale? surrettizi periodi prova? A questo proposito sono utili varie analisi dell’Osservatorio di Veneto Lavoro, che mettono in evidenza il peso delle singole “funzioni” dei contratti a termine e l’effettiva esistenza di “posti di lavoro a termine” che non possono certamente dar luogo a “assunzioni a tempo indeterminato”.

Occorre infine ricordare, per quanto riguarda la regolazione della materia, che il peso dei contratti a termine sta necessariamente dentro parametri definiti da disposizioni normative, le quali stabiliscono tre tipologie di limiti:

  1. limiti di tipo qualitativo, come la “causale” che il “decreto Dignità” ha reintrodotto come necessaria in alcuni casi per i contratti a termine (per esempio per proroghe e rinnovi). Non è la regolazione migliore: lascia ampi margini di incertezza e possibilità di contenzioso di cui nessuno sente il bisogno;
  2. limiti di tipo quantitativo, a carico congiuntamente di impresa e lavoratore: per esempio, durata massima di un singolo rapporto di lavoro a termine (max 12 mesi), numero massimo di proroghe (quattro), durata massima della successione di contratti (24 mesi), durata minima degli intervalli tra un rapporto di lavoro e il successivo (10 o 20 giorni a seconda della durata del primo contratto), numero massimo di giorni in un triennio nel caso di lavoro intermittente (400 giorni), e così via. I tanti limiti – qui solo parzialmente ricordati – sono finalizzati a impedire la fidelizzazione tra lavoratore e impresa in un contesto di precariato protratto: vogliono evitare la trappola della precarietà proibendo l’impiego prolungato del dipendente con contratti a termine; indirettamente però lo obbligano, seppur a fin di bene, a rinunciare a occasioni di lavoro; 
  3. limiti di tipo quantitativo a carico esclusivamente dell’impresa: per esempio, quote sul totale degli organici (20 per cento salvo deroghe Ccnl, esclusi lavoratori stagionali), numero minimo di rapporti trasformati per riutilizzare la tipologia contrattuale (20 per cento di rapporti trasformati per le imprese oltre i 50 dipendenti). Sono i limiti più diretti e più facilmente controllabili per impedire l’allargamento oltre le soglie volute dei rapporti a termine.
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Occorre analizzare accuratamente l’efficacia e la coerenza di questa ampia serie di indicatori quantitativi di contenimento – a volte allargati dai contratti collettivi di lavoro – ed eventualmente stringere i bulloni su obiettivi chiaramente indicati e fissati (e validi anche per il settore pubblico, che non di rado ama assegnarsi norme meno vincolanti di quelle che vengono definite per il settore privato). Non occorre inventarsi soluzioni rivoluzionarie che poi non risolvono granché. Una volta definiti e rispettati i limiti, il risultato che ne deriva non può destare particolari sorprese.

Ci sono poi anche gli abusi: quote non rispettate, reiterazione di contratti contro le norme e così via. Qui si apre la partita dei controlli: che non sono difficili se si punta sui limiti quantitativi. E molto si può fare, oltre che con le ispezioni, con la vigilanza documentale che implica lo sviluppo e il miglioramento delle competenze pubbliche nel trattamento dei numerosi dati che l’amministrazione possiede (e usa scarsamente, aiutata anche dalla scusa della privacy). Proprio su questo ha insistito molto e opportunamente la Relazione finale del Gruppo di lavoro ministeriale sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia.

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