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Categoria: Concorrenza e mercati Pagina 46 di 82

CALMA PIATTA NELL’INDOTTO *

Molti ritengono che l’industrializzazione sia fondamentale per garantire lo sviluppo economico delle aree depresse. Tuttavia, uno studio recente dimostra che nel nostro paese l’effetto di indotto sull’economia locale dell’espansione del settore manifatturiero è nullo. Perché? Tre le possibili spiegazioni. Una vale per l’Italia intera, la seconda riguarda essenzialmente il Mezzogiorno. La terza offre una lettura per il Centro-Nord.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie a tutte le lettrici ed a tutti i lettori. Compresi quelli che mi hanno scritto personalmente di persona.
Sulla Torino-Lione cito qualche numero. Alla fine degli anni Settanta la tratta Bussoleno-Salbertrand della attuale linea era a binario unico: 23 km con pendenze dal 27 al 30 per mille, che per i treni è tantissimo. I merci andavano su spesso in tripla trazione (due locomotive in testa e una in coda, senza radio né telefono, solo coi fischi). E passavano 10 Milioni di tonnellate di merci all’anno, adesso con la linea a due binari e pendenze più agevoli (26 per mille) siamo sugli 8 milioni. Sul Gottardo, quando si è deciso di progettare ( e poi di sottoporre a ben due referendum) la Galleria di base, passavano 26 milioni di tonnellate all’anno (di cui circa 4 milioni di traffico interno). Adesso sono poco meno. Sul Brennero siamo sui 6 milioni. Un recente studio commissionato da "Iniziativa da las Alps" alla società Metron di Brugg ha messo comunque in luce che senza provvedimenti di accompagnamento di tipo economico-normativo, solo il 5% o poco più dell’attuale traffico stradale attraverso il Tunnel del Gottardo passerà sui treni. Infatti il guadagno di tempo è stimato in circa 1 ora, che rispetto alle 6-12 ore che un carro tradizionale passa in uno scalo di smistamento è irrilevante. Le diminuzioni di costo di esercizio per le imprese ferroviarie saranno sensibili solo con il completamento del tunnel sotto il Monte Ceneri (Lugano-Bellinzona) e del Tunnel dello Zimmerberg (Zug-Thalwil) perché renderanno superfluo l’uso della doppia trazione oppure, in alternativa, circoleranno treni molto più pesanti con due locomotive.
Sugli investimenti infrastrutturali per le merci cito Union Pacific (quotata in borsa). Nei primi anni Ottanta, per cercare di contrastare il declino del traffico merci per ferrovia, UP studiò due progetti alternativi: portare la velocità massima dei treni merci da 60 miglia/ora (96 km/h) a 100 miglia/ora (161 km/h) su alcune direttrici transcontinentali oppure "alzare la bassa velocità" (15-30 miglia/ora) nei nodi e nei grandi scali, dove i treni impiegavano molte decine di minuti per entrare/uscire o semplicemente per transitare, con in più alcuni interventi mirati di tratti a doppio e triplo binario. Sembrerà strano a molti, ma il costo dell’intervento sulla bassa velocità era di un fattore 10 inferiore a quello sull’alta, dava risultati in meno tempo e, soprattutto, aumentava la velocità del sistema di un fattore molto più alto rispetto alle 100 miglia/ora. Così si è fatto, e UP è una delle "7 sorelle ferroviarie" che svolgono il traffico merci in Nordamerica, dopo avere assorbito MP, MKT, CNW, SP. La taglia media di un treno merci nel Nordamerica è di 8.000 tonnellate (da noi 800) ed è lungo almeno un miglio (1600 metri, da noi 400).
Sugli incentivi per i raccordi. Non so quante segherie in Molise vogliano il raccordo. Però non mi risulta che ANAS paghi le strade per le fabbriche. Se un imprenditore vuole il binario in fabbrica è giusto che lo paghi fino a raggiungere la ferrovia più vicina, eventualmente anche lo scambio. Ma è delirante pretendere che debba pagare tutti i segnali e le modifiche (anche cervellotiche) che RFI vuole per i propri impianti, compresi km e km di nuovo binario in affiancamento alla linea o la soppressione di Passaggi a Livello. Se poi il traffico del raccordato raggiunge livelli insostenibili per un raccordo tradizionale, RFI deve anticipare i costi dei miglioramenti dell’allacciamento e farli scontare in un congruo numero di anni (almeno 20) con il pedaggio per accedere alla fabbrica. Nel frattempo siamo in attesa che il Consiglio di Stato si pronunci sulla legittimità del DPCM 7/7/2009 "Direttive a RFI sul trasferimento di Impianti merci a Trenitalia" MAI PUBBLICATO IN GU ed impugnato da Fercargo, l’associazione degli operatori privati, che ha fatto avviare anche una procedura di pre-infrazione della Commissione.
Sugli stipendi dei ferrovieri (FS e non, anche se ho alcuni numeri) preferirei non pronunciarmi, ma segnalo che i dipendenti di Omnitel NON avevano il contratto dei telefonici, ma quello dei metalmeccanici. Forse a qualcuno fa schifo che i costi telefonici in 10 anni siano calati del 65%? E sono certo che i nuovi operatori "elettrici" non applicano quello di ENEL, e nemmeno quello Federgasacqua. Non mi sembra che i relativi dipendenti stiano morendo di fame. I concessionari privati delle "Autolinee Ministeriali" applicano il contratto degli autoferrotranvieri e non lavorano certo in perdita, anzi.
Sul Ponte sullo Stretto osservo un particolare. Il pericolo più grave per una costruzione del gener (ferroviariamente sarebbe un unicum, non esistono ponti ferroviari sospesi così lunghi, credo al massimo arrivino ad un quarto della lunghezza) è la stabilità aeroelastica, non quella sismica. Orbene le simulazioni le ha fatte un noto professore del Politecnico di Milano, che fu anche perito del PM nel disastro di Piacenza del 12 gennaio 1997. Dato che in quel procedimento ero perito di parte lesa, ricordo benissimo che il suddetto prof. fornì al PM una simulazione alcalcolatore del ribaltamento del Pendolino che faceva alcune semplificazioni più che discutibili. Chiesi al pm tramite l’avvocato di avere copia del programma di simulazione, ma il prof. si rifiutò di consegnarla adducendo motivi di "segreto professionale e copyright". Da quella volta evito accuratamente la prima carrozza dei Pendolini.
Sugli incidenti stradali ricordo che la maggior parte avviene su strade ordinarie extraurbane, al secondo posto le strade urbane. Avere introdotto a tappeto il cd "Tutor" in autostrada ha fatto calare verticalmente il numero di incidenti e di morti su quelle infrastrutture. Il preconsuntivo dei morti del 2010 mi risulta sui 4000 per tutta Italia, erano 4237 nel 2009, di cui 667 pedoni e circa 600 ciclisti.
Sull’a.d. del gruppo FS ricordo che è anche sindaco di un Comune del Reatino, evidentemente cercava uno svago per il fine-settimana. Lo conobbi nella seconda metà degli anni Ottanta quando era Segretario Regionale della Filt-CGIL dell’Emilia-Romagna. Mi fece una strana impressione: in un ufficio pieno di carte e volumi, anche sulla scrivania, era tirato a lucido in doppiopetto blu scuro e cravatta di marca. Molto strano come sindacalista, pensai, soprattutto di ferrovieri. E non mi sembrò molto preparato sulla storia delle ferrovie e sulle condizioni operative dell’esercizio.
Sui macchinisti di NTV (auguro un successo clamoroso a entrambi) ricordo che questa impresa ha alle spalle ingenti capitali e che ha potuto usufruire per la formazione dei propri dipendenti di istruttori accreditati e di locomotive di Nordcargo (gruppo LeNord) nonché di un congruo numero di istruttori e di macchinisti pensionati del gruppo FS o congedati dal Genio Ferrovieri. Come d’altronde fatto da quasi tutte le nuove imprese. Non credo che sia necessario istruire un macchinista per 18 mesi. Il regolamento segnali è molto più semplice del codice della strada e se in tre mesi fate la patente E e potete guidare un Tir di 44 ton o un autobus snodato con 150 persone nel traffico urbano, onestamente non vedo perché ci sia questa discriminazione. Inoltre la patente E vale in tutta Europa, la patente F (ferroviaria) ancora no, anche se la UE lo vuole almeno per le linee a standard ETCS. Ovviamente RFI ha attrezzato solo le linee AV con l’ETCS, sulle tradizionali niente, nemmeno lungo i corridoi (Assi) della rete Transeuropea. Sospetto che anche su questo corriamo senza freni verso una procedura di infrazione. Una più una meno ormai…
Sulle stazioni con capostazione segnalo che io parlavo di scali che fanno da 600.000 a 1 Milione di tonnellate all’anno. In una stazione che faceva tre carri al giorno ci sono "nato", ricordo che nei primi anni Ottanta c’erano 4 ferrovieri: capostazione, deviatore, assistente e capo gestione; a volte i carri erano anche 5 o 6, non si faceva marketing, si curavano le aiuole. Non rimpiango questa ferrovia. Ma oggi lo scalo è un parcheggio, la stazione è telecomandata da 200 km di distanza, la biglietteria è aperta 6 ore al giorno nei feriali. Se volete spedire o ricevere per ferrovia ( fabbriche ce ne sono molte, anche una di fama internazionale, la LEITNER) dovete andare a 70 km di distanza. Se fate traffico intermodale dovete andare a 120 km. Ma negli anni Sessanta andavano via da lì treni interi di trattori. E di legname da costruzione.
Sul Certificato di Sicurezza non so come spiegarlo in maniera elementare: all’estero è UNICO per tutta la rete di un Gestore, dato che il Regolamento Segnali è UNICO per tutta la rete così come il Regolamento Circolazione Treni e tutti gli altri. In Italia no, e la sicurezza non c’entra niente. ANSF ha ereditato da RFI una serie zeppe ridicole quando non farsesche che una qualsiasi autorità Antitrust seria avrebbe sottoposto a sanzioni draconiane, un’autorità seria appunto. Sulla sicurezza dopo Viareggio segnalo che nessun proprietario di carri in Europa ha adottato provvedimenti come quello citato. Il problema della rottura degli assi è vecchio come la ferrovia, e comunque ancora non sappiamo COSA ha bucato la cisterna (ne sono sviate 9, 5 si sono ribaltate ed una sola si è bucata). Da tempo esistono apparecchiature "portatili" per il controllo non distruttivo degli assili (a ultrasuoni), ma spesso sono buttate in un angolo, e poi faceva acqua il controllo di qualità in acciaieria. Il problema però non sono i treni, è il GPL. Nel 1974 in Spagna una camion con rimorchio carico di GPL si ribaltò su una strada costiera vicino ad un campeggio, ci furono se non ricordo male quasi 200 morti. Ma il GPL ha continuato a girare impunemente ovunque.
Infine credo che il trasporto di merci, sia esso su camion, aereo, nave, carretto o treno sia un fenomeno economico ed in quanto tale debba rispettare determinate regole a garanzia della salute pubblica e della concorrenza, dopodiché vinca il migliore. Non possiamo tornare ai tempi della DDR o della Romania di Ceaucescu (io le ho viste) dove tutto andava per ferrovia, anche per 20 km. Non poteva durare.
Non mi scandalizzo se qualcuno vuole fare i soldi con le merci per ferrovia. Però sono indignato che qualcun altro distrugga un patrimonio costruito dai nostri bisnonni, nonni e padri pur di non metterlo a disposizione dei concorrenti. Non solo perché si spaccia di sinistra e perché certi ambienti della sinistra continuano a coprirlo.

TRIVULZIO, PIO PER GLI AMICI

Un confronto tra i canoni d’affitto dichiarati dal Pio Albergo Trivulzio con quanto indicato dall’Agenzia del territorio per le corrispondenti zone di Milano rivela sconti superiori anche al 40 per cento. Insomma, mediamente il patrimonio immobiliare dell’ente ha reso molto meno di quanto avrebbe potuto, con un danno per le sue finalità statutarie. Tanto più che le cifre pattuite non sembrano riconducibili a una logica economica comprensibile e a una gestione coerente nel corso del tempo. Come il commissario straordinario dovrebbe affrontare la questione. E cosa chiedere agli inquilini.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio tutti i lettori per i numerosi commenti, che mi suggeriscono per brevità di concentrarmi solo su due argomenti, per rinviare gli altri a prossimi approfondimenti.
I viaggi di istruzione sono un segmento molto importante del mercato turistico, anche se non è agevole quantificarlo. Certamente, però, i tagli agli insegnanti-accompagnatori  lo danneggeranno ulteriormente; mentre, come noto, i costi già da oggi li sostengono le famiglie. Come pure quelli delle attività extrascolastiche, peraltro essenziali, tra cui la musica e lo sport (confrontare i costi della quota di una qualunque società sportiva con il risibile sconto fiscale che se ne può ricavare!).
Eppure sono convinto che non siano attività voluttuarie, né il viaggio né la musica né lo sport. Come ha affermato il professor Roberto Vecchioni a “Che tempo che fa” il 27 febbraio 2011, la scuola e le materie di studio non sono solo nozioni o conoscenze, ma “simulazioni di vita adulta” condotte in ambito protetto: quanto di più utile all’educazione dei ragazzi.
Quanto al turismo culturale, non entro nel merito della necessità di tutelare il Patrimonio, che come noto è sancita dalla Costituzione, oltre che sembrare ovvia a quasi tutti gli Italiani.
Ma mi appassiona la valorizzazione turistica dei beni, degli eventi, della cultura materiale diffusa. Sono convinto che una delle poche fonti di ricavo sia proprio questa, a patto che la si sappia “mettere in valore” e misurare.
I turisti sono uno straordinario fruitore dei beni culturali, in quanto oltre che pagare il biglietto (quando c’è), si comportano da cittadini temporanei: mangiano, dormono, viaggiano, comprano, telefonano, ecc.
Il beneficio della corretta valorizzazione della cultura non sta solo nelle biglietterie dei siti, dei musei, dei teatri: sta nel calcolo dell’impatto dei turisti “culturali” sui territori e sull’economia nazionale.
Ma, su questo, siamo ancora straordinariamente sguarniti: nel capire, nel vedere, e soprattutto nel contare.

Ulteriori commenti, commuoventi e professionali mi fanno notare che in Italia mancano diverse cose e tutte importantissime. Mi limiterò ad elencarne tre.
Innanzi tutto manca una politica di settore, che sarebbe poi una centralità condivisa. Politica è il saper riconoscere tutti che il turismo è una attività importante, centrale, strategica, da perseguire e non solo sfruttare occasionalmente. In molte zone del Paese questa politica c’è, questa centralità è chiara e rivendicata, e i risultati si vedono. A livello nazionale le cose stanno diversamente, anche perché “per legge” non esiste una Autorità centrale preposta e riconosciuta. Così non riusciamo a fare né sistema né cultura gestionale.
La seconda grave carenza è l’orientamento al cliente, anche questo molto variegato da zona a zona, da impresa a impresa. Sembra quasi che ci si debba occupare dei clienti solo quando le cose vanno male, e gli ospiti non si fanno più vedere. Ma la soddisfazione del cliente è un comportamento strategico fondamentale, un fatto di civiltà prima ancora che una leva di marketing insostituibile proprio nel turismo, dove la  fidelizzazione ed il passaparola restano le leve di marketing largamente più efficaci.

Infine, manca nella maggior parte delle imprese un management dei prezzi e dei ricavi: è ridicolo stampare i prezzi massimi dietro la porta della camera d’albergo, quando magari poi le contrattazioni e le proposte dei portali viaggiano su livelli che sono la metà o anche un quarto del listino. Una politica di prezzi elastici orientata al cliente da un lato, e alla redditività delle imprese dall’altro, non potrebbe che favorire un migliore equilibrio del mercato, su livelli di scambi più alti, e con maggiore soddisfazione reciproca e “sociale”.      

TURISMO SENZA SORRISI

L’ottimismo manifestato da più parti sull’andamento del turismo in Italia non sembra giustificato dai dati. Nel 2010 sono calati, e molto, i giorni di vacanza e i viaggi d’affari. Tradotti in euro significano perdite significative per gli operatori. E gli italiani hanno rinunciato soprattutto alle microvacanze e ai week-end lunghi. Ovvero a quel superamento della stagionalità che rappresenta la speranza di consolidamento e crescita del settore. Manca in particolare una politica del turismo per il mercato interno.

IL TRENO MERCI SUL BINARIO MORTO

Per i treni merci italiani la crisi è cominciata da anni. Dovuta a scarsa produttività del personale, organizzazione del servizio ottocentesca, impianti obsoleti, locomotive vecchie e poco affidabili, marketing inesistente, treni lenti e spesso in ritardo. Ora si aggiungono le barriere all’ingresso di imprese diverse da quelle che fanno capo a Fs. E una serie di vessazioni per le aziende che volessero utilizzare la ferrovia per spedire la propria merce. Forse perché le aree degli scali possono essere vendute a peso d’oro. Ma è tutto il contrario di quello che accade negli altri paesi.

IL TAXI A ROMA SBANDA SULLE TARIFFE

Ecco la soluzione alla crisi dei taxi a Roma, deve aver pensato qualche genio! Come è possibile non averci pensato prima? Se la domanda cala in misura preoccupante e i taxi stanno a lungo fermi ai parcheggi, basta aumentare i prezzi. Avrebbero dovuto pensarci anche le nostre imprese esportatrici, colpite da un calo della domanda estera superiore al 30 per cento.  Ma perché mai non ci hanno pensato? Ovviamente, le poverine non hanno a disposizione la saggezza della “Commissione di congruità” nominata dal Sindaco di Roma per valutare le richieste di aumento delle tariffe dei taxi romani. A fronte di un calo della domanda unitaria pari al 30 per cento, dovuto (così si afferma) all’aumento del numero delle licenze deciso dall’allora sindaco Veltroni nel 2007, la soluzione raccomandata e tosto adottata dalla Giunta Alemanno è l’aumento della tariffa. La Commissione e la Giunta non sembrano essere state sfiorate dal pensiero che, a seguito dell’aumento delle tariffe, la domanda calerà ulteriormente e con essa anche i ricavi.
La colpa, si sa, è delle duemila nuove licenze concesse da Veltroni nel 2007. I criteri con cui quelle licenze vennero distribuite erano e restano criticabili. Ma il punto è che, grazie a quel provvedimento, c’era la possibilità che Roma da città dove i clienti cercano i taxi, si trasformasse in città dove i tassisti cercano i clienti (come diceva Franco Romani e come si pratica in quasi tutte le città del mondo)! Il fatto che questa possibilità fosse una grande opportunità per la maggioranza dei romani e dei turisti evidentemente è sfuggita alla Commissione. Il singolo tassista pensa sia meglio aspettare i clienti al parcheggio – intendiamoci: quei pochi per cui il taxi è assolutamente necessario – e farli pagare tanto. Ma è un’illusione. Il chilometraggio diminuirà ancora. Per far aumentare i ricavi bisogna cercare i clienti lungo le strade e offrire tariffe basse, soprattutto sui percorsi medio-brevi, e quindi guidare di più.
Ma la Commissione di congruità è saggia. Per definizione, anche quando suggerisce decisioni incongrue, in stridente contrasto con l’abc dell’Economia.

P.S. Per fortuna, il Tar del Lazio ha sospeso la delibera comunale. Il pronunciamento nel merito è previsto per il 23 febbraio. Sarà interessante vedere gli argomenti dei giudici amministrativi.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Per prima cosa vi ringrazio per i commenti ricevuti. A tal proposito colgo l’occasione per fare alcune precisazioni, sperando che possano chiarire dubbi e rispondere alle vostre domande:

– L’articolo si è occupato esclusivamente delle attività relative a veicoli passeggeri in Europa, pertanto non si contesta la veridicità di altre pubblicazioni che fanno invece riferimento a risultati di bilancio. Cito testualmente la fonte: (Morgan Stanley – January 2011 – “ FIAT, What’s going on in Italy?”): ”European losses of up to E1bn p.a. threaten to undermine Fiat’s ambitious business plan if not addressed soon”. Questo però non esclude che l’azienda possa comunque generare utili; ad esempio lo stesso comparto, in Brasile, ha risultati che sono più che sufficienti a compensare le perdite in Europa e a generare profitto.

– La focalizzazione dell’articolo non considera la molteplicità delle attività del gruppo: non solo veicoli passeggeri, ma anche veicoli commerciali leggeri, veicoli commerciali e ricambi, per citarne alcune. Gli impianti Italiani presi in considerazione sono quindi il 25% del totale: 5 impianti, su un totale di 20 stabilimenti presenti nel nostro Paese (in gran parte controllati da Fiat). 

– Le proiezioni sulle vendite dei SUV considerano anche il prezzo dei carburanti. L’auto però non soddisfa solo il bisogno di mobilità, ma fa riferimento ad una sfera molto più ampia di desideri: un SUV quindi comunica aspetti della personalità e dello status sociale del proprietario, oltre che infondere, ad esempio, un maggiore senso di sicurezza alla guida. Il confronto tra veicoli spesso viene fatto dal consumatore sulla base di elementi non solo razionali ma anche emozionali, col prevalere spesso di questi ultimi. L’emozionalità non va intesa come assenza di logica, ma semplicemente come una diversa scala di valutazione dell’offerta. È un fenomeno che trova riscontro in diversi ambiti merceologici. Inoltre, osservando il contenuto di attuali campagne di comunicazione di alcuni prodotti della categoria, si notano riferimenti alla capacità dei veicoli di contenere le emissioni: interpreto il fatto (opinione personale) come il tentativo di smitizzare i SUV come stereotipo del veicolo inefficiente ed inquinante: la competizione si giocherà anche sulla capacità di creare veicoli di questa categoria in grado di limitare i consumi.

QUELLO CHE SAPPIAMO DI FABBRICA ITALIA

Il progetto Fabbrica Italia, con il quale Fiat intende riorganizzare la produzione per superare la crisi e aumentare la produzione nel nostro paese, divide politici, lavoratori e sindacati. Al di là della legittimità o meno delle condizioni imposte per operare gli investimenti, qual è il progetto che sottostà alle decisioni riguardanti l’uno o l’altro stabilimento? La casa torinese intende rivoluzionare la struttura produttiva in Italia, agendo impianto per impianto.

I LIBRI E LE IDEE

Nell’ultimo mese in molti su questo sito ci hanno offerto dei bei ricordi personali relativi all’azione di Tommaso Padoa-Schioppa nelle varie istituzioni in cui ha operato. Io vorrei, invece, dare una prospettiva diversa, ricordando dei contenuti dei suoi scritti che mi hanno colpito. Si tratta in particolare di tre interconnesse proposizioni su integrazione economica e politica che compaiono ripetutamente, come a formare una specie di leitmotiv, nei vari libri ed articoli pubblicati da Padoa-Schioppa (molti dei quali sono disponibili sul suo sito personale www.tommasopadoaschioppa.eu).

  • Il mercato ha bisogno di istituzioni non di mercato per il suo buon funzionamento. Come già intuito da Adam Smith, il mercato non è soltanto un insieme di comportamenti individuali (che ne sono, in effetti, il risultato), ma una realtà giuridico-istituzionale, sociale e culturale. In particolare, il mercato richiede una struttura istituzionale di tipo statuale, cioè la capacità legislativa, esecutiva e giudiziaria che permetta il concretarsi delle sue libertà fondamentali. Tra il mercato e la rule of law esiste quindi una necessaria corrispondenza.
  • Integrazione economica ed integrazione politica sono processi complementari. Quando più paesi decidono di perseguire l’obiettivo di un mercato comune (cioè di stabilire tra essi la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone), si rendono allora necessari quegli stessi istituti senza i quali l’economia non funzionerebbe neppure all’interno di un paese. In altri termini, lo sviluppo del mercato comune deve procedere in parallelo con l’instaurazione degli elementi statuali che erano in precedenza solo interni agli Stati nazionali. Ciò pone il problema della corretta struttura istituzionale di uno Stato composto da più nazioni.
  • L’integrazione politica deve essere articolata secondo i principi del federalismo. Una struttura politica basata su Stati nazionali a sovranità illimitata non può garantire il governo di un mercato comune perché è incapace di decidere e far eseguire la legislazione comune ad esso necessaria. In un sistema federale, gli Stati nazionali delegano attraverso un patto (foedus) ad un livello di governo sovranazionale (globale o regionale) le questioni di comune interesse a cui individualmente non sono in grado di provvedere. I membri della federazione rimangono competenti per tutte le aree di governo non esplicitamente incluse nel patto.

Nel ricordare queste idee vorrei solo aggiungere una breve riflessione sul perché penso che valga la pena continuare a tenerle a mente. Per quanto in astratto possano essere condivise da molti, queste tre proposizioni rientrano solo in parte nel bagaglio culturale dell’economista. Ciò si riflette sia nella pratica del funzionamento delle istituzioni internazionali che nel laboratorio dell’analisi economica. Fondo Monetario, Banca Mondiale, WTO, G-20 sono istituzioni costruite sul presupposto che i soggetti della cooperazione siano gli Stati nazionali. In questi contesti, difficilmente si accetta il principio della sovranazionalità, anche quando esso sarebbe indispensabile per dare concreta applicazione a regole comuni. Nel laboratorio dell’economia internazionale, l’unità di analisi è lo Stato nazionale, non altra. Salvo rare eccezioni (in particolare, la teoria delle aree monetrie ottimali e i principi del federalismo fiscale), l’idea che la politica economica sia prerogativa dei governi nazionali – che possono scegliere di coordinarsi o meno- è un assunto comune raramente messo in discussione.
In una lezione tenuta all’Istituto Universtario Europeo nel 2005, ricordo che Padoa-Schioppa affrontò questo punto con una efficace provocazione. Parafrasando una frase di Keynes (un po’ spocchiosa e, forse per questo, spesso amata da chi studia economia), disse che non c’è ragione per cui gli economisti debbano essere schiavi di una visione politica defunta: il dogma (Westfaliano) della sovranità illimitata degli Stati nazionali. L’economista accademico deve riflettere sui mutamenti che è necessario apportare all’assetto istituzionale esistente, ed il politico economico deve operare affinché questi mutamenti si compiano. Una bella sfida –mi pare- per chi sceglie di operare nel campo dell’economia internazionale.
Il 2010 che si è appena chiuso non è stato un anno facile per l’integrazione europea e per il progresso della governance mondiale in senso sovranazionale. La crisi economica, in parte essa stessa frutto dell’incoerenza tra la crescente interdipendenza economica e un ordine politico frammentato, ha avuto come reazione immediata il riemergere di atteggiamenti egoistici. Tuttavia, come altri hanno ricordato, Tommaso Padoa-Schioppa vedeva nella presente situazione l’opportunità per introdurre quegli elementi di riforma necessari a far muovere in avanti la storia. Forse perché sentiva –come scrisse molti anni fa Altiero Spinelli – che la forza di una idea, prima ancora che dal suo successo finale, è dimostrato dalla capacità di risorgere dalle proprie sconfitte.

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