L’adozione della moneta unica avrebbe dovuto essere affiancata dall’introduzione dei necessari regolamenti e dall’azione di supervisione bancaria nella zona euro. Ma lo hanno impedito atteggiamenti nazionalistici o protezionistici. Una lezione che non sembra essere stata compresa neanche adesso, di fronte alla crisi finanziaria globale né a quella, più recente, della Grecia. Eppure, è evidente quello si deve fare: centralizzare la regolamentazione e la supervisione bancaria e decentralizzare il Patto di stabilità.
Autore: Charles Wyplosz Pagina 2 di 4
Charles Wyplosz, PhD ottenuto alla Harvard University, è professore di Economia Internazionale all’Istituto di Studi Internazionali di Ginevra dal 1995. E’ direttore dell'International Centre for Monetary and Banking Studies di Ginevra ed è stato consulente di Banca Mondale, FMI e dell’Harvard Institute for International Development.
L’articolo 125 del Trattato svolge un ruolo fondamentale: vieta qualsiasi aiuto a un governo che non possa far fronte ai suoi obblighi e indica chiaramente che le difficoltà finanziarie di un paese devono restare un problema locale. Con la crisi greca il Patto di Stabilità ha invece dimostrato ancora una volta la sua inefficacia. Per uscire da questa grave situazione, l’Unione deve rispettare la clausola di non-salvataggio e imporre finalmente la disciplina di bilancio. E la Grecia può ricorrere al Fondo monetario internazionale per ristrutturare il suo debito.
Chi sostiene la necessità di creare un Fondo monetario europeo non si rende conto delle sue implicazioni e delle condizioni necessarie per un buon funzionamento. Al di là del fatto che il Trattato europeo impedisce che un paese sia salvato dagli altri stati membri, i fautori dell’Fme dovrebbero rispondere a una domanda fondamentale: cosa accade se un paese in difficoltà non rispetta gli impegni assunti? Perché si corre il rischio di arrivare a una totale indisciplina di bilancio. Da non sottovalutare la questione del finanziamento.
Dall’Europa arriva alla Grecia molta solidarietà, ma nessun aiuto concreto. Soprattutto, la dichiarazione congiunta dei leader europei non definisce le basi giuridiche di un intervento contrario allo spirito e al contenuto dei Trattati, non ne indica l’ammontare, né chiarisce come si intende costringere il governo greco a rispettare i suoi obblighi. Intanto, però, si è messo in moto un meccanismo molto pericoloso. Per fermarlo, la Grecia dovrebbe rivolgersi al Fondo monetario internazionale, il cui scopo è proprio quello di disinnescare le crisi speculative.
La quasi-fuga dal debito pubblico della Grecia è totalmente ingiustificata e il governo greco non ha nessuna necessità di dichiarare bancarotta. Ma è anche vero che per più di trent’anni l’indisciplina fiscale è stata la regola dell’azione dei vari governi che si sono succeduti. La pressione dei mercati finanziari dovrebbe ora essere interpretata come il segnale che la festa è finita. Per procedere a tagli immediati e radicali della spesa pubblica e a una riforma delle procedure di bilancio. Interventi politicamente dolorosi, ma inevitabili.
La lezione che si può trarre da questa crisi è che le banche hanno costretto i governi a correre in loro soccorso. Non c’è dunque nessuna ragione perché non ricomincino a fare i loro giochetti. Per impedirlo si possono ipotizzare tre soluzioni: ridurre la grandezza dei guppi bancari, esigere l’aumento della loro capitalizzazione, pretendere un loro “testamento da vivo”, ovvero l’indicazione di come frazionarli in tanti piccoli istituti in caso di fallimento. Saranno comunque le scelte di Regno Unito e Stati Uniti a delineare il capitalismo finanziario del futuro.
Tra il 2003 e il 2007 le banche hanno compiuto errori tanto gravi quanto grossolani. Ma il vero problema è che per più di un anno si sono ostinate a negare l’evidenza delle loro perdite. Ora arrivano i fallimenti. Ma non è certo la fine del capitalismo. Anzi è l’inizio della fine della crisi. Perché il fallimento è la sanzione ultima del mercato. Quanto alle regole, quelle attuali sono mal strutturate e sicuramente troppo complesse. E i controllori hanno lasciato che le banche le aggirassero. Anche perché tra controllore e controllato si gioca una partita diseguale.
La rivalutazione della moneta europea è un problema per gli esportatori che devono ridurre i margini. Ma è una buona notizia per i consumatori. O almeno per gli importatori dai paesi dell’area dollaro, che realizzano grandi guadagni. D’altra parte, ben più delle banche centrali sono i mercati finanziari a dettar legge sui tassi di cambio. Ed è bene che sia così. Perché nessuno sa quale sia il giusto livello del dollaro. Tanto meno quei governi che ascoltano troppo chi oggi piange e troppo poco chi ride.
Difficile capire le intenzioni della Bce in questo momento. Aumenta l’inflazione, rallenta la crescita, i mercati finanziari non riescono a uscire da unimpasse sempre più complessa. Ma il problema fondamentale è il declino della sua credibilità. Che migliorerebbe alquanto se la Banca decidesse di rendere note le sue previsioni sui tassi di interesse e se pubblicasse i verbali delle riunioni, invece di affidarsi al linguaggio cifrato dei comunicati. Tanto più che le sue decisioni sono molto spesso corrette. Come dimostra la sua reazione alle turbolenze di agosto.
In campagna elettorale, Sarkozy ha presentato un programma corposo, che riprogettava tutta la vita dei francesi nei minimi particolari. Ha fatto proposte audaci e in genere buone. Ora molti suoi progetti sembrano sprofondare nelle sabbie mobili della politica. Il metodo che porta ad aprire contemporaneamente più fronti, comincia a mostrare i suoi limiti. Meglio forse gerarchizzare le riforme, cominciando dalle più importanti e mettendosi in condizione di poterle realizzare. E se la priorità è la disoccupazione, bisogna riformare il mercato del lavoro.