Il Pil aumenta in Irlanda, così come il malcontento verso il governo. Perché la crescita è dovuta alla trasformazione del paese in un paradiso fiscale e i cittadini irlandesi ne vedono solo i lati negativi. Politicamente se ne avvantaggia lo Sinn Féin.
Il tramonto del “Two-and-a-Half party system”
Il 17 dicembre 2022, la Repubblica d’Irlanda ha cambiato primo ministro: Leo Varadkar, leader di Fine Gael, ha sostituito Micheál Martin, leader di Fianna Fáil, nel ruolo di Taoiseach. Il passaggio di testimone era stato concordato all’indomani delle elezioni politiche del 2020, quando, per la prima volta nella storia, i due storici partiti rivali decisero di formare una coalizione centrista (sostenuta dai Verdi) che mantenesse lo Sinn Féin fuori dell’esecutivo nazionale. Si tratta di una conventio ad exlcudendum determinata principalmente dal controverso rapporto che ha storicamente legato la formazione politica al Provisional IRA, il gruppo paramilitare/terroristico che perseguiva l’unione dell’Irlanda del sud con quella del nord.
È logico pensare che il nuovo governo continui a operare nel solco del precedente, tentando di risolvere le problematiche di un paese caratterizzato oramai da più di un decennio da una peculiare dinamica: un rilevante aumento del Pil che si accompagna a un inesorabile crollo del consenso verso i partiti che si succedono alla guida dell’esecutivo.
Il sistema politico irlandese è stato storicamente catalogato come un “Two-and-a-Half party system” in cui due formazioni politiche di orientamento centrista, Fianna Fáil e Fine Gael, si contendevano la maggioranza relativa; il “mezzo partito” era rappresentato dai laburisti irlandesi, i quali potevano contare su un numero di suffragi che, in media, si aggirava intorno al 10 per cento. Per tutto il ventesimo secolo, in Irlanda la contrapposizione fra destra e sinistra risultò pertanto alquanto debole, con una polarizzazione politica non comparabile a quella degli altri paesi europei.
La situazione ha cominciato a mutare con la crisi del 2008, e con l’enorme esborso economico che la Repubblica d’Irlanda ha dovuto sostenere per salvare il proprio sistema bancario. Fianna Fáil, all’epoca alla guida del governo, è stato il primo partito a venire ridimensionato: i consensi sono passati dal 41,1 per cento del 2007 al 17,4 per cento del 2011. Nella legislatura successiva, l’esecutivo è stato quindi composto da una coalizione formata da Fine Gael e Labour, ma anche queste due formazioni politiche sono andate incontro a un “declino elettorale” inedito: dal 2011 al 2016, Fine Gael ha perso più di un terzo dei suoi voti, mentre i laburisti sono crollati dal 19,4 al 6,6 per cento. Tutto questo, in un contesto in cui il Pil irlandese è cresciuto (ufficialmente) in modo vertiginoso (+24,4 per cento nel 2015) e il rapporto debito/Pil, invece, è sceso drasticamente: dal 119,6 per cento del 2012 al 74,5 per cento del 2016, facendo uscire l’Irlanda dal deprecabile elenco dei Piigs.
Investimenti esteri e crisi immobiliare
Secondo buona parte della dottrina, questa particolare dinamica si deve a un regime fiscale per le imprese estremamente accomodante, con la conseguente configurazione dell’Irlanda come una Fdi foreign direct investement-led growth economy: un’economia basata principalmente sugli investimenti provenienti da soggetti esteri più che sulla capacità dei residenti di creare ricchezza. Così, il paese attira multinazionali e lavoratori qualificati dall’Europa e dal resto del mondo, ma il benessere generato, vero o presunto che sia, non si distribuisce in modo soddisfacente in favore dei cittadini irlandesi, provocando distorsioni che aumentano il malcontento popolare.
La problematica più importante è indubbiamente rappresentata dall’andamento del mercato immobiliare: l’afflusso di lavoratori stranieri ben pagati ha portato il costo degli affitti di Dublino a essere tra i più elevati di Europa, con il canone di locazione di monolocali in zone periferiche che supera i mille euro mensili; tutto ciò in una città che non dispone ancora di una rete di mezzi pubblici all’altezza di quelle delle principali metropoli europee. Si aggiunge poi un elemento che ha un significativo peso politico: i dipendenti non irlandesi, che sono i principali beneficiari degli alti stipendi elargiti dalle multinazionali e che sono disposti a pagare affitti elevati, rimangono cittadini stranieri e, in quanto tali, non hanno diritto di voto.
L’ascesa di Sinn Féin
Così, dalla dipendenza dagli investimenti esteri, si è formata una linea di frattura nella politica irlandese che è stata occupata dal più controverso partito dell’isola: Sinn Féin. Il movimento, mai stato al governo dalla fine della guerra civile, non rinuncia al suo obiettivo primario, l’unità del sud con il nord, ma abbina al fine “ideale” un orientamento di sinistra, da qualcuno definito populista, indirizzato a risolvere gli effetti collaterali che derivano dalla natura dell’economia irlandese. La “virata a sinistra” è oltretutto incentivata dal complessivo riorientamento della popolazione irlandese in materia di diritti civili: un cambiamento in chiave progressista, determinato anche dalla perdita di influenza della chiesa cattolica (travolta negli anni passati da rilevanti scandali), che ha portato al riconoscimento, tramite referendum, del diritto all’aborto e del matrimonio tra persone dello stesso sesso. In dottrina, inoltre, è stato notato come Sinn Féin, alla luce della sua storica inclinazione nazionalista e dei toni demagogici sovente impiegati, sia in grado di raccogliere anche i voti di chi, in un altro paese europeo, potrebbe essere definito di destra o sovranista, qualcosa di simile a una France Insoumise capace di attirare anche i suffragi del Rassemblement National. Negli ultimi quindici anni l’ascesa di Sinn Féin nella Repubblica d’Irlanda è stata netta, ed è stata accompagnata da una progressiva crescita anche in Irlanda del Nord (dove però il partito risultava “forte” sin dall’inizio degli anni Duemila). Il ricordo dei tragici eventi dei Troubles (come vengono chiamati gli anni caratterizzati dai molteplici attentati dell’Irish Republican Army) diviene sempre più sbiadito e, sondaggi alla mano, pare difficile che il prossimo esecutivo di Dublino non coinvolga al suo interno questo partito. Il sistema elettorale irlandese, classificabile come un proporzionale, comporta solitamente la necessità di formare una coalizione, ma alla luce di alcune recenti dichiarazioni di apertura di membri di Fianna Fáil, la conventio ad excludendum contro il Sinn Féin diviene sempre più fragile. L’attuale governo Varadkar, pertanto, potrebbe essere l’ultimo prima dell’avvento al potere di quella formazione politica che per decenni ha rappresentato il volto pubblico del Provisional IRA: un evento storico non determinato dal desiderio dei cittadini irlandesi di vedere un’Irlanda unita, quanto, piuttosto, dagli effetti collaterali di una politica economica mirata a trasformare il paese in un paradiso fiscale.
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Alfredo
Quindi se vogliamo considerare positiva una politica che attragga investimenti dall’estero e di conseguenza anche lavoratori altamente qualificati, se ne deduce che il problema dell’Irlanda è di non essere in grado a sfornare irlandesi altamente qualificati abbastanza da poter partecipare anch’essi alla crescita che quegli investimenti stanno portando?