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Il decreto “Lavoro” non cambierà il cuneo fiscale in Italia

Un’alta pressione fiscale rallenta la crescita economica e allontana gli investitori stranieri. Il decreto “Lavoro” mira a ridurre il cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti, ma le misure adottate dal governo non sembrano particolarmente significative.

La pressione fiscale in Italia e nel resto del mondo

Il decreto “Lavoro”, approvato dal governo Meloni il 1° maggio, prevede una riduzione della pressione fiscale pari a 4 punti percentuali per la seconda metà del 2023, con un costo totale di 4 miliardi di euro. Sommandosi ai provvedimenti precedentemente adottati, la riduzione complessiva del carico contributivo sarà di 6 punti percentuali per i percettori di redditi inferiori ai 35 mila euro e di 7 punti percentuali per i redditi fino ai 25 mila euro.

Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), il cuneo fiscale in Italia, ossia l’indicatore che misura la differenza tra il costo del lavoro per l’azienda e il salario netto che il lavoratore riceve effettivamente in mano, è uno dei più alti tra i paesi membri, attestandosi al 45,9 per cento del costo del lavoro nel 2022, contro una media Ocse del 34,6 per cento. Significa che quasi la metà delle spese sostenute dalle aziende per impiegare un lavoratore sono destinate a tasse e contributi sociali, rendendo l’Italia poco competitiva rispetto ad altri paesi.

A registrare valori più elevati dell’Italia sono solamente quattro paesi. In Belgio, imposte e contributi sociali rappresentano il 53 per cento del costo del lavoro, mentre in Germania, Francia e Austria il dato è leggermente superiore a quello italiano (rispettivamente pari al 47,8, 47 e 46,8 per cento).

Nei paesi non appartenenti all’Unione europea, il cuneo fiscale è sensibilmente inferiore e pari a circa un terzo del costo del lavoro. In Gran Bretagna e negli Stati Uniti, infatti, imposte e contributi fiscali rappresentano rispettivamente il 31,5 e il 30,5 per cento del costo del lavoro.

La riduzione del cuneo fiscale è stata indicata dall’Ocse come una delle principali sfide per il sistema economico italiano e rappresenta un obiettivo prioritario per il governo e le parti sociali, al fine di promuovere la crescita economica e l’attrazione degli investimenti stranieri nel paese.

Il cuneo fiscale nell’ultimo decennio

L’evoluzione del cuneo fiscale in Italia tra il 2012 e il 2022 è stata caratterizzata da rialzi e ribassi, con una tendenziale registrazione al ribasso. Tra il 2012 e il 2019 non ci sono state variazioni particolarmente significative: il cuneo fiscale passa dal 47,7 per cento al 47,9 per cento. Nei due anni successivi, invece, si registra un notevole calo, fino al 45,4 per cento nel 2021, con una risalita nel 2022 al 45,9 per cento, probabilmente a causa del drenaggio fiscale, ossia un aumento della pressione tributaria per effetto dell’inflazione.

Nell’ultimo decennio il cuneo fiscale italiano è stato tra i più alti d’Europa per diversi motivi. In primo luogo, la crisi economica e finanziaria che ha colpito il paese ha reso necessario aumentare la pressione fiscale per far fronte alle crescenti esigenze di spesa pubblica. In secondo luogo, la tassazione sul lavoro è stata utilizzata come uno dei principali strumenti per finanziare la riduzione del deficit pubblico e il contenimento del debito pubblico, con conseguente aumento della pressione fiscale sui lavoratori e le imprese. Inoltre, le politiche di welfare estensive e costose, incluse pensioni, sanità e istruzione, hanno richiesto, per essere sostenute, una maggiore tassazione. Infine, la scarsa produttività e competitività del sistema economico italiano ha reso difficile ridurre il cuneo fiscale senza mettere in pericolo i servizi pubblici e il welfare.

In Italia, il cuneo fiscale rappresenta la somma di diverse componenti, tra cui le tasse sui redditi, i contributi sociali e le imposte sulle transazioni. Nel caso dei dipendenti, è costituito principalmente dai contributi previdenziali e dall’imposta sul reddito.

La contribuzione previdenziale è una tassa obbligatoria che i datori di lavoro versano all’Inps per coprire i costi della previdenza sociale, come le pensioni e le prestazioni sociali. L’imposta sul reddito, invece, è una tassa progressiva che i dipendenti devono pagare in base al loro reddito annuo. Per i lavoratori autonomi, il cuneo fiscale comprende invece la contribuzione previdenziale obbligatoria, calcolata in base al reddito netto dell’anno precedente. I lavoratori autonomi devono pagare anche l’imposta sul reddito e l’Iva (imposta sul valore aggiunto) sui servizi e beni venduti.

Secondo Istat, nel 2020, il cuneo fiscale sul lavoro dipendente rappresentava il 45,5 per cento del costo complessivo del lavoro, mentre per i lavoratori autonomi era il 31,5 per cento del reddito netto. La differenza è dovuta principalmente alla tassazione più elevata sui redditi da lavoro per i dipendenti rispetto ai lavoratori autonomi.

I più importanti tagli alle tasse sul lavoro degli ultimi anni

Nell’ultimo decennio, diversi governi si sono prefissati di investire un certo ammontare di risorse per la riduzione del cuneo fiscale. In pochi casi, però, la spesa è stata rilevante.

Nel 2014, il governo Renzi ha introdotto il cosiddetto “bonus 80 euro”. La misura prevedeva una detrazione di 960 euro l’anno per i lavoratori dipendenti, quindi un aumento netto di 80 euro al mese in busta paga. La detrazione era fissa fino a 24 mila euro di reddito e diminuiva, fino ad annullarsi completamente, superata la soglia di 26 mila. Secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, il costo complessivo stimato era di oltre 9 miliardi di euro l’anno.

Con la legge di bilancio del 2020, il secondo governo Conte ha deciso di espandere il bonus da 80 a 100 euro al mese per i redditi da lavoro dipendente fino a 28 mila euro lordi. Il bonus è stato anche esteso ai redditi fino a 40 mila euro, ma con un valore via via decrescente. Per finanziare l’allargamento, il governo Conte II ha stanziato 3 miliardi di euro per il 2020 e 5 miliardi di euro per il 2021.

Due anni dopo, nella legge di bilancio 2022, il governo Draghi ha predisposto una serie di misure volte a ridurre gli oneri a carico dei lavoratori, tra cui la riduzione dell’Irpef e dell’Irap o la diminuzione dei contributi previdenziali per i redditi fino a 35 mila euro, poi ulteriormente ampliata nell’agosto 2022 dal decreto “Aiuti-bis”. Sommando le risorse necessarie per l’attuazione delle misure, anche in questo caso il costo complessivo si aggirava sui 9 miliardi di euro l’anno.

Il 1° maggio 2023, anche il governo di Giorgia Meloni, come i suoi predecessori, ha approvato un decreto legge che, tra le altre cose, si propone di ridurre l’elevato cuneo fiscale italiano.

La presidente del Consiglio dichiara di ritenersi fiera di destinare un ammontare di circa 4 miliardi di euro al «più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni». Ma, dati alla mano, negli ultimi dieci anni almeno due governi, quello di Matteo Renzi e quello di Mario Draghi, hanno previsto risorse di gran lunga maggiori per la riduzione del cuneo fiscale. Almeno da questo punto di vista, il nuovo decreto “Lavoro” non rappresenterà, dunque, un cambiamento significativo per l’Italia: il cuneo fiscale è e rimarrà tra i più alti in Europa.

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  1. Gaetano Proto

    E’ importante notare che il “bonus 80 euro” in vigore dal 2014 al 2020 non era una detrazione, come affermato nell’articolo, ma per l’appunto un bonus, cioè un trasferimento. Questo spiega perché non ce ne sia sostanzialemnte traccia nella Figura 2, che appare basata sulla definizione standard di “cuneo fiscale (e contributivo)” che include solo imposte e contributi. Se si adotta una definizione più ampia, che misura la distanza tra costo del lavoro e retribuzione netta in busta paga, il “bonus 80 euro” e il successivo “trattamento integrativo” (dal 2020) entrerebbero nel calcolo, abbassando il livello del cuneo a partire dal 2014.

  2. Manuel

    Se gli aumenti del 4,5% dei contributi INPS e l’aumento del 20% del contributo annuale per la camera di commercio già attuati rientrano nel piano di riduzione del costo del lavoro allora bisogna ammettere che il governo sta lavorando bene (naturalmente in senso ironico, per chi non l’avesse gia inteso)

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