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Fondo “loss and damage”, una soluzione dai piedi di argilla

Il bilancio della Cop27 è magro: ben pochi i progressi su questioni cruciali. Fa eccezione l’accordo sul fondo “loss & damage”. Ma l’iniziativa non sembra in grado di dare un contributo concreto alla soluzione del problema dei cambiamenti climatici.

Il magro bilancio di Cop27

La Cop27 è finita da qualche settimana e tanti sono i commenti e le valutazioni su come è andata. Per quanto ci riguarda, se dovessimo farla brevissima, diremmo: siamo stati facili profeti, non vi è stato nessun risultato concreto.

Come avevamo detto, il summit si è svolto in un quadro geopolitico ed economico molto problematico, cosa che ha reso comunque tutto più difficile. In aggiunta, la Cop27 egiziana doveva raccogliere l’eredità di una Cop26 di Glasgow che aveva sicuramente mostrato segni di vitalità, con la partecipazione dei principali leader mondiali e gli impegni presi dai paesi grandi emettitori, con le discussioni e i progressi – ancorché non decisivi – sul fronte dell’uscita dal carbone, della riduzione delle emissioni di metano, l’adattamento e naturalmente l’impegno su emissioni Net Zero.

Su questi fronti è successo davvero poco a Sharm El-Sheik. Il livello di ambizione, come si dice, non si è sicuramente alzato, se guardiamo alla mitigazione.

Il tema è centrale nelle Cop perché adattamento e finanza sono certo importanti, ma non vi è dubbio che se non si azzerano le emissioni di gas serra non si porranno mai le condizioni perché il fenomeno dei cambiamenti climatici a un certo punto si arresti. Ebbene, il Global Carbon Project mostra che le emissioni di CO2 da fonti fossili cresceranno quest’anno dell’1 per cento in seguito alla crescita dell’uso del petrolio e del carbone, un aumento del 5 per cento dal 2015, l’anno dall’Accordo di Parigi. Dalla Cop26 dello scorso anno solo 26 paesi su quasi 200 hanno rivisto il proprio piano di riduzione ai sensi dell’Accordo di Parigi (il cosiddetto Ndc o Nationally determined contribution). Il primo round di verifica del rispetto dei propri Ndc in base all’Accordo si terrà molto presto, nel 2023. C’è dunque poco tempo e scarsa volontà. Al solito, la sola Unione europea (qualcuno penserà con atteggiamento suicida) ha dichiarato di essere pronta a rafforzare il proprio impegno di riduzione delle emissioni al 2030 portandolo dal 55 al 57 per cento. Il suo primo vice-presidente Frans Timmermans ha mostrato i muscoli durante il summit, arrivando a minacciare di far saltare il tavolo se la dichiarazione finale non avesse ribadito l’impegno di 1,5°C come target di contenimento della temperatura. Non vi sono stati dunque impegni più netti circa l’uscita dal carbone e l’abbandono dei fossili.

Parzialmente meglio è andata sul fronte dell’adattamento, con i governi che hanno concordato la strada da seguire per il Global Goal on Adaptation (Gga): lanciato l’anno prima a Glasgow, si concluderà alla Cop28 e sarà alla base del primo Global Stocktake previsto per allora. Alla Cop27 sono stati assunti nuovi impegni per un totale di oltre 230 milioni di dollari da destinare al Fondo per l’adattamento: aiuteranno molte comunità tra le più vulnerabili ad adattarsi ai cambiamenti climatici attraverso soluzioni concrete.

Quanto alla finanza, lo Sharm el-Sheikh Implementation Plan prevede una spesa di 4-6 trilioni di dollari l’anno per realizzare la trasformazione globale verso un’economia a basse emissioni di carbonio. Ciò richiede un cambiamento rapido e completo del sistema finanziario e delle sue strutture e processi, coinvolgendo governi, banche centrali, banche commerciali, investitori istituzionali e altri attori finanziari. Da questo punto di vista, non si può non notare che l’obiettivo di 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020, che avrebbero dovuto essere messi a disposizione dai paesi sviluppati, non è stato ancora raggiunto.

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Il fondo “loss and damage”

In questo contesto è maturato il principale risultato della Cop egiziana: il fondo per il “loss and damage” (L&D). Per il progresso conseguito su questo fronte la grande maggioranza dei giudizi e delle valutazioni sulla Cop27 è stata positiva. Le Nazioni Unite hanno parlato addirittura di “breakthrough agreement”. Non c’è dubbio che il risultato ha salvato il summit, ma è lecito dubitare che sia stato un vero concreto progresso.

Quando parliamo di L&D facciamo riferimento al sistema di responsabilità, risarcimento e compensazione per i danni causati dal cambiamento climatico. I fondi dovrebbero aiutare quei paesi particolarmente vulnerabili ai cambiamenti del clima, dove i danni sono ingenti e la resilienza ridotta o assente (la Banca mondiale stima in 40 miliardi di dollari i danni delle inondazioni di quest’anno in Pakistan). Parliamo sia di eventi estremi, come uragani e ondate di calore, sia di eventi a sviluppo lento (“slow onset events”), come desertificazione, aumento del livello del mare, acidificazione degli oceani. Il punto è che colpiscono paesi la cui responsabilità in termini di emissioni è ridotta o minima (le emissioni dell’Africa sono il 2 per cento del totale). La responsabilità storica di questi eventi ricade invece sui paesi sviluppati, anche se attualmente va sempre più condivisa con paesi emergenti, come Cina e India, ma anche altri stati del G20.

Il tema L&D emerge e si inabissa in modo carsico: viene posto per la prima volta nel 1991, quando lo stato di Vanuatu propone un fondo assicurativo per i piccoli stati del Pacifico a rischio di innalzamento del livello del mare (solo il termine “assicurazione” finirà nel testo nella Convenzione quadro sui cambiamenti climatici di Rio nel 1992 senza altre rivendicazioni). Riemerge a Bali alla Cop13 del 2007, poi a Cop16 a Cancùn nel 2010 e finalmente a Cop18 di Doha nel 2012, quando due settimane di intenso negoziato portarono alla decisione di dare un assetto istituzionale al L&D nella Cop19 di Varsavia nel 2013 (il Doha Gateway). 

Molti considerano il L&D la “terza gamba” del negoziato sui cambiamenti climatici, accanto a mitigazione e adattamento. Più in dettaglio, L&D si verifica quando i costi dell’adattamento non sono recuperabili o quando gli sforzi di adattamento sono inefficaci o impossibili. Affrontare questo tema significa, da un lato, ridurre le perdite e i danni evitabili con la mitigazione e l’adattamento; dall’altro significa consentire il trasferimento dei rischi attraverso meccanismi assicurativi nonché permettere la riduzione di quelli non trasferibili attraverso fondi contingenti e reti di sicurezza sociali.

Nonostante il principio alla base del L&D e la sua articolazione ufficiale siano del tutto condivisibili, quello che ha frenato la discussione è stata probabilmente la politicizzazione da parte dei paesi in via di sviluppo, culminata proprio a Cop27. A Sharm, il redivivo gruppo dei G77 (in sostanza, il club dei paesi in via di sviluppo, che tra l’altro include Cina e India, creato nel 1964 in opposizione ai club dei paesi ricchi come Ocse e G7) è stato coinvolto direttamente nel tema L&D dalla presidenza egiziana. In sostanza, secondo l’interpretazione più politica, il fondo L&D è una compensazione, una riparazione per la responsabilità storica dei cambiamenti del clima, che porterebbe con sé la responsabilità legale illimitata dei danneggiatori. È stata questa interpretazione che ha fatto sì che diversi paesi sviluppati, a partire dagli Stati Uniti, abbiano sempre frenato la trattativa fino quasi a farla fallire.

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Le criticità

Vi sono diversi aspetti che minano alla base l’utilità di un fondo L&D. Il primo aspetto riguarda la responsabilità storica. Per cominciare, definirla e quantificarla è esercizio assai arduo, anche se alcuni economisti si sono recentemente cimentati nel quantificare l’entità dei danni che servirebbero da base per definire il contributo e la dimensione del fondo L&D, un compito impervio vista la natura globale, intertemporale, geograficamente molto differenziata dei danni. L’applicabilità del concetto stesso di compensazione e riparazione rimane molto dubbia. Da non storici, le riparazioni che ricordiamo sono quelle di guerra, laddove le responsabilità di danneggiatori e danneggiati sono nitide e la tempistica dei fatti ridotta e ben delimitata. Per fare un esempio diverso, non pare che qualcuno abbia chiesto o preteso compensazioni dalla Cina per i danni provocati dalla diffusione del coronavirus. Quantificare poi con sufficiente precisione la responsabilità dei singoli paesi per il periodo di tempo di propria pertinenza – un aspetto che sarebbe alla base della determinazione del contributo individuale al fondo L&D – è un altro difficile esercizio: quanto dovrebbe contribuire il nostro paese? Inoltre, come nel concetto di esternalità ambientale che illustriamo agli studenti, il danno ambientale è sempre associato al beneficio economico (senza acciaio non avremmo inquinamento ma nemmeno case, macchine e fabbricati): come tenere conto dei benefici della industrializzazione che hanno portato benessere (ovviamente in misura molto differenziata) anche ai paesi danneggiati? Dovremmo forse pensare a un “net” loss & damage? E poi dove finisce la responsabilità storica e comincia quella attuale? Questo aspetto appare rilevante alla luce dei comportamenti opportunistici di paesi come la Cina – membro dei G77 – che ha cercato furbescamente di vestire a Sharm gli stessi panni dei paesi danneggiati, pur essendo ormai da qualche anno un pesante danneggiatore.

È con queste premesse che il fondo L&D comincia il suo cammino nel negoziato. Anche se qualche paese – ad esempio, la Scozia e la Danimarca – ha già promesso un contributo, non pare vi siano le premesse perché l’iniziativa decolli davvero, diventando un fondo di aiuti per i paesi vulnerabili. I paesi ricchi non hanno avuto finora una condotta esemplare da questo punto di vista, mentre forse bisognerebbe riformare l’intera struttura degli aiuti ai paesi in via di sviluppo, da parte delle istituzioni internazionali, dei governi e dei privati, ispirandola interamente ai problemi dei cambiamenti climatici, ormai diventati il principale fattore di rischio.

Alla fine, rimaniamo convinti che il “grande progresso” di Sharm abbia i piedi d’argilla e costituisca più una vittoria politico-morale dei paesi poveri che non un contributo concreto al problema dei cambiamenti climatici. Piuttosto, rappresenta una manciata di granelli di polvere negli stanchi ingranaggi delle Cop che si svegliano dal letargo solo una volta ogni tanto. Ma questo, ovviamente, non basta.

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  1. Bylon

    L&D risarcimento per la responsabilità storica? a chi contribuisce per il 2% alla CO2, ma se l’Italia non arriva all’1%.
    Una MegaTruffa.
    Allora perchè non far pagare alla CINA che genera circ il 37% di CO2, perchè non far pagare alla CINA la responsabilità di danni prodotti dal COVID19?
    Ancora perchè non far pagare i danni causati dal comunismo?
    Forse uscire dall’europa sarebbe la soluzione piu’ saggia per risparmiare denaro, visto i ladri che vi circolano all’interno, ma anche CO2 per i viaggi che i parlamentari fanno con l’aereo naturalmente a nostro carico e per noi inutili.

  2. Leonardo Bargigl

    La proposta approvata dalla cop 27 è sacrosanta. Il criterio da seguire per la distribuzione della responsabilità è chiaramente quello delle emissioni cumulate. E’ molto più complicato determinare l’entità dei danni, ma una trattativa può trovare un punto di equilibrio. L’ostacolo principale è di natura politica e riguarda l’indisponibilità dei Paesi ricchi ad accettare la propria quota maggioritaria di responsabilità e gli impegni precisi che ne derivano.

  3. Roberto Falcone

    I seguenti grafici forniti dalla WMO indicano i livelli di concentrazione della CO2 sin dalla fine dell’ultima era glaciale e negli ultimi 80 anni.

    Il cambiamento climatico è l’effetto collaterale indesiderato delle tecnologie che hanno liberato gran parte del genere umano dalla fatica e dai rischi della vita e gli hanno permesso di proliferare. L’umanità trae l’energia che le necessita prevalentemente dall’estrazione di carbone e idrocarburi dal suolo e scarica nell’atmosfera i gas serra, composti prevalentemente da CO2, generati dalla loro utilizzazione ( combustione ) e dalla loro estrazione. La CO2 non è la sola componente del gas serra, ma ne costituisce la maggior parte ed è responsabile dell’80% dei suoi effetti. Inoltre è quella a più lunga permanenza. Quasi la totalità dei governanti del mondo ha condiviso l’obiettivo di arginare la causa dell’alterazione climatica con un percorso verso la così detta neutralità carbonica. All’IPCC è affidato il compito di rilevarne l’andamento e le sue conseguenze. L’Unione europea si è prefissa di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2055, il resto del mondo in date collocabili fra il 2060 e oltre. Raggiunto tale obiettivo la concentrazione dei gas serra inizierà a diminuire perché le piante e gli oceani assorbiranno CO2 in quantità superiore a quella che verrà emessa. Purtroppo però i grafici del WMO inducono a ritenere che, anche dopo che sarà stata raggiunta la neutralità carbonica, il livello della concentrazione di CO2 raggiunto in quel momento sarà tale da far continuare l’aumento della temperatura e le altre sue nefaste conseguenze. Quindi non basta smettere di scaricare CO2 nell’atmosfera, occorre anche prelevare quella che c’è per abbassarne il livello di concentrazione e trasformare l’energia in combustibili (Copyright Giorgio Parisi.). Fra le tecnologie per la cattura e l’utilizzo della CO2, ( CCS e CCU) vi è la Direct Atmosfere Capture (DAC) e la sua conversione in metano e altri idrocarburi combustibili da trazione, prodotti chimici e materiali da costruzione, mediante elettrolisi dell’acqua, unico vero processo di economia circolare. All’avanguardia nell’impiego di questa tecnologia vi sono alcune industrie come le statunitensi Carbon Capture e la Occidental Petroleum in associazione con la canadese Carbon Engineering che hanno annunciato l’anno scorso l’avvio di impianti industriali in USA. Questa tecnologia consentirebbe, tra l’altro, di mitigare l’innovazione “distruptive” della sostituzione dei motori endotermici con motori elettrici, quella che, ad esempio, la UE vorrebbe imporre già nel 2035. E’ possibile che la temperatura possa continuare ad aumentare sino a che il livello di concentrazione della CO2 tornerà a quello dell’inizio del XX secolo. In conclusione, è probabile che il clima alterato accompagnerà l’umanità ancora a lungo e con maggiore gravità. Ciò significa che inevitabilmente le prossime generazioni vivranno in un mondo diverso

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