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Il prezzo politico dell’inflazione

L’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche e dei beni alimentari comporta una perdita di consenso per i governi nei paesi democratici e malcontento e rivolte in quelli autocratici. Solo la cooperazione internazionale può arginare la spirale.

Prezzi e consenso

La miglior cura a un aumento del prezzo del petrolio è l’aumento del prezzo del petrolio. Così recita un vecchio aneddoto caro a molti economisti, che ricordano come un aumento del prezzo del greggio, anche se nel breve periodo ha scarso effetto sull’offerta, ne riduce la domanda e per questa via tende a ridurne i prezzi.

Se questo è quanto suggerisce la teoria economica, perché molti governi reagiscono agli aumenti delle materie prime energetiche calmierandone i prezzi con sussidi pubblici? Perché non vengono in soccorso dei ceti più deboli con altri tipi di aiuti, lasciando che i prezzi giochino il loro ruolo? La risposta è molto semplice: l’aumento del prezzo della benzina fa perdere consenso politico.

In un recente lavoro Rabah Arezki e i suoi coautori verificano come, su un ampio campione di paesi e in un lungo intervallo di tempo, un aumento del prezzo del petrolio ponderato per l’intensità energetica provochi nei paesi democratici una significativa diminuzione della probabilità dei presidenti o dei primi ministri in carica di essere rieletti. Emblematici in proposito i casi di Gerald Ford e Jimmy Carter che non riuscirono a conquistarsi un secondo mandato alla presidenza degli Stati Uniti, rispettivamente, nel 1976 e nel 1980 a seguito della prima e seconda crisi petrolifera. L’ironia della storia volle poi che fosse stato Carter a nominare a capo della Fed Paul Volker, che più di ogni altro governatore riuscirà con un’energica azione a vincere l’inflazione, che attanagliava il mondo da oltre un decennio.

Oggi, la bassa popolarità di Joe Biden ha molte motivazioni, ma certamente deriva anche dal fatto che gli americani debbano spendere cinque dollari al gallone quando fanno il pieno di benzina. La constatazione che in molti casi il caro petrolio dipenda da fattori esterni, quali il comportamento aggressivo della Russia di Putin o l’embargo imposto dai paesi arabi produttori di greggio dopo la guerra del Kippur, non impedisce agli elettori di ritenerne responsabili i loro governi. In questo contesto si capisce come la vigorosa politica della Fed nel combattere l’inflazione, anche se carica d’incognite circa la tenuta della ripresa economica, è vista con benevolenza dall’amministrazione Biden.

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La letteratura economica ha individuato molte cause esogene che possono influenzare il comportamento degli elettori. Dai disastri naturali ai risultati sportivi e persino agli attacchi dei pescicani. Tuttavia, almeno nei paesi democratici, l’alta inflazione, assieme alla crescita economica, gioca un ruolo fondamentale nel determinare i risultati elettorali.      

Diversa è la situazione nei paesi autocratici più poveri, dove il contratto sociale sembra prevedere un maggiore intervento pubblico sui prezzi dell’energia. Per questi paesi il lavoro di Arezki mostra come un aumento dei prezzi del petrolio provoca un aumento dei sussidi pubblici, una crescita del debito pubblico e una riduzione delle riserve ufficiali. Oggi, tuttavia, i debiti pubblici di questi paesi sono già appesantiti dalle politiche economiche messe in atto durante la pandemia. Inoltre, la contemporanea forte crescita dei prezzi delle materie prime energetiche e alimentari produce una miscela esplosiva che rischia di generare malcontento, rivolte e la caduta dei regimi più fragili. Un modello statistico messo a punto dall’Ecomomist e pubblicato nell’ultimo numero mostra come un aumento dei prezzi delle materie agricole ed energetiche genera instabilità politica e rischio di default. Secondo queste stime, paesi come la Tunisia, l’Egitto il Pakistan, il Kazakistan, il Turkmenistan, la Turchia, l’Uganda, il Perù rischiano rivolte popolari simili a quelle a cui abbiamo assistito durante le primavere arabe del 2011 (altro periodo di forti aumenti delle materie agricole) che condussero alla caduta di numerosi regimi, a guerre terribili, come quella in Siria e in Yemen, e a 140 mila morti. Il Fondo monetario internazionale stima poi che 41 paesi siano molto vicini a una situazione di “debt distress”, che spesso si trasforma in un violento cambio di regime, come quello recentemente occorso nello Sri Lanka.

Il ruolo delle organizzazioni internazionali

In un contesto internazionale particolarmente complesso come quello attuale di confronto militare con la Russia, economico con la Cina e culturale con molti paesi in via di sviluppo, trovare la quadra a una simile situazione non appare semplice. Certamente le organizzazioni internazionali potrebbero contribuire in maniera efficace: l’Onu, per esempio, potrebbe giocare un ruolo di mediazione molto più credibile da quello giocato dalla Turchia nel liberare il grano ucraino dai porti del mar Nero. Il Fmi potrebbe emettere una nuova trance di diritti speciali di prelievo, dopo quella decisa durante la pandemia, che ha dato un’importante boccata di ossigeno a molti paesi indebitati. La Banca mondiale potrebbe cercare di aiutare in maniera più circostanziata molti paesi poveri in cerca di finanziamenti. Infine, la World Trade Organization potrebbe tentare di rimettere in discussione molti dazi imposti dall’amministrazione Trump e mai eliminati. Tutto questo però richiede una visione più ampia dell’atlantismo proposto dall’amministrazione Biden e dall’europeismo di Bruxelles. Tuttavia, la debolezza politica dei leader dai due lati dell’Atlantico rende la prospettiva più difficile da raggiungere. Ma come ebbe a dire il grande politico britannico Benjamin Disraeli “La disperazione è la conclusione degli stolti”.

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Il Punto

  1. Savino

    Gli Stati veramente moderni e seri, che pongono al centro l’essere umano, in queste circostanze in qualità di lavoratore, consumatore e risparmiatore, si adoperano per difendere i posti di lavoro ed il potere d’acquisto dei redditi in caso d’inflazione con meccanismi di adeguamento salariale e redistribuzione della ricchezza, anche perchè è la domanda e non l’offerta che fa il mercato, come ci ha mostrato già il periodo della pandemia. Se si vuole davvero la ripresa bisogna aiutare concretamente la domanda senza avere paure di effetti ciclici inflazionistici a catena che nella realtà non esistono, piuttosto va fermata la spirale della speculazione mettendosi dalla parte di chi vorrebbe spendere con maggiori controlli.

  2. Firmin

    Il mercato trova quasi sempre una soluzione ai problemi economici, come la fissazione di un prezzo “sostenibile” per il petrolio. Questo non significa affatto che sia l’unica soluzione possibile e tantomeno che sia la migliore. Le soluzioni “politiche” possono essere altrettanto discutibili, ma non possono essere scartate a priori . Se il costo dell’energia fossile fosse rimasto elevato come negli anni 70, invece di convergere verso valori più “accettabili” grazie all’aggiustamento della domanda, forse oggi avremmo già le centrali a fusione.

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