Il “Fondo nuove competenze” dovrebbe consentire ai lavoratori di adattarsi ai cambiamenti del mondo del lavoro. Il problema è che la scadenza per l’inizio dei corsi, finanziati con 700 milioni, è il 31 dicembre. E il percorso per attivarli molto tortuoso.
Autore: Lucia Valente
Lucia Valente è Professore Ordinario di Diritto del lavoro nel Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche della Facoltà di Scienze Politiche della Sapienza. Laureata in Giurisprudenza, dottorato in diritto del lavoro e relazioni industriali all’Università degli Studi di Pavia, dal 2013 al 2018 è stata Assessore al Lavoro, al Personale e alle Pari opportunità della Giunta Regionale del Lazio. Membro del comitato scientifico della Rivista Giuridica del Lavoro e della Commissione di certificazione dei contratti del Dipartimento di Scienze Giuridiche della Sapienza, Vice
segretario generale dell’Associazione Italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale (Aidlass) si occupa di politiche del lavoro e tutele dei disoccupati.
A seguito del rinvio al Parlamento da parte del Presidente della Repubblica, il 29 settembre 2010 il Senato ha approvato in sesta lettura il Disegno di legge 1167 Bbis, avente a oggetto, tra l’altro, anche una riforma del codice di procedura civile in materia di processo del lavoro. Tornato alla Camera, esso è stato infine approvato definitivamente, in settima lettura, il 19 ottobre 2010.
È un provvedimento eterogeneo di difficile consultazione, frutto di una complicata stratificazione normativa che dà seguito solo in parte alle indicazioni del Presidente della Repubblica del 31 marzo scorso.
Questa breve nota si propone di mettere in evidenza i punti salienti delle modifiche approvate al Senato rinviando, per il resto, alle osservazioni già svolte a suo tempo, su queste pagine in riferimento al testo legislativo licenziato dal Parlamento in quarta lettura (prima del rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica).
VALUTAZIONE DELLE MOTIVAZIONI DEL LICENZIAMENTO
(art. 30 comma 3) – alla Camera è stato modificato il comma 3 dell’art. 30 rubricato Clausole generali e certificazione del contratto di lavoro. Questa norma, confermata dal Senato, elimina il riferimento alle fondamentali regole del vivere civile e all’oggettivo interesse dell’organizzazione, indicato come parametro legale di valutazione giudiziale delle motivazioni del licenziamento. L’inciso era stato oggetto di forti critiche: si era infatti osservato che la norma, così formulata, era destinata ad allargare notevolmente la discrezionalità del giudice, consentendogli di decidere la controversia facendosi egli stesso interprete finale dell’interesse oggettivo dell’organizzazione aziendale.
ARBITRATO IRRITUALE SECONDO EQUITÀ
(art. 31, comma 5 e comma 7) – è stata confermata la norma approvata alla Camera dei deputati, che impone come condizione di validità del lodo, nell’arbitrato di equità, il rispetto non soltanto dei principi generali dell’ordinamento, ma anche dei principi regolatori della materia, anche derivanti da obblighi comunitari. Questa disposizione ha l’effetto di ridurre la discrezionalità dell’arbitro nel giudizio di equità, perché, oltre ai regolamenti comunitari, anche molte direttive possono considerarsi di immediata applicazione e non derogabili.
Il lodo emanato a conclusione dell’arbitrato irrituale non è impugnabile, come non lo sono le rinunzie e transazioni stipulate dal lavoratore in sede sindacale, amministrativa o giudiziale, a norma dellart. 2113, comma 4 c.c.. Il lodo è bensì annullabile dal giudice competente, ma soltanto per i vizi indicati nell’art. 808 ter c.p.c. in materia di arbitrato irrituale.
Inoltre, è stato eliminato ogni riferimento all’art. 829, commi quarto e quinto, c.p.c. La norma elimina così un richiamo dubbio a una disposizione applicabile all’arbitrato rituale.
Va detto che le disposizioni ora indicate, riguardano le ipotesi di risoluzione arbitrale di una controversia già insorta.
Tutte le disposizioni in materia di conciliazione e arbitrato (articoli 410, 411, 412, 412 ter, e 412 quater) si applicano anche alle controversie relative a rapporti di lavoro pubblico. Tuttavia non è stato chiarito, come era stato auspicato dal Presidente della Repubblica, se e a quali norme si possa derogare senza ledere i principi di buon andamento, trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa sanciti dall’art. 97 della Costituzione.
Inoltre, al Senato, è stata aggiunta anche l’applicazione della disciplina del processo verbale di conciliazione (art. 411 c.p.c.) alle controversie nel lavoro pubblico. Come è stato osservato, questa disposizione rischia di prestarsi a indebite strumentalizzazioni, con la conseguenza di minare l’intero impianto della disciplina del lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, nonché di risultare in contrasto con le esigenze di contenimento dei costi dell’attività amministrativa. Grave è, infatti, il rischio che l’introduzione dell’arbitrato nelle controversie riguardanti il pubblico impiego consenta malversazioni in materia di inquadramento, retribuzione, pagamento di arretrati e simili.
QUANDO SI SOTTOSCRIVE LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA
(art. 30, comma 9) – Radicalmente mutata, rispetto al testo approvato alla Camera, è la disciplina della clausola compromissoria, cioè della pattuizione con cui datore e prestatore di lavoro si accordano per riservare all’arbitro, e non all’autorità giudiziaria, eventuali controversie che dovessero insorgere circa l’attuazione del rapporto contrattuale.
Come è noto, nel corso della precedente lettura alla Camera era stato approvato un emendamento proposto dall’On. Cesare Damiano (Pd) che, modificando radicalmente la norma relativa alla clausola compromissoria, ne prevedeva la sottoscrizione non al momento della stipulazione del contratto, vale a dire nel momento di maggiore debolezza contrattuale del lavoratore, ma solo dopo l’insorgenza della controversia. La modifica era finalizzata a garantire la libertà del lavoratore di scegliere tra il ricorso all’arbitrato e il ricorso alla magistratura ordinaria, andando così nella direzione indicata dal Presidente della Repubblica.
In seguito alle modifiche apportate al Senato, nel testo è cancellata detta garanzia, mentre viene disposto soltanto il divieto di sottoscrizione della clausola compromissoria prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto dal contratto, o prima del decorso di trenta giorni dalla data di stipulazione del contratto di lavoro, sia esso a tempo determinato o indeterminato.
La clausola deve essere, a pena di nullità, certificata dalle commissioni di certificazione le quali devono accertare le volontà effettiva delle parti di devolvere le controversie, che dovessero sorgere in futuro, ad arbitri. Questa procedura appare, per un verso, poco efficace ai fini di protezione del lavoratore, considerato che anche dopo il superamento del periodo di prova resta immutata la posizione di debolezza contrattuale in cui egli versa. Per altro verso, essa introduce, come requisito di validità della clausola, un adempimento in costanza del rapporto di lavoro che secondo le previsioni degli addetti ai lavori limiterà di fatto fortemente la diffusione della clausola compromissoria.
Su questo punto si può osservare anche una divergenza della scelta operata dal Parlamento rispetto alle indicazioni del Presidente della Repubblica. Nel suo messaggio si legge infatti che solo il legislatore può e deve stabilire le condizioni perché possa considerarsi effettiva la volontà delle parti di ricorrere all’arbitrato, mentre la nuova legge demanda interamente il relativo accertamento all’organo certificatore.
La nuova disposizione accoglie, invece, l’indicazione del Capo dello Stato nella parte in cui sancisce che la clausola compromissoria non può riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro.
AUTORIZZAZIONE A SOTTOSCRIVERE LA CLAUSOLA COMPROMISSORIA
L’art. 30 al comma 11, attribuisce ai contratti collettivi il compito di individuare le ipotesi di ricorso all’arbitrato irrituale. Tuttavia, si prevede che in mancanza di apposita disciplina affidata alla contrattazione collettiva, detto compito spetti al potere politico (al Ministro del lavoro e delle politiche sociali con proprio decreto) trascorsi dodici mesi dalla entrata in vigore della legge ove le parti sociali non abbiano provveduto. Anche su questo punto non sono stati accolti i rilievi del Capo dello Stato, che aveva espresso serie perplessità di fronte a una così ampia delegificazione.
LE DECADENZE
Infine, l’art. 32 al comma 1, nel testo modificato al Senato, sancisce l’inefficacia dell’impugnazione del licenziamento se entro i successivi 9 mesi (e non più 6 mesi, come nel testo precedente al messaggio del Capo dello Stato) essa non sia seguita dal deposito del ricorso giudiziale nella cancelleria del tribunale o dalla comunicazione alla controparte della richiesta del tentativo di conciliazione o arbitrato.
In questa seconda ipotesi, qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano stati rifiutati oppure l’accordo non sia stato raggiunto, il ricorso al giudice deve essere depositato, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
È fatta comunque salva la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso in cancelleria. Questa puntualizzazione appare molto importante, considerata la regola generale, vigente nel processo del lavoro, che vieta la produzione di nuovi documenti dopo il deposito del ricorso introduttivo del giudizio o della memoria di costituzione e risposta della parte convenuta.
Il comma secondo dell’art. 32 sancisce, inoltre, che le disposizioni in materia di decadenza del lavoratore dalla possibilità di impugnare un atto del datore di lavoro si applichino a tutti i casi di invalidità (mancanza di giusta causa o di giustificato motivo) del licenziamento e non più in caso di inefficacia (difetto della forma scritta) (a queste si devono aggiungere le nuove ipotesi di impugnazione previste dall’art. 32 comma 3: per es. contratti a termine, trasferimento d’azienda, somministrazione irregolare, ecc.). Questa disposizione esclude dunque espressamente dalla disciplina delle decadenze i licenziamenti intimati oralmente (dunque inefficaci per mancanza di forma scritta), risolvendo così il problema della decorrenza del termine di decadenza. Le suddette decadenze restano ferme, invece, per le altre ipotesi di licenziamento nullo (per es.: licenziamento discriminatorio).
COLLABORAZIONI COORDINATE E CONTINUATIVE
La disposizione dell’art. 50, infine, prevede che in caso di accertamento della natura subordinata di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche riconducibili a un progetto, il danno possa essere risarcito con una indennità risarcitoria di importo compreso tra 2,5 e 6 mensilità, non soltanto ove entro il 30 settembre 2008 il datore di lavoro abbia offerto al lavoratore la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (a norma dell’art. 1, comma 1202, n. 296), ma anche qualora egli abbia, dopo la data di entrata in vigore della legge (ma non si stabilisce il dies ad quem), ulteriormente offerto la conversione del contratto in corso in un contratto di lavoro a tempo indeterminato ovvero abbia offerto l’assunzione a tempo indeterminato per mansioni equivalenti a quelle in precedenza svolte. Si tratta di una tipica norma-fotografia, volta a risolvere il caso, che era a suo tempo assurto agli onori delle cronache ed è poi rimasto fino a oggi irrisolto, relativo a una serie di controversie circa la qualificazione dei rapporti di lavoro in seno a un grande call center, insorte più di tre anni or sono a seguito di un’ispezione amministrativa.
Il Senato ha approvato definitivamente il disegno di legge 1167-B. Per favorire la composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, introduce all’articolo 31 una pluralità di rimedi, facoltativi e volontari, alternativi al ricorso al giudice del lavoro e rafforza le competenze delle commissioni di certificazione. Ma le nuove disposizioni riguardano anche numerosi altri aspetti. Ecco una scheda ragionata per capire meglio le nuove regole e gli interventi a conclusione della discussione in Senato del rappresentante della maggioranza, il senatore Giuliano e del rappresentante dell’opposizione, il senatore Ichino.