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Dipendenti e autonomi di fronte alla flat tax

Il calcolo del carico fiscale complessivo dei lavoratori dipendenti deve comprendere anche i contributi pagati dalle imprese. Appare così chiaro come la flat tax avvantaggi le partite Iva e produca rischi per la sostenibilità del sistema di welfare.

Le parole della presidenza del Consiglio

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha scritto: “Si è detto che le nostre misure sulla flat tax per le partite Iva discriminano i lavoratori dipendenti: si sostiene la tesi che estendendo la flat tax per le partite Iva fino a 85 mila euro faremmo pagare molte meno tasse di quante ne pagano i lavoratori dipendenti. Falso. Un dipendente ha due terzi dei contributi a carico del datore di lavoro, un autonomo si paga i contributi interamente. A parità di remunerazione con la flat tax a 85 mila euro la partita Iva pagherà un po’ di più senza avere una serie di diritti che i lavoratori dipendenti hanno”.

Lezione n. 1 del corso di Scienza delle finanze: concetto di traslazione dell’imposta

Come si insegna nel corso di Scienza delle finanze, “è indifferente il lato di mercato su cui si introduce l’imposizione fiscale. Le imprese sono interessate al salario lordo (al lordo cioè di imposte e contributi), i lavoratori al salario netto. Nell’ equilibrio di mercato non fa nessuna differenza quale è il soggetto formalmente titolare dell’imposizione fiscale, il carico effettivo dipende dall’elasticità relativa dell’offerta e della domanda”.

Tradotto significa che l’argomento della presidente del Consiglio è scorretto. Il confronto tra lavoratori dipendenti e autonomi andrebbe fatto rispetto alla remunerazione al lordo dei contributi; da un punto di vista economico, non fa differenza se i contributi sono formalmente a carico dell’impresa o del lavoratore. Per dire, se la retribuzione lorda di un lavoratore è 1000 euro, con 360 euro di contributi totali, di cui due terzi, cioè 240 pagati dall’impresa e un terzo, cioè 120 dal lavoratore, la retribuzione netta (ma ancora al lordo delle imposte sul reddito da pagare) per il lavoratore è di 640 euro. Se invece imponessimo tutta la contribuzione sull’impresa, l’impresa pagherebbe 360 euro, il lavoratore nulla, ma la retribuzione netta sarebbe ancora di 640 euro; se la spostassimo tutta sul lavoratore l’impresa non pagherebbe nulla, il lavoratore riceverebbe 1000 euro, su cui però dovrebbe pagare 360 euro, con retribuzione netta di 640 euro.

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Tutto questo naturalmente vale dando il tempo alle forze di mercato di aggiustarsi a variazioni improvvise nel sistema fiscale (in equilibrio, come dicono gli economisti), che è però esattamente il caso presente, visto che non sono state introdotte variazioni di rilievo sul sistema contributivo e fiscale.

Se si fanno i conti giusti, è facile vedere che anche tenendo conto dei contributi, i lavoratori autonomi sono molto avvantaggiati dalla proposta relativa all’ampliamento della flat tax, nel senso che la somma di imposte sul reddito e contributi che i lavoratori dipendenti pagano sulla propria retribuzione lorda è molto maggiore di quella pagata dagli autonomi nel regime forfettario.

Il punto è già stato sottolineato su questo sito e a breve uscirà una nota più dettagliata con esempi sull’Osservatorio dei Conti Pubblici dell’Università Cattolica.

I rischi per il sistema di welfare

La presidente del Consiglio ha tuttavia ragione su un punto. I lavoratori dipendenti pagano una quota maggiore di contributi e questo, oltre a garantirgli una pensione più alta in futuro e offrirgli ulteriori garanzie, rappresenta una fonte di finanziamento importante per il sistema pensionistico, che è a ripartizione: in altre parole, i contributi pagati dai lavoratori di oggi finanziano i trattamenti pensionistici pagati ai pensionati attuali.

Ma questo è un problema, forse ancora più grave dell’indubbia iniquità introdotta nel campo dell’imposta dei redditi con l’ampliamento del forfettario. Con la riforma della flat taxprevista dalla legge di bilancio, diventerà ancora più conveniente per un’impresa trasformare un contratto da lavoro dipendente in un contratto di collaborazione, le cosiddette finte partite Iva, perché in quest’ultimo caso, i soldi necessari per garantire lo stesso stipendio al lavoratore al netto di imposte e contributi saranno meno. I lavoratori potrebbero avere un vantaggio nel breve periodo, nella forma di una più alta retribuzione al netto di imposte e contributi, ma al costo di minori garanzie e di minori trattamenti pensionistici in futuro.

Non è un caso che l’Italia abbia già la quota maggiore di lavoratori autonomi sul totale tra i paesi sviluppati (il doppio che in Germania e Francia). Ora la riforma del forfettario spingerà ulteriormente in questa direzione, con l’aggravante di una maggiore difficoltà a finanziare nell’immediato il sistema pensionistico e di welfare.

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21 commenti

  1. Enrico

    Complimenti all’autore per la pazienza con cui ha dovuto spiegare cose che invece dovrebbero essere ovvie per un policy maker. Le conseguenze macroeconomiche di questa ed altre distorsioni fiscali a favore delle microimprese e dei lavoratori autonomi sono sotto gli occhi di tutti: l’Italia ha troppe imprese piccole, che per questo non possono sfruttare le economie di scala e non hanno risorse per assumere personale qualificato. Il risultato è un sistema industriale in cui c’è poco spazio per l’innovazione, quindi la produttività ristagna; i salari sono bassi e il lavoro è precario (e quindi la domanda di consumi è poco dinamica); la formazione ha un rendimento bassissimo (tanto è vero che abbiamo una delle più basse percentuali di laureati in Europa). Purtroppo questa deriva non è certo imputabile solo all’attuale governo, ma è iniziata almeno dagli anni ottanta.

    • bob

      ..”l’Italia ha troppe imprese piccole,..”
      Può essere anche vero
      Ma non crede che questa fittissima rete d’ micro imprese in qualche maniera ha fatto da “rete di salvezza” per milioni di lavoratori che in qualche modo hanno portato il pane a cena?
      Provi ad andare da un consulente del lavoro e chieda di assumere un muratore veda cosa gli risponde.
      Come si fa a mettere sullo stesso piano e fare un confronto tra un lavoratore autonomo e un dipendente? Soprattutto se è un dipendente pubblico.
      Quando una” classe politica/ intellettuale” perde di vista la realtà in maniera così evidente le tragedie, la Storia ci insegna, sono alle porte…

      • Enrico

        Purtroppo non è un problema di burocrazia. Le microimprese sono oggettivamnete meno efficienti di quelle medio grandi perchè i costi fissi non sono proporzionali al volume della produzione e quindi pesano di più sui prezzi (e sui profitti) delle imprese di minori dimensioni. Pensi solo all’attrezzatura e al personale amministrativo minimi necessari in una officina o di un ufficio. In una mcroimpresa tutte queste risorse sono utilizzate dal solo proprietario invece di essere condivise da più dipendenti operativi, come in quelle medio-grandi. Naturalmnete possiamo scegliere un modello in cui l’occupazione è “salvata” dalle microimprese proprio grazie a questa ridondanza del personale, come in Italia, oppure uno in cui i lavoratori sono utilizzati in modo produttivo da imprese medio-grandi efficienti, come nei paesi normali. Tuttavia solo in quest’ultimo caso l’economia e l’occupazione possono crescere davvero. Inoltre non possiamo aspettarci che il personale ridondante sia pagato come quello efficiente, e questo crea un circolo vizioso di bassi salari, bassa domanda di lavoratori qualificati, bassa domanda interna e bassa crescita.

      • Michele

        Mi spiace ma ad ogni crisi è successo l’esatto opposto di quanto scrive, la rete di salvezza di microimprese che lei cita non è mai esistita. Al contrario le Partite IVA, siccome hanno le spalle strette, sono sempre state sistematicamente le prime ad andare in difficoltà durante le crisi.
        Alla loro debolezza aggiunga anche altri fattori: le partite IVA hanno sottratto 30 mld all’anno (media annua sugli ultimi 5 anni) di Irpef all’Erario (cioè a tutti noi), le partite IVA non innovano, non crescono (altrimenti sarebbe naturale l’evoluzione per esempio in società di capitali come una Srl), nella maggioranza dei casi non creano significativa occupazione (lavorano spesso da soli, o con altre persone ma prese anche esse a partita IVA o con pochissimi dipendenti, sempre che li mettano in regola).

        Sono tutti fattori che dovrebbero spingere il policy maker a disincentivare la scelta della ditta individuale, e incentivare l’aggregazione tra professionisti.

        • bob

          Allora le porto un esempio uno dei tanti. L’ Italia produce ed esporta nel mondo l’agro alimentare, fiore all’occhiello della nostra produzione. Il 90% sono micro-imprese, SrL comprese.
          Allora??

          • Michele

            Buongiorno Bob, mi spiace smentirla ma le partite iva che possono scegliere la flat tax sono persone fisiche. Lo dice la normativa. Le SRL sono persone giuridiche, nello specifico sono società di capitali.
            Saluti.

  2. 1.2.3x6=2

    La formazione, non è vero che ha un rendimento bassissimo per tutti.
    Se paragoniamo quanto viene pagato dalle strutture pubbliche, un ingegnere strutturista senior, con alto livello di difficoltà di studio, apprendimento e competenza di soluzioni, rispetto ad un medico junior appena laureato, la differenza è notevole.
    Senza contare che all’ingegnere è vietato esercitare come libero professionista.
    Se il confronto, addirittura, lo facciamo con lauree dove non si impara niente, ma che consentono incarichi da dirigente pubblico, il divario si moltiplica.

  3. Bylon

    Ma lo Stato Italiano le paga le tasse aisuoi dipendenti?
    Non credo!

    • Anna

      Sì. tutti glie enti pubblici pagano le imposte (come istituto di imposta) per i loro dipendenti, pagano l’irap, l’imu e via dicendo.

  4. Fabrizio

    Non dimentichiamo l’iniquità di trattamento tra le stesse partite IVA: sia una che guadagna 15.000 euro, sia una che ne guadagna 80.000, sempre il 15 % di imposta. Che però pesa molto di più sul piccolo lavoratore, alla faccia della progressività dell’imposta.

  5. lorenzo

    Mi ripeto: Perché in UK il governo di destra è stato costretto a cambiare verso solo all’accenno a diminuire le tasse, mentre in Italia tutti sono concordi salvo poi lamentarsi che sono limitate assistenza e previdenza?
    Inoltre equiparare chi ha redditi sui 15-20 k€ (che andrebbero tassati al 5%) a chi ne ha 85k€, è da criminali perché i primi dopo la tassazione vanno avanti con poco più di 1000€ al mese, mentre gli altri hanno in tasca più di 5000€ mensilmente!

  6. Giuseppe Amato

    Lei dott. Bordignon lascia trasparire una visione un po’ di parte. Innanzi tutto parlando della inclinazione ai monologhi dei leader politici cita Salvini e Berlusconi, ma omette i comunicati a reti unificate di Conte;
    In secondo luogo, pur essendo lei laureato in filosofia, si astiene dal porsi alcune domande che sul piano logico verrebbero spontanee dopo la lezione n.1 di scienza delle finanze. Giustamente si estende la prospettiva, ma non si include un punto fondamentale per calcolare quale sia il reddito netto. Quello del dipendente e’ indubbiamente il netto in busta, quello del professionista, no. Ci sono infatti costi molto rilevanti che il professionista sostiene che non sono deducibili in tutto o in parte o la cui deducibilità e’ ex lege spalmata in più anni. Questi costi contribuiscono ad assottigliare il reddito netto e mi pare sia scorretto non considerarlo.

  7. Maurizio Cortesi

    Articolo puntuale che evidenzia come ci sia bisogno di riforme strutturali sia del fisco, e non ci sarebbe solo l’IRPEF, che del walfare e quindi della stessa struttura del costo del lavoro dipendente, incluso quello pubblico che in effetti configura una colossale partita di giro . Ma il metodo cosiddetto pragmatico perde di vista proprio i nessi tra questi ambiti profondamente interdipendenti. In nome della competenza specifica si finisce per favorire una politica clientelare, a conferma che il professionismo borghese distorce il senso della politica che dovrebbe invece esprimere una visione d’insieme, cioè interdipendente e trasparente, delle relazioni economiche e soprattutto della finanza pubblica.

  8. Stefano

    Riflessione non proprio condivisibili sul piano fiscale.
    L’autore dimentica un particolare: la retribuzione lorda che assume il dipendente è quella al lordo dei contributi a suo carico (9,19%), non tiene conto della quota del datore di lavoro (23,81%).
    Diversamente qualora si escludesse da obblighi contributivi la quota a carico del datore il lavoratore avrebbe diritto a ricevere la quota di retribuzione lorda (90,81 + 9,19+23,81) e non mi sembra sia così.
    Il fatto è che il lavoratore autonomo dal suo fatturato deve recuperare la quota contributiva, mentre il lavoratore dipendente è pagata dall’azienda.
    Piuttosto che confrontare il prelievo complessivo tra le diverse categorie sarebbe interessante capire come a livelli di compensi bassi il regime forfettario (tenendo conto delle tax expenditures precluse ai soggetti in sostitutiva) sia meno conveniente del regime dei lavoratori dipendenti come reddito netto disponibile.
    Purtroppo molti autonomi non hanno possibilità di scelta e devono accettare di lavorare a partita IVA sebbene non sia conveniente perché imposta dal loro committente (alias datore di lavoro).
    Quello che bisognerebbe capire è se i coefficienti di determinazione forfettaria dei redditi sono ancora aggiornati rispetto alla redditività degli studi professionali ed imprese individuali (post pandemia) con la conseguenza che per molti potrebbe non essere conveniente uscire dalle regole ordinarie di determinazione analitica del reddito.
    Da ultimo forse dovremmo tutti pensare che, in una logica duale, il sistema di welfare pubblico non potrà essere alimentato a lungo solo dai redditi di lavoro dipendente quando le modalità di lavoro si allontanano sempre di più dal classico rapporto di lavoro subordinato per mischiarsi sempre con rapporti parasubordinati/autonomi, nonché con la riduzione del fattore lavoro per l’avanzamento tecnologico è sempre più frequente.
    La soluzione non è penalizzare gli autonomi per mantenere il serbatoio dei dipendenti ma trovare nuove soluzioni.

    • Luca

      Buongiorno Stefano, temo abbia frainteso totalmente quanto scritto dall’autore. Purtroppo in tanti fanno fatica a distinguere la cassa dalla competenza economica, gli aspetti economici da quelli finanziari.
      E’ indifferente chi formalmente ha l’obbligo di pagare i contributi INPS.
      La situazione attuale è più o meno questa: fatto 100 il reddito imponibile Irpef del dipendente, per l’azienda il costo è 130 (arrotondo per comodità): 100 di reddito tassabile + circa 10 di INPS a carico lavoratore (che sommati danno la sua RAL) + 20 circa di INPS a carico dell’impresa. Quest’ultima quando sceglie di assumere e offrire una RAL pari a 110, ragionerà quindi su un costo del lavoro (salari+oneri) pari a 130.
      Ipotizziamo che cambino le leggi e venga detto alle imprese che, a parità di RAL del lavoratore e di aliquote contributive, l’intero onere contributivo è formalmente spostato sul dipendente. A quel punto la retribuzione del dipendente al lordo dei contributi a suo carico (attualmente 110) diverrebbe 130.
      L’azienda anziché pagare 20 a nome proprio e trattenere 10 al dipendente per poi versarli, si troverà a pagare 30 interamente trattenuti al dipendente. Costo totale a conto economico: 30+100=130. Totale retribuzione imponibile Irpef=100.
      Non cambia assolutamente nulla.

      • Stefano

        Mi spiace credo che Lei non abbia compreso come funziona nella realtà economica.
        Io non tratto con il mio dipendente l’imponibile IRPEF al netto di contributi ma solo il lordo.
        Solo le società di calcio trattano con i giocatori di calcio in qualità di lavoratori subordinati a tempo determinato il netto in busta paga.
        Agli altri comuni mortali come azienda offro 100 e trattengo al mio dipendente 10 e verso a lui 90 . Se lui fosse soggetto a detassazione dovrei versare 100.
        Il costo contributivo a carico azienda a CE è di 20, non di 30. Lei confonde il conto finanziario INPS in cui vanno i versamenti complessivi a carico azienda e le trattenute previdenziali a carico dipendente con il conto economico B9.b)
        Se si ponesse a carico del dipendente l’intero onere contributivo il dipendente dovrebbe trattare con l’azienda una retribuzione maggiore per pagarsi anche la quota aggiuntiva di 20 (ed il costo del lavoro a CE si in quel caso sarebbe di 120), in egual misura come oggi un professionista deve avere un volume di ricavi sufficienti a versare i contributi alla cassa o gestione separata INPS (salvo il contributo integrativo del 4% che viene pagato al cliente).
        In questa seconda ipotesi lei avrebbe annullato il cuneo contributivo sul lavoro dipendente, ma, a seconda la forza di contrattazione dei sindacati, dovrei accettate un incremento del costo del lavoro.

        • Luca

          Gentile Stefano, tempo di dover constatare che non ha compreso nemmeno il mio commento. E mi permetta di dirle che le competenze contabili non sono il suo forte. Io ho la fortuna di essere a capo dell’amministrazione di un’azienda che ha 200 operai e 70 impiegati, torno a ripeterle che le scelte dell’azienda in termini economici si prendono sul costo del lavoro lordo per l’azienda (salario lordo dipendente+oneri sociali a carico dell’azienda), che nel mio esempio era 130. Ciò che viene offerto al dipendente (110) ne è la conseguenza aritmetica e basta. Se si decidesse che l’onere contributivo per l’azienda da domani va spostato sul dipendente, ne conseguirebbe che esso dovrebbe essere conglobato nella RAL, ma sarebbe una modifica puramente formale. Verrebbe ugualmente contabilizzato come costo (tutto nella voce B9a, se parliamo di soggetti OIC), ma ugualmente trattenuto al dipendente e versato all’INPS. Il saldo COMPLESSIVO della voce B9 del conto economico non cambierebbe di una virgola. Così come non cambierebbe di una virgola l’imponibile fiscale ai fini Irpef del dipendente e lo stipendio netto che gli arriva in tasca.
          Quel che scrive il prof. Bordignon è piuttosto chiaro, così come lo è l’esempio numerico del mio commento. Non serve aver letto Aristotele per capire.

          • Stefano

            Caro Luca credo che lavorare nella sua azienda sia molto bello visto che abbiamo scoperto che lei contratta con i suoi dipendenti il salario netto IRPEF e non quello lordo. Una rarità nel mondo imprenditoriale..
            Come abbiamo scoperto che Lei, qualora il carico contributivo fosse posto interamente a carico del dipendente Lei si impegnerebbe ad erogare 130 al suo personale (cioè un incremento del 30% del salario lordo) per compensare i dipendenti dell’incremento del cuneo.
            Ad averne di imprenditori così illuminati ..non si spiega allora perché allora la gente rifiutava lavori regolari avendo il RDC se abbiamo in Italia tanti imprenditori di buon cuore che incrementano le retribuzioni per tenere conto dei costi a carico dei dipendenti.
            Modifica puramente formale in un Paese dove le retribuzioni sono diminuite negli ultimi 20 anni .. veramente divertente.. ma la colpa è tutta del brutto cuneo fiscale.. non del lordo in partenza..
            Bene i lavoratori autonomi questa scelta non ce l’hanno.
            Devono incassare compensi sufficienti per pagarsi la previdenza .. non possono contare su committenti così di buon cuore.. premesso che spesso non è chiaro il confine tra committenti e datore di lavoro.. chissà che ne pensa Aristotele …

          • Luca

            Gentile Stefano, parlare con lei è come parlare a un muro di gomma. Ho scritto l’esatto contrario di ciò che lei ha scritto nelle prime righe del suo ultimo commento del 21 dicembre.
            Nonostante il suo ultimo commento sia una macedonia inutilmente polemica (polemica a questo punto spostatasi dall’autore al sottoscritto), siamo in periodo natalizio, io sono a letto in malattia e faccio un ultimo tentativo per farle capire, visto che ho tempo. Anche solo per controbattere al suo tono canzonatorio nei miei confronti, piuttosto inadatto visto che non ha capito nulla di quanto è stato scritto.
            Siamo partiti con lei che afferma che Bordignon ha torto e scrive fesserie. Io le ho posto un esempio numerico semplice che lei non ha compreso. Ora faccio un ultimo tentativo. Apra Excel e provi a impostare il calcolo dei contributi per una RAL di 30.000. Le verrà che i contributi per l’azienda (voce 9b) sono circa 7.143, e quelli a carico del lavoratore (voce 9a) circa 2.757, il suo imponibile irpef (sempre incluso nella voce 9a) sarà di conseguenza circa 27.243. Costo totale del lavoro per l’azienda: 37.143.
            Ora immagini che la legge stabilisca che (ovviamente a parità di retribuzione imponibile fiscalmente e di ammontare complessivo dei contributi versati, visto che né lavoratore né INPS vogliono perdere soldi) dal prossimo anno formalmente i contributi sono a carico del dipendente, quindi transitano dalla busta paga. La RAL dovrebbe dunque formalmente salire, ma salirebbero anche i contributi trattenuti in busta paga (calcolati ovviamente con aliquote diverse dalle attuali per lasciare invariato il gettito per l’INPS al variare della base imponibile), lasciando l’imponibile fiscale del dipendente invariato. Ciò potrebbe avvenire con un’aliquota INPS del 26,65% (che può verificare facendo un’equazione di primo grado dove l’aliquota è l’incognita).
            Nuova situazione: la RAL diventerebbe 37.143, ma vi sarebbero trattenuti contributi (formalmente a carico del dipendente) per 9.900 (€37.143*26,65%). Costo del lavoro per l’azienda: 37.143. Imponibile fiscale del dipendente: 37.143-9.900=27.143. Tutto esattamente come prima.
            L’esempio conferma quanto ha scritto il prof. Bordignon: per i due soggetti economici (azienda e dipendente) è assolutamente indifferente chi formalmente è soggetto passivo nei confronti dell’INPS o chi effettivamente versa i contributi.
            Quindi, aggiungo io, il piagnisteo degli autonomi (che ricordiamolo sono ditte individuali, quindi il datore di lavoro di sé stessi) sul fatto di pagare i contributi di tasca propria è immotivato, perché nella sostanza economica per il dipendente la presenza del sostituto di imposta non cambia assolutamente nulla.
            Le faccio gli auguri di buone feste anche se non la conosco, e ringrazio la redazione se vorrà pubblicare il mio ulteriore commento. Essendo stato allievo del prof. Bordignon me la sono un po’ presa per certe critiche infondate a quanto scrive.

          • Alessandro

            Finalmente un faro in mezzo a tanti incompetenti in materia economica.
            Il concetto di traslazione dell’imposta, peraltro semplice, risulta sconosciuto ai più, però tutti si sentono autorizzati a parlare.
            Grazie Luca e Professor Bordignon per l’articolo.

  9. Gabriele

    Poi magari qualcuno dica anche che l’INPS è sempre in passivo e drena 25 miliardi l’anno dalla fiscalità generale pagati anche da chi è iscritto a una cassa professionale e quindi non avrà mai nulla dall’INPS.

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