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Autore: Marco Ponti Pagina 7 di 11

DSC_0025 Marco Ponti ha insegnato economia dei trasporti ed economia ambientale, prima a Venezia e poi per dieci anni come ordinario al Politecnico di Milano. Ha svolto attività di consulenza per la Banca Mondiale (in 15 paesi in via di sviluppo), per la Commissione Europea, per l'OECD, per cinque ministri dei trasporti, per le Ferrovie dello Stato e per il ministero del Tesoro. E’ stato presidente o consigliere di amministrazione di diverse società pubbliche e private del settore. Svolge attività di ricerca nell'ambito delle analisi di fattibilità economica e finanziaria dei progetti, regolazione economica e politiche pubbliche del settore (investimenti e gestione). È stato recentemente coordinatore del gruppo di valutazione economica delle infrastrutture di trasporto ed esperto della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti del primo governo Conte e membro dell'Advisory Board dell'Autorità di Regolazione dei Trasporti (Art). È attualmente responsabile dell'associazione non-profit Bridges Research, che svolge ricerche indipendenti nel settore.

ANALISI COSTI-BENEFICI: ECCO DI COSA SI PARLA

Obiettivo dell’analisi costi-benefici è quello di vedere se alla società (nazionale, regionale, locale, eccetera) conviene fare un investimento piuttosto che un altro, oppure nessun investimento.

LA NOZIONE DI PROFITTO SOCIALE

Per capire, bisogna partire delle aziende private: anche loro investono e devono valutare se  conviene. Hanno come obiettivo il profitto: l’investimento conviene se verosimilmente rende all’azienda di più che mettere i soldi in banca. La comunità sociale ha come obiettivo qualcosa di più “sfumato” del profitto, il benessere collettivo o “profitto sociale”.
Il “profitto sociale” corrisponde alla variazione (che ovviamente dovrebbe essere positiva, ma non sempre, in realtà, lo è) di benessere della società, cioè quanto la società migliora la propria condizione grazie al nuovo investimento rispetto alla condizione di “non-intervento”. Le alternative sono due: non intervenire e lasciare le risorse nelle “tasche dei cittadini” che pagano le tasse, oppure destinare quelle stesse risorse a interventi alternativi: per esempio, costruire un ospedale o una scuola, fare manutenzione del territorio o altri obiettivi che si caratterizzano comunque per il loro contenuto “sociale”.
La società sta meglio se può godere di un maggior reddito, qualsiasi uso poi ne faccia, ma anche se migliora le condizioni ambientali (per esempio favorendo un mezzo di trasporto meno inquinante rispetto a un altro), oppure se l’investimento contribuisce a migliorare il livello di sicurezza, ad esempio, della mobilità delle persone (meno incidenti, grazie all’utilizzo di un mezzo di trasporto più sicuro rispetto a un altro).
L’analisi costi-benefici contribuisce anche a misurare gli effetti di un progetto sulla distribuzione del reddito fra “ricchi e poveri”. Ad esempio, l’investimento in una metropolitana che attraversa i quartieri del centro storico di una città, considerati zone di pregio e abitate da “ricchi” o sedi di banche, centri di ricerca, uffici di grandi multinazionali, contribuisce ad aumentare il valore degli immobili dei proprietari e a trasportare a basso prezzo una quota rilevante di utenti “ricchi”, mentre i lavoratori a basso e medio reddito che abitano e lavorano nei quartieri periferici della città sono comunque costretti nella maggior parte dei casi a utilizzare il mezzo privato, molto più costoso. In questo caso, tramite l’imposizione fiscale, i lavoratori finiscono con il pagare una quota rilevante di un investimento di cui in realtà usufruiscono in misura proporzionalmente minore rispetto alle classi più agiate. Conviene allora costruire una metropolitana con queste caratteristiche o migliorare la rete degli autobus o di altri mezzi su ferro in periferia? Esempio tipico, il metrò vis a vis l’Sfm a Bologna.

COME SI FA

Dal punto di vista metodologico, per decidere se realizzare un investimento piuttosto che un altro o non intervenire affatto, occorre che i diversi beni – “costi” dell’investimento da una parte e suoi “benefici” dall’altra – siano resi confrontabili tra loro, per evitare il rischio di sommare “pere e patate”. Per confrontare cose diverse, si usa misurarle in termini monetari: lo facciamo tutti i giorni, per esempio quando scambiamo il nostro stipendio, frutto del nostro lavoro, acquistando beni di consumo o beni di investimento,  o scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in treno, o in generale scegliendo un trasporto più veloce e più comodo, ma più costoso, e così via.
Per prima cosa, quindi, si esprimono tutti i costi e tutti i benefici di un progetto in termini monetari. I costi di solito sono quelli di realizzazione dell’investimento e quelli necessari per la sua gestione. I benefici sono misurabili nella riduzione dei costi sociali che quell’investimento consente di ottenere, come il risparmio di tempo di viaggio, i minori rischi per la sicurezza (minori incidenti), il minore inquinamento, i minori consumi di carburante, a volte la minore manutenzione. In molti casi, i minori costi contribuiscono ad aumentare il numero di utenti che utilizzano il nuovo servizio e anche i nuovi utenti si assommano ai precedenti nel godere dei benefici.
Perché un investimento sia conveniente per la società, la somma dei benefici sociali deve superare la somma dei costi, come ovvio.
Quale differenza c’è fra l’investitore privato e quello pubblico? Anche per il privato i benefici, che in questo caso coincidono con i ricavi monetari, devono superare i costi. Però l’investitore privato, investendo risorse proprie e in tal modo “congelandole” per un determinato periodo, pretende anche un “premio” che lo compensi della mancata disponibilità di quelle risorse: avendole disponibili infatti avrebbe potuto investirle in altre cose, o spenderle per sé. Il misuratore del “ premio” si chiama saggio di interesse privato; il suo livello dipende dalla durata dell’investimento e dal rischio che si corre che vada male.
Lo stesso concetto vale anche per gli investimenti pubblici, anche se a seguito di un ragionamento un po’ diverso: la società può spendere soldi per servizi sociali oggi, o investirli in progetti che consentano di avere più servizi sociali e di migliore qualità domani. Ma la preferenza tra spenderli oggi e investirli per averne di più domani dipende a sua volta da quanto siano più urgenti i bisogni sociali oggi rispetto a domani. Se siamo in un paese ricco, la differenza tende a essere non molto grande, perché la possibilità di migliorare ulteriormente un livello di benessere già elevato è, come si dice, marginale; se siamo in un paese in via di sviluppo, tende a essere molto maggiore. Un paese “povero” che costruisce una ferrovia in una regione dove prima ci si muoveva soltanto con il carro a cavalli per strade non asfaltate contribuisce ad aumentare il benessere collettivo in una misura molto maggiore di un paese che costruisce una linea ferroviaria veloce (di solito molto più costosa di quella tradizionale) per ridurre di qualche minuto il tempo di percorrenza fra due città servite da una ferrovia già esistente. Il “misuratore” di questa preferenza si chiama saggio di interesse pubblico, viene definito dallo Stato, e si applica nel fare i conti.
Il saggio di interesse privato, per gli investimenti privati, e quello di interesse pubblico o “sociale”, per quelli pubblici, servono a confrontare investimenti con orizzonti temporali diversi, e logicamente fanno prevalere quelli che consentono di ottenere prima i risultati attesi, a parità del valore assoluto dei costi e dei benefici.
Naturalmente, si può decidere di realizzare un progetto anche se il risultato dell’analisi costi-benefici è negativo o vicino allo zero, sulla base di valutazioni extra-economiche di tipo politico o sociale. L’importante è giustificare le decisioni di fronte alla comunità, assumendosene pienamente la responsabilità.

TAV O NO-TAV: È ANCORA QUESTO IL DILEMMA?

In queste ultime settimane la questione della Tav Torino-Lione è andata di nuovo fuori binario. È tornata a essere luogo privilegiato di contrapposizioni ideologiche, di violenze fisiche e verbali, di atti sconsiderati e inaccettabili, di mezze verità e, soprattutto, di parole in libertà.
Noi abbiamo sempre cercato di riportare la discussione sui numeri: dalle previsioni di traffico (in genere ottimisticamente esagerate dai pro-Tav) all’impatto ambientale (in genere pessimisticamente esagerato dai no-Tav). Soprattutto, abbiamo insistentemente richiamato l’attenzione sull’esigenza di valutare i costi sociali e i benefici sociali (vedi la scheda “Analisi costi-benefici: ecco di cosa si parla“) complessivi di questo progetto e di confrontare i risultati con quelli relativi ad altri progetti, data la cronica scarsità delle risorse pubbliche. Siamo perfettamente coscienti che i nostri richiami alla razionalità della decisione possano essere stati strumentalizzati da chi a quest’opera si oppone senza se e senza ma e, soprattutto, senza troppo ragionare.
Recentemente abbiamo mostrato come le successive revisioni del progetto (detta “fasizzazione”) abbiano consentito di ridurne consistentemente i costi e solo marginalmente i benefici (vedi l’articolo “La Torino-Lione si fa low cost: perché solo ora?“). Così, se i conti sembrano indicare che i costi siano ancora superiori ai benefici, la differenza si è molto ridotta; tanto che ora è probabilmente inferiore a quella che si otterrebbe per altri progetti ferroviari (tipo Terzo valico o Napoli-Bari) che pure non suscitano tutta l’opposizione che suscita la Torino-Lione. Viene da chiedersi perché sia così scarsa l’attenzione su questi fatti e perché poco ci si interroghi su cosa abbia spinto a discutere per anni intorno a un progetto faraonico, mentre un’alternativa più economica (anche se non proprio low cost) era a portata di mano. Viene anche da chiedersi cosa spinga il movimento no-Tav a credere che compiendo reiterati atti illegali – compreso il blocco di strade e autostrade che colpisce il diritto di tutti alla mobilità – si possa ottenere qualcosa di diverso dal convincere tutti gli italiani che sono solo degli estremisti senza ragioni, che odiano qualsiasi grande opera pubblica “a prescindere”.
Senza per forza dar credito a identità propagandistiche (tipo: Tav = Modernità, oppure Tav = rimanere attaccati all’Europa) o ad affermazioni molto dubbie (“tanto i soldi ce li mette l’Europa”), sarebbe il caso di accantonare il confronto di piazza, ragionare seriamente e in tempi brevi su quali ulteriori “fasizzazioni” potrebbero contribuire a ridurre ulteriormente i costi e poi lasciar finalmente partire i lavori per la realizzazione di un’opera su cui ben sette governi diversi hanno messo (a torto o a ragione) la faccia. Semmai si dovrebbero concentrare gli sforzi a controllare che i lavori finiscano nei tempi previsti e senza lievitazione dei costi rispetto alle previsioni. Allo stesso tempo, bisognerebbe pretendere che anche per altre opere si arrivi a un ragionevole down-sizing dei progetti e che questi (e non quelli “grandiosi”) vengano sottoposti subito al confronto con gli interessi locali, per poi passare il vaglio di un’accurata valutazione dei costi e dei benefici effettuata da qualche serio e indipendente organismo internazionale.

LA TORINO-LIONE SI FA LOW COST: PERCHÉ SOLO ORA?

Il progetto originale della nuova linea Torino- Lione prevedeva 25 miliardi circa di costo totale, caratteristiche di alta velocità con ritorni finanziari trascurabili e mai esplicitati. Ora il progetto è suddiviso per fasi: all’inizio si costruirà la sola galleria di base. Il completamento della linea avverrà in funzione della reale crescita del traffico, quindi probabilmente mai. Scende di conseguenza l’investimento dell’Italia, intorno ai 3 miliardi e mezzo. Ma sulla base dell’analisi costi-benefici è una decisione saggia? E se sì, perché non è stata presa prima?

LUCI E OMBRE NELLE INFRASTRUTTURE

Per giudicare l’azione del governo Monti sulle infrastrutture non basta considerare i decreti legge, bisogna anche guardare alle delibere del Cipe. L’indirizzo strategico complessivo che ne emerge non è ancora molto chiaro. Le scelte sulle grandi opere non hanno forti giustificazioni. Bene il sì a una serie di piccole opere, perché capaci di generare più occupazione e in tempi più rapidi. Discutibili i contratti di disponibilità previsti nel decreto “cresci Italia” perché potrebbero rendere più opaco il varo di spesa pubblica aggiuntiva per opere di dubbia utilità.

MEGLIO OPERE UTILI CHE GRANDI OPERE

Nei trasporti ci sono tante cose utili da fare. Oggi, però, le scelte in questo campo devono guardare anche ai contenuti occupazionali e al contenimento del deficit. Per le ferrovie, servirebbero piccoli interventi, rapidamente cantierabili, che mirino a risolvere i problemi locali. Invece, si continuano a preferire opere ad alta intensità di capitale, con periodi di completamento molto lunghi e incerti. E allora è urgente una spending review del settore, che segni discontinuità con il passato.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Le privatizzazioni e liberalizzazioni avvenute a partire dagli anni ’90 hanno avuto anche esiti positivi: si pensi al caso delle telecomunicazioni e dell’energia elettrica, settori dotati di autorità indipendenti, e che hanno subito un aumento di efficienza accompagnato da un abbassamento delle tariffe (si veda “L’enzima della concorrenza tra slogan e equivoci” di E. Barucci). Anche la liberalizzazione delle farmacie è un ottimo esempio di liberalizzazione, come recentemente affermato dal presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà.
In alcuni settori la concorrenza non si è sicuramente scatenata, questo anche perché mancano le norme necessarie ad una ulteriore spinta all’apertura dei mercati. Bisogna poi distinguere tra concorrenza per il mercato (gare per l’affidamento nella gestione del servizio) e concorrenza nel mercato. Che i monopoli privati siano peggio di quelli pubblici è assolutamente corretto, si badi però che uno degli esempi citati, Trenitalia, è in realtà di proprietà dello Stato al 100%.
I maggiori problemi di bilancio nel TPL si riscontrano soprattutto nelle grandi città, dove i mezzi pubblici non sono utilizzati in prevalenza dalle fasce svantaggiate. Inoltre, nel nostro articolo, si sottolineava la necessità di proteggere tali fasce con misure ad hoc.
Per quanto riguarda i dati sui biglietti, si rimanda allo studio “Le tariffe del trasporto pubblico locale in alcune città europee” di F. Bianchi per un confronto tra alcune città europee dei prezzi di biglietti ed abbonamenti in percentuale al reddito medio dei cittadini. È inoltre da sottolineare il fatto che le tariffe costituiscono il solo 30% dei ricavi totali del TPL, mentre la quasi totalità degli altri introiti provengono dalle regioni e dagli enti locali.
Il fatto che la percentuale dei costi variabili sui costi totali sia minima per il TPL è abbastanza opinabile, visto che il costo per il personale raggiunge quasi il 70% dei costi totali. Oltretutto, in relazione all’inefficienza sociale, sarebbe più efficiente tassare la modalità che genera il danno (pedaggi, parcheggi…), anziché sussidiare il servizio che aiuta a ridurlo.

SE LA CRISI NON GIUSTIFICA LA PRIVATIZZAZIONE DEI SERVIZI

Tra le possibili politiche per ridurre in modo strutturale il debito pubblico italiano è emersa anche l’ipotesi di privatizzare i servizi locali e di cedere partecipazioni. Le risorse degli enti territoriali si riversano soprattutto nei trasporti locali. Ovvero in un sistema di “sussidi incrociati”, dove si generano elevate rendite monopolistiche in alcuni ambiti e si sussidiano i trasporti pubblici. Una privatizzazione del settore così com’è avrebbe dunque scarso senso finanziario. Meglio puntare sul drastico ridimensionamento dei sussidi e sull’apertura alla concorrenza.

 

LA GELMINI MESTA DICE!

La Gelmini mesta dice
Sono proprio un’infelice
I miei nove consulenti
Si rivelan deficienti

Han confuso per neutreni
I più piccoli neutrini
han pensato, sorte ria,
ci volesse galleria!

Ma Lunardi più non c’è,
buon per voi e buon per me,
altrimenti, pala in mano,
già scavava a tutto spiano.

TAV TORINO-LIONE: COME DIMOSTRARE L’INDIMOSTRABILE

Un’analisi costi-benefici sulla linea ferroviaria Torino-Lione riesce a dimostrare la redditività dell’opera. Un risultato sorprendente considerati i costi altimissimi e lo scarso traffico. Lo si ottiene però sorvolando su alcune prescrizioni previste dalle migliori prassi internazionali e senza considerare per esempio l’impatto ambientale del cantiere. Mentre le previsioni di domanda sono eccessivamente ottimistiche. Ciononostante la redditività è marginale e basterebbe abbassare una delle tante sovrastime per rendere non fattibile il progetto.

LA MIA ALTA VELOCITA È MEGLIO DELLA TUA

Appaiono davvero notevoli le dichiarazioni del governatore della Liguria Claudio Burlando (ex ministro dei Trasporti) che ha sostenuto sui media che l’Alta Velocità Torino-Lione non serve a niente e costa carissima, mentre è essenziale la linea Genova-Milano. In realtà, questa è nota come “terzo valico”, per ricordare che ce ne sono già due su quell’asse, assai poco utilizzati, e pubblicamente dichiarato inutile dall’ad delle Ferrovie Mauro Moretti solo pochi anni fa. Come ha fatto a diventare essenziale tutt’a un tratto? L’ex governatrice del Piemonte Bresso e il governatore attuale Cota, insieme all’ex sindaco di Torino Chiamparino e all’attuale Fassino han sempre assicurato che è vero il contrario e che l’AV Torino-Lione è l’opera più utile che si possa fare. Son tutte persone d’onore, ma chi ha ragione?
La disputa ha anche precedenti illustri: sul “Riformista” due anni fa ci fu un vivacissimo dibattito tra il governatore del Veneto e l’assessore campano ai trasporti Cascetta (professore assai noto nel settore dei trasporti) sui meriti relativi dell’AV veneta e di quella Napoli-Bari. E a proposito della linea AV veneta ancora recentemente (Boitani, Il Sole 24 Ore) alcuni “capitani coraggiosi” di quella regione si offrirono di costruirla a loro spese, certo purché fosse garantito un adeguato ritorno ai loro investimenti (senza precisare da chi ma, chissà perché, sospettiamo che pensassero allo Stato).
Come spiegare questa imbarazzante e “bipartisan” perdita del senso del ridicolo? La motivazione potrebbe essere semplice: si tratta di opere di dubbia utilità, tanto che se gli utenti dovessero pagare con le tariffe una parte non simbolica dei costi di investimento, si scioglierebbero come neve al sole ben prima di essere cementate. Allora devono essere interamente finanziate dalle casse pubbliche, e si tratta di cifre rilevantissime: accaparrarsi una bella fetta dei pochi soldi pubblici in palio fa gola a tutti. Dulcis in fundo, la concorrenza funziona pochissimo in questo settore, per cui una quota consistente dei sub appalti finisce ad imprese locali, che spesso poi manifestano gratitudine ai decisori politici di riferimento (anche in modo lecito, si intende). La funzionalità dell’opera non è davvero in cima all’agenda dei decisori, che nella più parte dei casi inaugureranno i cantieri, ma non ne vedranno la conclusione, essendo i tempi di realizzazione mediamente nell’ordine dei dieci anni. Queste opere tuttavia potranno collegarci ad Alta Velocità ad un importante paese europeo: la Grecia, dove le spese infrastrutturali per le Olimpiadi hanno contribuito non poco allo sfascio dei conti pubblici.

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