Domenica erano rarissime le Borse aperte: solo Tel Aviv e qualche mercatomedio-orientale. Tel Aviv è la più importante perchè alcuni start-up, ad esempio nel campo delle biotecnologie, sono quotati sia lì che a New York. Domenica Tel Aviv ha aperto con una perdita dell’8 per cento. Quel segnale ha trasformato la dinamica politica della giornata. Sabato era stato un giorno molto deludente: il comunicato del G7 di venerdi sera era vago e l’incontro dei ministri delle finanze con Bush era stata solo una"photo occasion". Ministri e governatori erano partiti da Washington convinti che ciascun paese avrebbe dovuto arrangiars da sé: erano stanchi e ci avrebbero pensato lunedi mattina. Gli operatori erano delusi; molti si preparavano a cambiar mestiere; lunedì, dicevano alcuni, non servirà neppure andare in ufficio. Il dato proveniente da Tel Aviv ha cambiato tutto, obbligando i politici a considerare seriamente la prospettiva di un meltdown globale dei mercati finanziari. Il coordinamento europeo che fino a quell’ora sembrava impossibile, improvvisamente è diventato una possibilità concreta. Il risultato: tre provevdimenti (la garanzia sull’interbancario, i fondi per le ricapitalizzazionie l’attenuazione del mark-to-market) che hanno salvato le economie del mondo.
Una parte del merito va anche a Gordon Brown che ha spiegato ai suoi colleghi perché questi provvedimenti erano essenziali e come realizzarli. Ma se domenica-come qualcuno aveva proposto- i mercati fossero rimasti chiusi il segnale non vi sarebbe stato e più difficilmente il meltdown sarebbe stato evitato.
Autore: Francesco Giavazzi Pagina 4 di 6
Si è laureato in ingegneria al Politecnico di Milano nel 1972. Insegna economia politica all'Università Bocconi, della quale è stato pro-rettore alla ricerca tra il 2000 e il 2002.
Tra il 1992 e il 1994 è stato dirigente generale del Ministero del Tesoro, responsabile per la ricerca economica, la gestione del debito pubblico e le privatizzazioni. Dal 1992, anno della privatizzazione, alla conclusione dell'OPA lanciata dalle Assicurazioni Generali, è stato membro del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo di INA s.p.a. e, in rappresentanza di INA spa, vice-presidente del Banco di Napoli dal 1998 al 2000.
Fa parte del Gruppo dei consulenti economici del Presidente della Commissione europea e collabora con il Corriere della Sera e con Project Syndicate, un archivio on-line di articoli scritti da economisti di vari paesi. Redattore de lavoce.info.
Ieri è stata una buona giornata per il capitalismo. Dopo il salvataggio con una garanzia pubblica di Bears Stern in primavera e di Fannie Mae e Freddie Mac il mese scorso, si era diffusa l’impressione che il governo americano avrebbe salvato chiunque: oggi le banche, domani le case automobilistiche e le linee aeree, dopo domani chissà. Invece, con grande coraggio, il segretario del Tesoro statunitense Henry Paulson ha detto basta. Il costo è stato elevato, il fallimento della terza/quarta banca d’investimento al mondo, ma il mercato ha impiegato meno di cinque minuti a capire. E Bank of America ha comprato Merrill Lynch senza alcuna garanzia pubblica e ad un premio di 70 per cento sull’ultimo prezzo di mercato. Oggi la cintura di liquidità di cui ha bisogno AIG sarà anch’essa offerta dal mercato. Il Tesoro e la Fed si limitano ad un’opera di coordinamento utile e che non costa nulla. E’ una svolta importante, la vittoria del mercato. Con buona pace di chi ripete che ciò che accade negli Stati Uniti è la prova che il è capitalismo finito.
17 settembre, postilla
Ieri avevamo tirato un respiro di sollievo. La coraggiosa decisione del tesoro americano di lasciar fallire Lehman, sembrava rappresentare una svolta: banche, case automobilistiche, linee aeree, assicurazioni, avrebbero dora in poi dovuto arrangiarsi da sole. Oggi il governo americano ha dovuto smentirsi. E una cattiva notizia perché significa che la situazione finanziaria continua ad essere molto grave. Ma è anche una buona notizia perché dimostra che leconomia del mondo è nelle mani di persone responsabili che non decidono guidate dallideologia (come pure qualcuno ieri, a Washington, suggeriva), ma dal buon senso.
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Le economie occidentali sono state colpite da due shock gravi, ma abbastanza tradizionali: un aumento del prezzo delle materie prime e una crisi bancaria. Si prefigura un periodo di forte rallentamento dell’economia americana. Negli Stati Uniti potrebbero prevalere le obiezioni politiche alle ricapitalizzazioni pubbliche delle banche private e dei loro azionisti. Ma in una recessione severa il protezionismo attecchisce facilmente. E se i politici europei pensano che per proteggersi basti gridare all’untore vanno incontro a una forte delusione.
Da qualche mese si registra un persistente spread tra Libor e tassi di riferimento attesi. Le banche centrali possono intervenire per eliminarlo? E come? Europei e americani hanno sulla questione punti di vista diversi. I primi lo interpretano come la semplice quantificazione da parte del mercato di un rischio di credito. Secondo la Fed, invece, la causa è in una carenza di capitale delle banche. Nessuna delle due posizioni è pienamente convincente.
Difficile capire le intenzioni della Bce in questo momento. Aumenta l’inflazione, rallenta la crescita, i mercati finanziari non riescono a uscire da unimpasse sempre più complessa. Ma il problema fondamentale è il declino della sua credibilità. Che migliorerebbe alquanto se la Banca decidesse di rendere note le sue previsioni sui tassi di interesse e se pubblicasse i verbali delle riunioni, invece di affidarsi al linguaggio cifrato dei comunicati. Tanto più che le sue decisioni sono molto spesso corrette. Come dimostra la sua reazione alle turbolenze di agosto.
Il fallimento del governo Prodi non è colpa della cosiddetta sinistra radicale. E non solo per il fatto ovvio che la sua caduta non è avvenuta per opera di questa componente. Era necessario e possibile uno scambio coraggioso fra un liberismo deciso e una forte redistribuzione a favore del lavoro dipendente dei giovani e delle famiglie più in difficoltà. Ma il governo non ha saputo farlo: basta guardare come sono stati distribuiti gli aumenti delle pensioni minime. O chi ha pagato l’abolizione dello scalone.
La redistribuzione è l’unico motivo che giustifica la tassazione di interessi e dividendi. Ma allora sarebbe necessario assoggettarli alla medesima aliquota che il contribuente paga sul reddito da lavoro. E’ la soluzione adottata in molti paesi, a cominciare dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti. In Italia invece si preferisce un’aliquota unica su tutte le rendite finanziarie. Anche al 20 per cento ridistribuisce ma favore dei ricchi. Diversamente da ciò che molti pensano, questo sarebbe il momento giusto per modificare il trattamento fiscale dei titoli di Stato.
Il presidente francese ha ripetutamente criticato la Banca centrale europea durante la campagna elettorale: l’intuizione era giusta, ma sbagliato il bersaglio. Il problema è la mancanza di trasparenza della Bce, non le sue decisioni sui tassi di interesse. La trasparenza è alla base di quell’indipendenza ormai ritenuta indispensabile per attuare una buona politica monetaria, come hanno capito in molti paesi. Sarkozy dovrebbe usare la sua influenza per costringere la Bce a seguire quegli esempi. Si prenderebbe così anche una sottile vendetta.
Le restrizioni americane agli investimenti stranieri sono determinate con norme di legge. Un eventuale investitore conosce quindi con certezza dove potrà e dove non potrà investire. In Italia ciò che scoraggia gli investitori internazionali è l’incertezza normativa. Ma a preoccuparli ancora di più sono gli interventi diretti del governo in decisioni che dovrebbero essere di esclusiva competenza delle imprese. Come quando ha dato l’impressione di essersi appropriato del diritto allinformazione preventiva sulle fusioni bancarie del quale la Banca d’Italia si è spogliata.
Già prima delle elezioni si sapeva che i problemi della Germania non sarebbero stati di facile soluzione; in principio però il programma della Grosse Koalition apparve coraggioso e in grado di affrontare di petto i problemi del paese;ora, ad un anno dalle elezioni è necessario rendersi conto che sono due gli elementi che mancano al governo tedesco: un progetto di lungo respiro e il fiato sul collo dellopposizione. Di fatto i problemi della Germania permangono: che serva da monito a chi, anche nel nostro paese, culla la speranza della Grande Coalizione.