Il terremoto in Turchia e Siria ci ricorda le conseguenze drammatiche di questi eventi sulla vita delle persone e sulle economie. I paesi avanzati traggono benefici dal “building back better”. Ma l’Italia non ha ancora un piano di prevenzione adeguato.
Il sisma in Turchia e Siria
Dal 1900 a oggi, secondo il database sui disastri naturali di ourworldindata.org, i terremoti che hanno causato almeno mille morti sono stati 130. Bisogna ora aggiungere il sisma del 6 febbraio verificatosi tra Turchia e Siria, che finora si stima abbia fatto almeno 20mila vittime.
Eventi di tale portata, oltre a causare morti, feriti e sfollati, provocano anche danni economici molto consistenti. Per esempio, il terremoto di Haiti del 2010 ha causato danni per circa 8 miliardi di dollari americani, circa il 67 per cento del Pil del paese nello stesso anno.
Una ripresa diseguale
I disastri naturali, come i terremoti, alterano il normale svolgersi dell’attività umana ed economica, con impatti negativi immediati sulla rete produttiva e sulla società. Non sono ancora stati pienamente valutati, però, i loro effetti sulla crescita di lungo periodo. Un recente studio ha analizzato i dati sulle scosse sismiche avvenute in 195 paesi tra il 1973 e il 2015 e ha tentato di quantificarne gli effetti causali sulla crescita economica, misurata in Pil pro capite. Dalla ricerca emerge che i tassi di crescita tendono a stabilizzarsi qualche anno dopo l’evento, ma a distanza di quasi un decennio il mancato progresso non viene recuperato (si parla di una riduzione del Pil pro capite pari a 1,6 punti percentuali in media rispetto al sentiero di crescita precedente nelle aree più esposte).
Cos’è il “building back better”
Tuttavia, la capacità di ripresa da un terremoto varia da paese a paese, a seconda anche del grado di sviluppo dell’economia e dell’ampiezza del territorio colpito dal disastro naturale. Generalmente, le economie più avanzate riescono a neutralizzare completamente gli effetti negativi a livello nazionale, come nel caso dell’Italia, e a volte possono persino trarre un vantaggio significativo dalla ricostruzione dopo il disastro. Si parla di “building back better”, una strategia che mira a trasformare un evento distruttivo in un’occasione per rendere la società più resiliente agli shock futuri, con l’obiettivo di garantire anche una ripresa che sia la più inclusiva possibile. Il concetto è stato introdotto dalle Nazioni Unite dopo il terremoto e maremoto dell’Oceano Indiano del 2004, ma è stato poi incorporato ufficialmente nel Quadro di riferimento di Sendai per la riduzione del rischio di disastri del 2015, diventandone la quarta priorità.
Adottare la strategia del “building back better” comporta benefici maggiori per i paesi che sono più spesso e più violentemente colpiti dai disastri naturali in quanto permette di investire nella prevenzione e garantisce una risposta più reattiva ed efficace a eventi che sono tendenzialmente ricorrenti. In aggiunta, in presenza di forti disuguaglianze socioeconomiche, bisogna assicurarsi che tutte le fasce della popolazione, e in particolare i gruppi più poveri e vulnerabili, possano beneficiare degli aiuti per la ripresa. Secondo un report della Banca Mondiale, se tutti i paesi fossero in grado di garantire alle fasce meno abbienti lo stesso supporto offerto nelle economie più avanzate a seguito di un disastro, le perdite globali in termini di benessere, associate ai disastri naturali, si potrebbero ridurre del 9 per cento e questo sarebbe equivalente a un aumento del consumo globale annuo pari a 52 miliardi di dollari.
Per i paesi a basso e medio reddito, però, può essere più difficile adottare la strategia del “building back better”, ed è quindi più probabile che deviino in maniera significativa dalla propria traiettoria di crescita. Senza un adeguato supporto alla ripresa, infatti, i danni legati all’aumento dei problemi di salute o delle disabilità, all’interruzione prolungata del percorso scolastico e talvolta all’impossibilità o incapacità di ricostruire le infrastrutture ostacolano lo sviluppo nel lungo periodo. Lo studio della Banca Mondiale rivela appunto che nei paesi a basso e medio reddito la crescita, in termini di Pil pro capite, sarebbe stata in media di 2,4 punti percentuali più alta nel 2015 senza i danni causati dai terremoti; il divario tra la crescita effettiva e quella che si sarebbe avuta se l’evento non si fosse verificato sale a 7,7 punti percentuali nelle zone che sono regolarmente colpite da questi disastri naturali.
I risultati dello studio sugli effetti dei terremoti sul Pil pro capite possono essere spiegati da diversi fattori. In primo luogo, per le economie più avanzate può essere più conveniente dal punto di vista economico investire nella prevenzione e utilizzare tecnologie adatte a resistere ai disastri naturali, come le strutture antisismiche, con conseguenti benefici nel lungo periodo in termini di mitigazione dei rischi e dei danni. Potrebbe non essere così per i paesi a basso e medio reddito. In aggiunta, l’assetto istituzionale e una condizione finanziaria sfavorevole, che con più probabilità caratterizzano le economie meno avanzate, potrebbero diminuire l’efficacia della ripresa. Inoltre, i paesi più ricchi sono generalmente più esperti nella gestione delle emergenze e questo amplifica l’efficacia e l’efficienza degli interventi per la ricostruzione. Infine, entrano in gioco anche altre variabili, che possono prescindere dal livello di reddito del paese. A seguito di un disastro naturale ci sono afflussi consistenti di risorse, materiali e finanziarie, verso le zone e le comunità colpite. Tuttavia, gli investimenti per la ricostruzione vengono spesso effettuati senza una pianificazione adeguata e talvolta sono utilizzati più per fini politici che per favorire la ripresa, con importanti conseguenze sull’efficienza economica.
L’Italia e la scarsa prevenzione sismica
L’Italia è uno dei paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo, per la frequenza dei terremoti che hanno storicamente interessato il suo territorio e per l’intensità raggiunta in alcuni casi, anche recenti (Umbria e Marche 1997, Molise 2002, L’Aquila 2009, Emilia 2012, Centro Italia 2016/2017), determinando un impatto socioeconomico rilevante e mettendo in luce la fragilità del nostro patrimonio edilizio e infrastrutturale. Il problema italiano non consiste solo nell’incapacità di garantire una ricostruzione dei centri abitati che li possa far tornare a nuova vita per come erano e dove erano, ma riguarda anche l’incapacità di avviare una grande macchina pubblica e privata che abbia come obiettivo la progressiva messa in sicurezza.
Nel 2020 la fondazione Eucentre ha pubblicato un nuovo modello che considera migliaia di eventi sismici avvenuti in migliaia di anni storia del continente europeo con l’obiettivo di mappare le zone sismicamente più pericolose. Italia, Grecia, Turchia, Albania e Romania sono i paesi con più aree soggette ad elevato rischio sismico e con un patrimonio edilizio più fragile.
Secondo vari studi, solamente il 25 per cento delle case italiane è realizzato seguendo le tecniche di costruzioni antisismica. Inoltre, il patrimonio edilizio è in prevalenza antico, con edifici perlopiù costruiti in pietra o materiali non sempre resistenti. Secondo le stime Istat, infatti, solo il 43 per cento delle abitazioni residenziali è stata costruita dopo il 1970, ossia dopo la definizione a livello nazionale di norme tecniche per l’edilizia antisismica. L’età media delle abitazioni è più alta nelle zone a maggiore rischio sismico. Nel Sud e nelle Isole gli edifici residenziali costruiti prima del 1970 rappresentano rispettivamente il 54 per cento e il 51 per cento del totale.
La mancanza di una diffusa cultura antisismica porta l’Italia a trascurare, in gran parte dei casi, il problema della vetustà degli edifici per cui il restauro e gli ammodernamenti rimangono una scelta privata da finanziare autonomamente. La scarsa consapevolezza del rischio sismico è ulteriormente evidenziata dalla bassa percentuale di edifici assicurati contro i danni da terremoto: solo l’1 per cento ha questa polizza. Eppure, lo stato ha varato alcuni bonus anti sismici, come questo valido dal 2017 al 2024 a cui è stato affiancato il “super sisma bonus”. La normativa antisismica è disciplinata dal decreto del ministero delle Infrastrutture del 14 gennaio 2008 che definisce le caratteristiche relative alla progettazione dei nuovi edifici sia quelle relative agli edifici esistenti che devono essere sottoposti ad adeguamento sismico. Gli interventi di questo tipo servono a raggiungere i livelli di sicurezza previsti dalle Ntc (Norme tecniche per le costruzioni) con l’obiettivo di arrivare a una resistenza pari a quella di un edificio di nuova costruzione. Ogni edificio realizzato sul territorio nazionale si confronta con questo standard e, pertanto, può avere un livello di sicurezza pari a quello previsto dalle norme o, come avviene solitamente, inferiore in proporzione all’età dell’edificio stesso.
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