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Le grandi dimissioni hanno precedenti

L’aumento delle dimissioni dal lavoro in Italia nel 2021 e 2022 è stato un fenomeno importante, per rapidità e portata. Ma se si allarga l’orizzonte agli anni prima della grande recessione si scopre che le grandi dimissioni non sono un fatto nuovo.

Normalità o eccezionalità?

Nulla esiste finché non lo misuriamo” recita una famosa frase attribuita al fisico danese Niels Bohr. Anche per i fenomeni economici la relazione tra ciò che misuriamo e ciò che pensiamo esistere è assai stretta. Alle volte però corriamo il rischio di fraintendimenti riguardo l’esistenza e la natura di alcuni fenomeni, proprio a causa di errori in come li misuriamo. Qualcosa di simile sembra essere accaduto con le cosiddette “grandi dimissioni”, l’aumento improvviso e quantitativamente significativo delle uscite volontarie dal lavoro avvenuto in Italia tra il 2021 e il 2022.

Del fenomeno si è ormai dibattuto a lungo, anche qui su lavoce.info. Nel frattempo, il tasso di dimissioni ha toccato un nuovo picco nel secondo trimestre del 2022, raggiungendo il 3,2 per cento, il suo massimo negli ultimi 15 anni. Le interpretazioni date nel dibattito pubblico sono state le più diverse, ma in sostanza sono raggruppabili in due categorie: l’interpretazione della “normalità” e quella della “eccezionalità”. Secondo la prima, le grandi dimissioni sono state un fenomeno in linea con lo scenario macroeconomico positivo degli ultimi due anni, mentre secondo i sostenitori della seconda tesi, si tratta invece qualcosa di eccezionale, frutto del periodo straordinario che i lavoratori hanno vissuto durante la pandemia da Covid-19. Ma proprio sulla eccezionalità, o unicità, del fenomeno vi è stato un fraintendimento tra ciò che misuriamo e ciò che pensiamo esistere. 

Una questione di dati

L’origine della confusione risiede nel tipo di dati principalmente utilizzati finora per misurare le grandi dimissioni, ovvero le Note trimestrali tratte dal Sistema informativo statistico delle comunicazioni obbligatorie rilasciate dal ministero del Lavoro ogni tre mesi, e i relativi allegati statistici. Nelle tavole del ministero, infatti, la serie storica sul numero di dimissioni inizia col primo trimestre del 2012. Non va molto meglio nei microdati sulle comunicazioni obbligatorie rilasciati a fini di ricerca, che sono stati utilizzati da diversi centri di ricerca in questi mesi per aggiungere dettagli all’analisi del fenomeno, ma che comunque non si spingono più indietro del 2010. I numeri misurati nei due anni passati, quindi, sono record relativi al solo post-2010, un periodo non casuale della storia economica del nostro paese, caratterizzato da livelli di disoccupazione molto elevati e scarsissima crescita. Dal 2010 in poi, la prima vera fase con minor disoccupazione e crescita più sostenuta è arrivata proprio dopo le ondate di Covid-19. Per avere un periodo comparabile occorre tornare indietro ai primi anni Duemila, sicuramente prima della grande recessione del 2009. Ma ciò non è possibile con i dati sulle dimissioni rilasciati dal ministero del Lavoro. È possibile però ricorrere ad altri dati rilasciati congiuntamente da ministero del Lavoro e Inps, un campione di lavoratori dipendenti (e autonomi) desunti dalle banche dati Inps, che contiene informazioni sulle dimissioni già a partire dal 2005. E andando indietro fino a quell’anno, l’immagine complessiva del fenomeno cambia. 

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Allargando la prospettiva

La figura 1 mostra il tasso di dimissioni calcolato sulla base delle due diverse banche dati. Il denominatore del rapporto è in entrambi i casi il numero totale di occupati dipendenti (così come misurato dall’Istat). A numeratore il numero di dimissioni: nel caso dei dati Inps-MinLav è relativo al solo settore privato, ma non è comunque un aspetto problematico dal momento che le dimissioni volontarie riguardano dipendenti pubblici solo nell‘1 per cento dei casi. I dati delle Note trimestrali sono aggiornati molto rapidamente e dunque arrivano fino al terzo trimestre 2022, mentre quelli MinLav-Inps si fermano al 2018. Nel periodo 2012-2018, però, le due banche dati coesistono e il tasso di dimissioni calcolato su di esse sembra essere molto coerente, rassicurandoci sulla validità del confronto tra le due serie storiche. L’andamento delle due linee nel grafico parla da sé: tra il 2006 e il 2008 il tasso di dimissioni è stato quasi sempre più alto dei livelli raggiunti nel 2021 e 2022, con il massimo dal 2005 in poi raggiunto nel quarto trimestre del 2007, quando si è dimesso il 4,1 per cento di tutti i lavoratori dipendenti (un valore più alto di ben un terzo rispetto ai massimi raggiunti nel 2022). Il tasso di dimissioni è poi sceso ed è rimasto su livelli assai più bassi negli anni successivi alla crisi. Tra l’altro, è un andamento molto simile a quanto osservato in Francia (qui per esempio con dati risalenti fino al 2007).

Tanto rumore per nulla?

Dunque, tanto rumore per nulla? Il fenomeno delle grandi dimissioni non rappresenta un unicum e l’interpretazione della “eccezionalità” sembra poggiare su basi fragili alla luce dei dati sul periodo precedente alla grande recessione. Ancora una volta è bene quindi ricordare che tra il 2021 e il 2022 non abbiamo osservato un esodo di massa dal mondo del lavoro (tanto è vero che il numero di lavoratori dipendenti ha toccato, quello sì, un suo massimo storico) né di una rivoluzione nella concezione del lavoro salariato. Sicuramente l’esperienza della pandemia, i lockdown, lo stop dal lavoro forzato e tutto ciò che il paese ha vissuto dopo l’arrivo del virus hanno avuto un impatto psicologico su molti lavoratori e probabilmente sulle scelte di alcuni di loro in materia di lavoro. Sicuramente, inoltre, l’aumento di dimissioni del 2021 e nel 2022 è stato inaspettato e assai rapido, più veloce di quello di altri indicatori della crescita economica e del mercato del lavoro, ed è stato un segnale non secondario della vitalità del sistema paese in questi mesi. Tuttavia, proprio perché livelli simili di dimissioni si erano già registrati in una fase del mercato del lavoro più vicina a quella odierna rispetto agli ultimi quindici anni, la spiegazione della “normalità” e della coerenza con il quadro macroeconomico complessivo sembra la più adatta per inquadrare il fenomeno.

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  1. Savino

    Le modalità di selezione nel mercato del lavoro continuano ad essere completamente sbagliate. Oggi ci si meraviglia della infedeltà di alcuni lavoratori, che si dimettono provando a trovare ciò che, secondo loro, è qualcosa di meglio. Ieri, al momento della selezione delle HR, si scartavano persone competenti e fedeli, che avrebbero fatto la fortuna delle aziende, e si decideva, per dinamiche distorte (segnalazioni ecc.), di portare avanti certe persone. Ora, come si dice, arrangiatevi. Chi semina vento raccoglie tempesta.

    • Confermo quanto scritto da voi… Purtroppo le persone che ci mettono il cuore e anche il fisico per il proprio lavoro sono quelle che poi vengono calpestate da chi invece vede solo il denaro come scopo di lavoro!…. Purtroppo l’umanità è stata rivoluzionata dal Dio denaro facile…. L’aspetto esteriore delle persone ha condizionato le scelte di certi imprenditori, il lavoro sottopagato è stato fatto passare come proficuo di utili per le aziende… Ora basta chi ha le capacità e chi ci mette tutta la volontà per il proprio lavoro deve essere valutato adeguatamente altrimenti scappa… E fa bene ad andarsene da chi lo sfrutta.

  2. Antonio

    Le dimissioni nella sanità erano il 7% del totale solo nello scorso anno. Tutti dal privato?
    L’1% delle dimissioni verrebbe dal pubblico: sulla base di?
    E posto che sia corretto, le cause dei cosiddetti precedenti ?

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