Partecipare o fruire delle attività culturali favorisce la formazione di competenze trasversali sempre più richieste nel mercato del lavoro. E dunque facilita l’integrazione economica. Le politiche culturali si rivelano così politiche di welfare.
La segmentazione del mercato del lavoro
Nel mercato del lavoro alcune categorie di lavoratori – e, in particolare, gli stranieri – sono caratterizzate da una più elevata disoccupazione. E anche quando sono occupati, questi lavoratori hanno posizioni in settori con salari inferiori alla media. In molti casi il fenomeno è da ricollegarsi a un livello di istruzione più basso, ma si tratta spesso di lavori manuali dove il titolo di studio è poco rilevante, mentre più importante è la distanza linguistica, che misura sia le difficoltà riscontrate nel parlare la lingua del paese di destinazione sia una forma di distanza culturale, che rende difficile la comunicazione e limitata la capacità di crescita occupazionale. Si crea, quindi, una segmentazione nel mercato del lavoro dove gli stranieri occupati – e alcuni lavoratori nazionali – lavorano in settori con poca capacità di crescita salariale e poca sicurezza dell’occupazione.
Un mio lavoro con Claudia Villosio mostra, tuttavia, che nei settori dove in Italia sono concentrati gli stranieri (73 per cento) anche i lavoratori nazionali hanno lo stesso profilo salariale. Sembrerebbe, quindi, che da un lato non ci sia alcuna discriminazione salariale e dall’altro che distanza linguistica e culturale non siano la causa della segmentazione.
Ma se analizziamo la probabilità di uscita dai settori a basso salario, le distanze linguistiche e culturali diventano cruciali, come pure la permanenza nel paese di destinazione che contribuisce alla conoscenza della sua lingua e della sua cultura, intesa come modalità di comunicazione e di socializzazione, oltre che di valori sociali e individuali.
Detto in altri termini, la segmentazione – e tutto ciò che da essa consegue – è riconducibile alla mancanza di competenze trasversali (soft skills) che sono molto difficili da costruire, richiedono tempo e la familiarizzazione con eventi che producono emozioni in grado di accelerare l’avvicinamento culturale.
L’importanza della cultura
Per questi motivi, sempre più attenzione viene riservata alle attività culturali. E la ricerca empirica, peraltro sterminata, mostra gli effetti importanti che producono sugli individui sia la partecipazione passiva – come la visita a un museo – sia quella attiva – come far parte di un coro. Per esempio, gli indicatori fisiologici rivelano una riduzione del cortisolo, l’ormone dello stress, mentre salgono le endorfine: si crea così un effetto positivo sulla salute, ma anche sull’umore delle persone. Dal canto loro, gli indicatori psicologici mostrano una crescita dell’autostima, che si trasforma in crescita dell’auto efficacia, e ciò fa sì che le persone riescano ad affrontare i propri problemi in modo più costruttivo e risolutivo. Per esempio, utilizzano strategie più efficaci nella ricerca di lavoro.
Ma la partecipazione ad attività culturali tende anche a cambiare la relazione con gli altri, creando solidarietà (bonding) con i colleghi con cui la si si condivide. Non solo: l’apertura alle attività culturali costruisce un ponte con la cultura del paese di destinazione (bridging). La lista delle attività che accorciano le distanze culturali può essere molto lunga: per esempio, cinema, teatro, concerti, danza, eventi sportivi.
L’avvicinamento culturale sembra dunque favorire la creazione di competenze trasversali che incentivano l’inclusione economica. L’alto numero di ricerche che arrivano a questa conclusione compensa il limitato rigore nell’assicurare un effetto certo che tende a invertire la tradizionale sequenza, dove la ricerca del lavoro costituiva un prerequisito all’integrazione sociale e culturale. Queste ricerche sottolineano invece come l’avvicinamento culturale rappresenti un prerequisito all’integrazione economica e come le politiche culturali si rivelino anche politiche di welfare.
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Alesssandra Venturini e’ attualmente Professore di Politica Economica all’Universita’ di Torino.
Ha studiato Economia all’Universita’ di Firenze ed ha ottenuto il Ph.D presso l’European
University Institute nel 1982.
E’ stata Visiting Professor alla Brown University (Providence, R.I) dove ha insegnato Economia del
Lavoro e Microeconomia. Ha iniziato la sua carriera accademica all’Universita’ di Firenze (1985-
92) che e’ continuata all’Universita’ di Bergamo (1992-98) e di Padova (1999-2002) prima di
arrivare all’Universita’ di Torino.
I suoi interessi di ricerca sono l’Economia del Lavoro e dal 1986 la Migrazione nelle sue varie
implicazioni. E’ stata Visiting Researcher all’Institute of Development Studies dell’Universita’ di
Essex a Brighton, presso International Institute of Labour Studies dell’ ILO a Geneva numerose
volte. Ha collaborato con l’OCDE, , l’International Institute of Labour Studies presso ILO, con
ECA della World Bank e negli ultimi anni con il progetto CARIM presso EUI.
E’ membro di numerose associazioni scientifiche AIEL, EALE, ESPE, Sociata’ degli Economisti
ma anche di centri di ricerca internazionali: dell’IZA dal 1999, di CHILD dal 2000, di FIERI dal
2002.
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