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Autore: Paolo Pinotti Pagina 1 di 2

Pinotti Professore in Economia e Chair di Analisi Economica della Criminalità all'Università Bocconi, direttore dell'unità di ricerca CLEAN per lo studio della criminalità presso il centro Baffi-Carefin e coordinatore della Fondazione Rodolfo Debenedetti. Ha ottenuto il Ph.D. in Economics presso l'università Pompeu Fabra nel 2009 e ha lavorato al Servizio Studi della Banca d'Italia dal 2007 al 2011.

Angrist, Card e Imbens, un Nobel oltre gli stereotipi

Il Nobel per l’Economia 2021 premia un modo di interpretare il ruolo dell’economista come scienziato sociale in grado di mettere i dati al servizio delle scelte di politica economica. I meriti dei tre premiati, nel ricordo di Alan Krueger.

Se lo straniero diventa cittadino

Dal disegno di legge sui diritti di cittadinanza è lecito aspettarsi una maggiore integrazione economica e culturale degli immigrati e dei loro figli e un calo dei tassi di criminalità locali. Si sa poco invece di eventuali conseguenze in altri ambiti.

80 euro rimasti nel portafoglio

Il bonus di 80 euro ai lavoratori dipendenti ha avuto un effetto positivo sui consumi e dunque sul Pil in generale? Forse è presto per dirlo. L’incertezza sulla conferma e sulle coperture finanziarie può averne attenuato i risultati, almeno per il 2014. Beneficio individuale e reddito familiare.

Perché gli italiani votano per Berlusconi?

Uno studio documenta un effetto significativo dell’esposizione ai canali Mediaset sulla probabilità di votare per Forza Italia. Questo effetto e’ molto persistente e opera principalmente attraverso l’esposizione ad un modello culturale compatibile con la retorica politica berlusconiana.

RESTA UNA ROULETTE

Ringraziamo Nicola Persico per aver portato nuova linfa al confronto di opinioni tra economisti e magistrati originato dai nostri articoli, confronto che, per inciso, forse non avrebbe avuto luogo senza gli articoli stessi.

UN ESEMPIO CHIRURGICO

Può essere utile, per chiarire il nostro pensiero alla luce dei commenti di Nicola Persico, considerare il caso di una malattia che, allo stato attuale delle conoscenze mediche, possa essere curata solo con un intervento chirurgico eseguibile in diverse varianti tutte molto incerte. I pazienti arrivano al pronto soccorso e casualmente trovano in servizio uno dei tanti chirurghi di un ospedale. I chirurghi sono tutti bravissimi, ma hanno legittime opinioni diverse su quale sia la variante migliore di intervento a seconda delle peculiarità specifiche del malato. I cittadini, quindi, senza alcuna “colpa” dei medici, si trovano esposti a una lotteria, riguardo ai risultati dell’operazione, che in parte deriva dall’incertezza stessa della tecnica chirurgica e in parte deriva anche dai legittimi orientamenti del medici. È perfettamente possibile che la variante A preferita dal medico X generi mediamente esiti più infausti, ma, in caso di successo, dia risultati migliori. Viceversa, con la variante B preferita dal medico Y.
In questo contesto, ipotizziamo che venga scoperta una terapia farmacologica che riduce notevolmente la variabilità degli esiti terapeutici, anche senza assicurare guarigione certa. La terapia farmacologica riduce solamente l’incertezza a cui sono esposti i cittadini che devono ricorrere al pronto soccorso. Per quale motivo l’ospedale non dovrebbe prendere in considerazione la terapia alternativa, che implicherebbe di non affidare più ai chirurghi il trattamento dei casi corrispondenti?

CONCILIAZIONE E TRASPARENZA

I nostri articoli non erano finalizzati a stabilire quanto della variabilità dei tempi e degli esiti osservati nei tribunali considerati sia dovuta a “errore” del giudice. Questa è la domanda studiata nel saggio americano citato da Nicola Persico, ma non è quella che a noi interessa. (1) Anche se la variabilità fosse interamente dovuta a validissimi motivi (cause pregresse nel caso dei tempi, legittimi orientamenti nei casi degli esiti), il nostro punto rimarrebbe valido: l’attuale assegnazione casuale dei processi ai giudici, per ottemperare all’articolo 25 della Costituzione, genera una lotteria per i cittadini anche senza colpe per i magistrati. La lotteria è inevitabile per molti processi in cui l’accertamento giudiziale è insostituibile, ma almeno per quelli dovuti a giustificato motivo oggettivo esiste una “terapia” alternativa che assicura al cittadino meno incertezza.
E questo a maggior ragione nei casi di licenziamento per motivo economico e organizzativo, nei quali i giudici non devono interpretare “uno stesso fatto” come ritiene Persico. Devono invece esprimere una valutazione sul futuro, ossia sulla probabilità che il posto di lavoro in futuro generi una perdita e su quanto grande la perdita sia. E, alla luce di queste valutazioni, devono decidere se la perdita attesa (data dalla probabilità di perdita moltiplicata per la sua entità) sia sufficientemente alta da potersi considerare un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Per inciso, val la pena di ricordare anche che, nell’attuale disciplina, il lavoratore (sfortunato) per il quale il licenziamento venga considerato legittimo per motivo economico-organizzativo (e quindi senza nessuna sua colpa) si ritrova con un pugno di mosche in mano. Con il metodo del risarcimento, potrebbe in ogni caso godere di una somma di denaro che lo aiuterebbe a transitare ad altra occupazione. Anche solo per questo motivo, non sembra preferibile la “terapia alternativa”?
Riguardo ai casi conciliati, il nostro articolo dice chiaramente che: “sotto l’ipotesi che la frazione di sentenze favorevoli al lavoratore emesse da un giudice sia proporzionale al grado in cui le conciliazioni indotte dallo stesso giudice siano favorevoli al lavoratore, possiamo concludere che, anche tenendo conto dell’elevato numero di conciliazioni, la lotteria derivante dall’assegnazione casuale dei processi ai magistrati di un tribunale implica probabilità di vittoria molto differenti a seconda della sorte”. Ci sembra un ragionamento basato su un’ipotesi plausibile, da verificare ovviamente se fossero disponibili dati precisi sugli esiti delle transazioni conciliative. Anche in questo caso servono dati e trasparenza per una ricerca che sarebbe utilissima.
Infine colpisce, sempre a proposito di trasparenza totale, come sia interpretata negli Stati Uniti: lo studio americano riporta addirittura la performance dei differenti giudici con il loro nome.

(1) Fischman, Joshua B., “Inconsistency, Indeterminacy, and Error in Adjudication” (February 27, 2012). Virginia Public Law and Legal Theory Research Paper No. 2011-36. Available at SSRN: http://ssrn.com/abstract=1884651

LA RISPOSTA DEGLI AUTORI A LEONE E TORRICE

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LA RISPOSTA A PIERO MARTELLO

Ringraziamo il Dr. Martello per il suo gradito commento che consente di continuare il dialogo su una questione di grande rilevanza.
Riconosciamo che i nostri dati non sono recenti, ma hanno il vantaggio di consentire la misurazione della durata totale effettiva di tutti i processi iscritti a ruolo in un dato periodo, fino alla loro completa conclusione. La considerazione di cause recenti generalmente non consente questa possibilità.
In ogni caso, ciò che invita ad una riflessione nei nostri risultati non è tanto la durata media dei processi, quanto la variabilità di durate e di orientamenti decisionali tra i giudici di una stessa sede, posti di fronte a fattispecie statisticamente simili. Il dato medio riportato dal Dr. Martello, che è indice di miglioramenti davvero notevoli del Tribunale di Milano nel suo complesso, non è però rilevante ai fini del valutare la variabilità al suo interno. Ma se egli volesse darci accesso ai dati recenti del suo tribunale potremmo verificare se la variabilità tra magistrati che noi abbiamo riscontrato nel 2003-2005 permanga ancora, sia per i tempi che per gli esiti del giudizio.
La nostra ipotesi è che se anche guardassimo ai dati recenti, emergerebbe un variabilità analoga, che non può lasciarci indifferenti  pensando a come è percepita dal cittadino.  Ovviamente, non mettiamo in discussione il metodo dell’assegnazione casuale dei procedimenti ai magistrati di una stessa sede, che costituisce il modo in cui viene applicato, in molti tribunali, l’art. 25 della Costituzione (“Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”) assicurando che non vi sia alcun tipo di correlazione tra il giudice e i casi a lei o lui assegnati. I termini che abbiamo usato a questo proposito (lotteria e roulette russa) non intendono affatto criticare questo metodo di assegnazione e tantomeno si riferiscono ai criteri di giudizio del singolo giudice. Servono solo a sottolineare il dato di fatto della marcatissima aleatorietà che ne deriva sia nei tempi di giudizio sia nei criteri con cui vengono giudicate fattispecie statisticamente identiche.
La pluralità degli orientamenti giurisprudenziali è un valore positivo, quando serve a correggere un orientamento dominante, sostituendolo con un altro orientamento dominante migliore. Ma se – particolarmente nella materia del lavoro – dovesse risultare che la pluralità degli orientamenti giurisprudenziali è il puro e semplice effetto, stabile nel tempo, dell’orientamento pro-business o pro-labor di ciascun singolo magistrato, allora occorrerebbe chiedersi se non esistano tecniche normative migliori per proteggere la sicurezza economica e professionale dei lavoratori.
Al cittadino interessa l’effetto reale delle norme, non l’effetto che, nelle intenzioni del legislatore, dovrebbero avere. Il nostro articolo voleva solo sollevare un dubbio. Ossia che l’attuale disciplina generi risultati troppo aleatori per essere accettabili, proprio in considerazione del rango costituzionale degli interessi in gioco. Abbiamo provato semplicemente a “dissotterare” il problema, perché se ne possa discutere con piena cognizione di causa. E anche con quella attenzione alla trasparenza sui dati che costituisce un principio fondamentale di democrazia oggi sancito e precisato dalla legge n. 15/2009 e dall’art. 14 del Collegato-Lavoro 2010.
Proprio per questo consideriamo estremamente positivo il fatto che, per la prima volta nel nostro Paese, gli uffici giudiziari dei tre più importanti Tribunali italiani abbiano applicato integralmente questo principio, consentendo concretamente la ricerca di cui stiamo discutendo e, in particolare a Roma, sperimentazioni innovative finalizzate ad analizzare e risolvere questi problemi. Auspichiamo che questo esempio sia seguito da tutti gli altri uffici giudiziari, perché l’indispensabile e urgente perseguimento della maggiore efficienza della giustizia in Italia, a cui in primo luogo i magistrati tengono, passa anche attraverso questa scelta.

LA RISPOSTA DEGLI AUTORI

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LA ROULETTE RUSSA DELL’ARTICOLO 18

La protezione di un diritto fondamentale della persona è affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi per cause di lavoro a giudici molto diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione. È quanto emerge da una ricerca sulle cause tra lavoratori e datori di lavoro nei tre maggiori tribunali italiani: Milano, Roma e Torino. Gli esiti di ogni azione sono affidati, in ultima istanza, al caso.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti. La maggior parte dei commenti solleva i seguenti punti, strettamente connessi tra loro:
1- Perché il lavoro si concentra sull’andamento del tasso di criminalità complessivo anziché sulla (maggiore) propensione al crimine dei cittadini stranieri che emerge dalle statistiche sulla popolazione carceraria?
2- Come si concilia il risultato principale della nostra analisi, e cioè che l’aumento dei flussi migratori non abbia portato ad un aumento significativo del crimine in Italia, con la maggiore incidenza dei cittadini stranieri (rispetto a quelli italiani) sul totale della popolazione carceraria?

In questa risposta provo a chiarire la nostra scelta riguardo alla variabile di interesse (punto 1.) e suggerisco alcune ipotesi che possono riconciliare i nostri risultati con gli alti tassi di incarcerazione osservati tra la popolazione straniera (punto 2.).
Relativamente al primo punto, abbiamo scelto SI–>DI studiare l’effetto dell’immigrazione sul tasso di criminalità complessivo perché ci sembra quello maggiormente rilevante ai fini delle politiche sulla sicurezza, in quanto i costi sociali ed economici del crimine non dipendono dalla nazionalità di chi lo commette. L’incidenza degli stranieri sulla popolazione carceraria è, in prima approssimazione, un’informazione potenzialmente utile per determinare quanta parte di tali costi è attribuibile all’immigrazione; tuttavia, può essere fuorviante se la variazione delle condanne a carico di cittadini stranieri non implica necessariamente una variazione di pari entità (o quantomeno proporzionale) dei crimini totali.
Questo è un punto cruciale, che ci porta direttamente al secondo quesito: come è possibile che gli stranieri si caratterizzino per una maggiore probabilità di finire in carcere e, allo stesso tempo, un’intensificazione dei flussi migratori non si traduca in un aumento del tasso di criminalità complessivo? A questo proposito, è doveroso ribadire che il nostro lavoro non analizza in dettaglio le cause della diversa propensione al crimine dei cittadini stranieri e italiani, quindi quelli che seguono sono solo alcuni spunti di riflessione (la maggior parte dei quali, peraltro, già suggeriti in alcuni commenti al nostro articolo).
In primo luogo, confrontare la propensione al crimine di due gruppi sulla base della loro incidenza sul totale della popolazione carceraria richiede quantomeno che, a parità di altre condizioni, la probabilità di essere incarcerati dato che si è commesso un crimine sia la stessa tra i due gruppi. Tale condizione può essere violata quando si confrontano cittadini stranieri e italiani per diverse ragioni. La più importante (ma ce ne sono altre) è che differenze reali tra i due gruppi in termini di propensione al crimine potrebbero essere notevolmente amplificate dalla discriminazione statistica nei controlli. Con tale termine ci si riferisce ad una discriminazione che non è motivata da avversione verso un determinato gruppo (in questo caso gli immigrati) ma piuttosto dal fatto che, se tale gruppo è maggiormente a rischio di commettere crimini e se i suoi appartenenti sono chiaramente riconoscibili (per esempio sulla base dei tratti somatici), è razionale ed efficiente concentrare i controlli su quel gruppo. Ne discende che differenze nei tassi di incarcerazione riflettono disporporzionatamente le effettive differenze nella propensione al crimine.
Un esempio può essere utile per chiarire questo punto. Immaginiamo che la popolazione sia composta da 50 individui di tipo A e da 50 di tipo B, e che per ogni reato commesso l’autorità di pubblica sicurezza possa indagare su un solo individuo. La reale propensione al crimine (intesa come probabilità di commettere un reato) è uguale all’1% per gli A e all’1,1% per i B. A parità di altre condizioni, dovendo scegliere se controllare un A o un B, l’autorità di pubblica sicurezza sceglierà (razionalmente ed efficientemente) di controllare sempre il B, perché ha una maggiore probabilità rispetto all’A di essere colpevole. Ne consegue che i B (qualora vengano ritenuti colpevoli) saranno gli unici ad andare in carcere; un’incidenza leggermente superiore al 50% nel numero reale di crimini commessi (1,1/2,1=52%) si è trasformata in un’incidenza del 100% sulla popolazione carceraria.
Questo esempio rappresenta ovviamente un caso limite, ma chiarisce come, in linea di principio, la significativa ricomposizione della popolazione carceraria potrebbe essere determinata da una propensione al crimine degli immigrati lievemente maggiore, ma di per sé insufficiente a muovere significativamente il tasso di criminalità. Si noti, a questo proposito, che la componente regolare dell’immigrazione rappresenta circa il 6% della popolazione residente e un’analoga percentuale degli individui denunciati. La maggiore incidenza degli stranieri sulla popolazione carceraria è dunque dovuta esclusivamente alla presenza irregolare, la cui incidenza sul totale della popolazione residente è ovviamente difficilmente quantificabile. Tuttavia, le stime effettuate sulla base delle domande di regolarizzazione suggeriscono un limite massimo inferiore al 30% della popolazione straniera, quindi inferiore al 3% del totale della popolazione residente in Italia; numeri senz’altro rilevanti, ma probabilmente insufficienti a muovere il tasso di criminalità aggregato, anche in presenza di un’effettiva maggior pericolosità degli immigrati irregolari rispetto al resto della popolazione.
Infine, un ulteriore elemento che, in linea di principio, può riconciliare la maggiore incidenza degli stranieri sulla popolazione carceraria con l’assenza di effetti significativi sul tasso di criminalità complessivo, è la relazione tra immigrazione e propensione al crimine dei cittadini italiani. Analogamente a quanto avviene talvolta in alcuni segmenti del mercato del lavoro "ufficiale", anche nel settore illegale la maggiore partecipazione (e competizione) degli immigrati può diminuire i guadagni degli altri individui (italiani), inducendoli ad abbandonare tali attività. Se questo avviene, l’attività criminale degli stranieri si sostituisce a quella degli italiani, determinando una maggiore incidenza DEGLI–>DEI primi sul totale dei crimini commessi (e quindi sul totale della popolazione carceraria) senza che ciò abbia effetti rilevanti sul tasso di criminalità aggregato.

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