Il nuovo Codice europeo contro la disinformazione è un esempio di co-regolamentazione. Rispetto a quello del 2018, prevede indicatori molto più precisi per misurare l’effettivo rispetto degli impegni presi dalle piattaforme e degli altri firmatari.
Il percorso di lavoro
La prima parte di questa analisi relativa alla migrazione di idee costituzionali dagli Stati Uniti all’Europa si concludeva facendo emergere come una importazione forzata della metafora, tutta americana, del libero mercato delle idee potesse avere implicazioni (negative) in tema di politica del diritto quanto alla scelta, da parte della Commissione europea, più adeguata per contrastare il dilagante fenomeno della disinformazione online.
Più precisamente, non è un caso che il primo Codice di condotta del 2018 contro la disinformazione – che pure rappresentava un unicum a livello mondiale quale modello di impegno volontario ad adottare una serie di misure che contenessero il fenomeno da parte del potere digitale privato – sia stato deludente quanto a vaghezza degli obblighi assunti da parte delle stesse piattaforme e l’assenza quasi completa di criteri per la verificabilità e la misurabilità dei limiti volontariamente assunti.
A partire dall’autunno del 2021, si è quindi deciso di riscrivere, sotto il coordinamento di chi scrive e alla luce delle linee guida della Commissione nel frattempo adottate, un nuovo Codice che potesse colmare le lacune del precedente ed essere uno strumento assai più efficace per contrastare un fenomeno che, intanto, era diventato di una gravità assoluta per gli effetti di inquinamento e di polarizzazione del discorso pubblico, che sempre più caratterizza le “digital agorà” ospitate dalle grandi piattaforme.
Rispetto al 2018 si avevano almeno quattro elementi aggiuntivi che non potevano che cambiare in meglio quanto realizzato con il primo Codice di condotta. In primo luogo, la varietà e diversità di provenienza dei firmatari, che non sono più soltanto le grandi piattaforme, ma comprendono anche esponenti della società civile, della comunità dei fact-checkers e delle società di pubblicità, il che evidentemente ha portato spesso a un aspro ma molto sano contraddittorio. In secondo luogo, c’era la consapevolezza che, dopo il fallimento dell’importazione statunitense del concetto di libero mercato delle idee, bisognava trovare una risposta prettamente europea conforme all’assetto valoriale del Vecchio Continente. In terzo luogo, le linee guida della Commissione fissavano la linea rossa al sotto della quale, in termini di protezione dei diritti, non si doveva andare. In quarto luogo e specialmente, c’è la prossima entrata in vigore del Digital Service Act, già approvato dal Parlamento europeo e mentre si scrive sul tavolo del Consiglio dei ministri, che farà dei codici di condotta, compreso quello appena presentato contro la disinformazione, strumenti privilegiati, seppure in modo contraddittorio, di co-regolamentazione. Il punto è passato inosservato ai più, ma tra le tante virtù (e qualche vizio) del Dsa vi è anche il tentativo di fare dei codici di condotta la sede privilegiata per andare oltre il dilemma pseudo-esistenziale già presente agli albori di internet, ovvero self-regulation versus hard law.
Il nuovo Codice ha quindi di fatto anticipato la prossima entrata in vigore del Dsa quale primo laboratorio di co-regolamentazione che, in futuro, potrà andare a toccare settori differenti rispetto a quello della disinformazione, come per esempio hate speech e disciplina pubblicitaria.
I punti chiave
Rispetto al Codice del 2018, il vero valore aggiunto è costituito da una presenza molto più massiccia e circostanziata degli indicatori delle prestazioni relativi alla effettività (e quindi misurabilità) degli impegni presi. Si fa riferimento ai Kpi (Key Performance Indicators) quasi del tutto assenti nel 2018, che nel nuovo Codice prendono il nome di Qre (Qualitative Report Elements) e Sli (Services Level Indicators). Si tratta di un elemento cruciale, perché nessun codice di condotta può essere preso sul serio se non ha criteri seri e rigorosi per verificare se e come gli impegni assunti dai firmatari vengano poi tradotti in azioni concrete.
Quanto alle novità sostanziali, partendo dal Preambolo, si può notare come esso faccia riferimento alle tradizioni costituzionali europee e al ruolo fondamentale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione.
Nel primo capitolo, relativo al cosiddetto Ad placement, uno dei capisaldi fondamentali è quello relativo alla trasparenza nei meccanismi di “content monetisation”. Grande risalto ha la lotta senza quartiere contro i professionisti della disinformazione, cercando di valorizzare la demonetizzazione delle risorse necessarie per inquinare il dibattito pubblico.
Nel secondo capitolo, relativo al tema caldissimo del political adversting, il Codice si sofferma molto sulla necessità di una chiara identificazione di cosa sia pubblicità politica sul web, con un sistema di labelling che deve essere il più chiaro e trasparente possibile.
Il terzo capitolo, relativo all’integrità dei servizi, ha un focus molto più accentuato rispetto al Codice del 2018 sugli sforzi (che devono essere verificabili) per innalzare il livello di sicurezza contro tattiche, tecniche e procedure, anche occulte, di disinformazione.
Il quarto capitolo, relativo al rafforzamento della posizione degli utenti dei servizi dei social network e delle grandi piattaforme, si concentra molto di più rispetto al passato sulle misure di mitigazione e attenuazione del rischio e su nuovi strumenti per rafforzare, per l’appunto, la posizione dell’internauta.
Il quinto capitolo, che è dedicato al rafforzamento della ricerca, enfatizza la necessità che i ricercatori che studiano i fenomeni di disinformazione debbano avere accesso ai dati necessari per poter portare avanti in modo indipendente ed approfondito i loro studi, ovviamente il tutto in conformità con la disciplina del Gdpr (General data protection regulation).
Il sesto capitolo, relativo alla questione cruciale del fact-checking si concentra sulla identificazione di una “fair financial contribution” a favore dei fact-ckeckers, per assicurarne indipendenza e dialogo con le piattaforme.
Infine, i capitoli su Trasparency Centre e Task Force sono essenziali perché caratterizzano l’identità dinamica del codice come work in progress la cui valutazione sulla effettività degli impegni e sulla sua generale implementazione deve essere, per l’appunto, continuativa.
Le elezioni italiane
Un’ultima nota: l’Italia è il primo paese europeo – viste le elezioni del 25 settembre – a cui si sarebbero potute applicare, almeno in teoria, le disposizioni, assai innovative, in tema di political advertising, presenti nel Codice. È vero che quest’ultimo concede ai firmatari un periodo di sei mesi per attuare le misure che si sono impegnati a realizzare, ma vista la codificazione (mai avvenuta prima) degli impegni, che anche se non formalmente vincolanti giocano sicuramente un ruolo di moral suasion piuttosto significativo, forse sarebbe stato il caso di aprire un osservatorio che potesse assicurare un monitoraggio rigoroso e continuativo sul rispetto delle disposizioni. Ne va del nostro livello di democrazia, che oggi passa (anche) da una seria lotta alla disinformazione, specie quella che, come è accaduto molte volte in altri ordinamenti anche dalle forti tradizioni liberali, influisce sull’esito del momento fondativo di ciascuna democrazia: quello elettorale.
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Luca Neri
Chi stabilisce cosa sia disinformazione, lo Stato? Una qualche authority? Vi rendete conto che state creando un ecosistema orwelliano? Vanno create le condizioni per una stampa libera e un mercato dell’informazione realmente competitivo. Non è imponendo ope legis “che si dica la verità” che si ottiene una migliore informazione. Tutto il contrario. SI apre all’arbitrio dei pochi che la controllano, essi siano gli editori (e nell’ottica della nuova regolamentazione europea, persino le piattaforme di social network diventano editori) o i burocrati.