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Categoria: Energia e ambiente Pagina 45 di 60

L’emergenza continua dei rifiuti campani *

A meno di due anni dall’approvazione del piano Bertolaso che avrebbe dovuto risolvere definitivamente l’emergenza rifiuti in Campania è scoppiata una nuova crisi. Perché? Non sono state individuate soluzioni condivise sulla localizzazione degli impianti. La realizzazione dei tre inceneritori e delle dieci discariche previste è in forte ritardo. I politici locali hanno interesse a cavalcare il malcontento dei loro elettori. Ora anche il presidente del Consiglio ha sconfessato il piano originario. Prevedibile che l’emergenza rifiuti si ripresenti entro breve tempo.

 

La risposta ad Anna Gerometta

L’’appassionato commento di Anna Gerometta (del Comitato mamme antismog) merita una risposta e qualche chiarimento. Procediamo per punti.

1)     Le misure di particolato e di PM10 possono essere in larga misura sovrapposte come è stato fatto nel grafico a cura di ARPA utilizzato nel nostro articolo criticato da Gerometta. Il PM10 rappresenta infatti la quota largamente maggioritaria del particolato, intorno all’’85%. L’’evoluzione nel medio periodo della concentrazione di questo inquinante risulta quindi essere assai positiva. C’’è poi un problema che vale la pena chiarire usando l’’aritmetica. Se – come dice Gerometta –  il PM2,5 è a sua volta l’’80% del PM10 e il PM1 è il 90% del PM2,5, ne segue che il PM1 è il 72% del PM10. Se prendiamo per buoni i dati dell’’Arpa Lombardia circa il particolato totale a Milano, il PM10 trent’’anni fa era circa 150μg/m3, mentre nel 2005 era circa un terzo (ma, come vedremo, oggi è anche meno).  Ne segue che il PM1 era pari a circa 107 μg/m3 trent’’anni fa, mentre oggi arriva a 36 μg/m3. Quindi, utilizzando le proporzioni menzionate da Gerometta, anche il PM1 è significativamente diminuito, a meno che trenta anni fa queste polveri sottilissime non fossero inferiori al 24% del PM10. Ma che oggi siano il 72% del PM10 e allora fossero meno del 24% appare del tutto implausibile.

2)     Anche negli anni più recenti, contrariamente a quanto sostiene Gerometta, si registra una tendenza alla riduzione delle concentrazioni del PM10, come evidenziato nel seguente grafico (Fonte: Agenzia Mobilità Ambiente Territorio, Monitoraggio Ecopass Gennaio – Settembre 2009)

3)     Non è chiara l’’affermazione di Gerometta secondo cui la qualità dell’’aria è migliorata nel Nord Europa perché “si è investito nella riduzione delle emissioni da traffico”. E certamente non corrisponde alla realtà dei fatti se si intende dire che la qualità dell’’aria è migliorata perché si è “investito” nel trasporto pubblico. Come evidenziato in un precedente intervento, l’’evoluzione della domanda di mobilità e della ripartizione modale fra trasporto individuale e collettivo è sostanzialmente omogenea in tutta Europa. Non fanno eccezione i Paesi del Nord. Ad esempio, Svezia e Norvegia – paesi con livelli di concentrazione di PM10 tra i più bassi in Europa –  presentano una ripartizione della domanda di mobilità del tutto simile a quella italiana: più precisamente, in Svezia la domanda soddisfatta dall’’auto nel 2007 è risultata pari all’’82,6%, in Norvegia all’’87,7% (in Italia l’’81,8%). Si noti che non è una questione di diversa densità della popolazione. L’’Olanda (che ha una densità ancora più alta dell’’Italia del nord) ha una ripartizione modale analoga a quella dell’’Italia. Quanto alla ripartizione modale nelle aree urbane, la comparazione è difficile per la disomogeneità dei dati. Un’’indicazione è quella che segue: a Milano gli spostamenti “motorizzati” interni alla città avvengono per il 50,2% con mezzi pubblici (compresa la metro), percentuale che scende al 32,3% per gli spostamenti in ingresso o uscita. A Stoccolma, gli spostamenti motorizzati interni alla città avvengono per il 64% con i mezzi pubblici. Anche in questo caso la percentuale scende (al 38,7%) per gli spostamenti all’’interno dell’’intera “contea” (compresi, quindi, quelli in entrata e uscita da Stoccolma). Guarda caso, nelle maggiori città norvegesi e in alcune svedesi, a partire dagli anni ’90, è stata attuata proprio una politica basata sull’’introduzione di sistemi di pedaggio e di potenziamento della rete stradale, analoga a quella delineata nel nostro intervento, mentre i sussidi al trasporto pubblico non sono certo aumentati.
4)     Le condizioni relativamente peggiori dell’’inquinamento atmosferico nel nord Italia non sono riconducibili ad emissioni più elevate ma a condizioni atmosferiche più sfavorevoli alla dispersione degli inquinanti. In particolare, per quanto concerne il PM10 ed il PM2,5, secondo i dati forniti da ARPA Lombardia, le emissioni pro-capite nella Regione sono nettamente inferiori alla media europea. Il dato sulle emissioni non va peraltro confuso col dato che in aree più dense più persone respirano l’’aria cattiva quando i livelli di concentrazione delle polveri sale oltre le soglie di allarme. Questo ha a che fare con il fatto che le concentrazioni sono un “male pubblico”, mentre il dato sulle emissioni pro-capite ha a che fare col contributo individuale medio alla produzione del suddetto male pubblico.

5)     Quanto alla qualità delle misurazioni (messa in discussione da Gerometta), non essendo esperti del campo, rimandiamo al comunicato emesso in merito alcuni mesi fa da ARPA Lombardia.
6)     Anche in materia di impatti sulla salute non siamo esperti. Ci pare utile, di nuovo, sottolineare che le conclusioni dello studio presentato all’’Accademia Francese quanto ai rischi per la salute non sono molto dissimili da quelli contenuti in un precedente intervento pubblicato su lavoce.info (e che appariva molto preoccupato) e da quelli ottenuti dalla letteratura citata da Gerometta: il livello di rischio relativo attuale di contrarre un tumore al polmone è circa di 20:1 tra fumatori e non fumatori. I rischi correlati ai vari impatti sulla salute dell’inquinamento sono di 1,02-1,05:1. A ciò va aggiunto che il rischio relativo è diminuito (conseguenza necessaria, data la riduzione dell’inquinamento che abbiamo documentato) e che nelle città dove c’’è più inquinamento si vive come se non più a lungo di dove ce n’’è meno. Per esempio, nell’’Italia del nord la speranza di vita è superiore a quella norvegese (identica per gli uomini e superiore di un anno per le donne) e se si raffrontano livelli di inquinamento e speranza di vita nelle diverse province italiane non c’è alcuna correlazione diretta. Il che non ci dice che l’’inquinamento fa bene, ovviamente, ma solo che incide relativamente poco sulla speranza di vita.
7)     In ogni caso, il nostro intervento non era finalizzato a dire che il livello di inquinamento nelle città italiane è “giusto” oppure è “alto” o è “basso”. Volevamo solo mostrare come (a) l’’inquinamento urbano non sia aumentato (al contrario di quanto spesso si sente dire) e (b) non sia efficace combatterlo spendendo di più per il trasporto pubblico a parità di congestione. E quest’’ultimo punto è tanto più vero se – come dice Gerometta – il traffico è responsabile del 60% delle emissioni dei principali inquinanti atmosferici “locali”. Una politica di decongestionamento – lo ribadiamo – è più efficace nell’’abbattere gli inquinanti rispetto a un generico aumento della spesa il per trasporto pubblico. È una questione di logica, non di opinione.
8)     Infine, alla domanda su come sia possibile potenziare il trasporto pubblico di superficie, a parità di spesa, con una efficace politica di decongestionamento crediamo di aver già risposto nella replica al dott. Harari, cui rinviamo. Ci dispiace che Anna Gerometta l’’abbia ignorata.

Ma l’inquinamento a Milano non è in calo*

L’’articolo di Boitani e Ramella dà ragione ai commentatori che lamentano l’’uso disinvolto che si fa dei dati riguardanti l’’inquinamento atmosferico. Un ripasso della situazione dell’”’evoluzione negli anni “a Milano sul sito di Arpa (1)  fornisce un’’immagine d’’insieme che è meno rosea di quella in esso prospettata.
A Milano gli unici valori che hanno subito diminuzioni stabili, effettive e consistenti dagli anni ‘90 sono quelli del biossido di zolfo e benzene, grazie alla conversione degli impianti di riscaldamento a metano e alla riduzione del tasso di benzene nei carburanti. Viceversa, i citati valori del particolato del 1990 non possono essere evidentemente paragonati a quelli odierni: sino al 1998 veniva misurato il cosiddetto Particolato Totale Sospeso, ovvero l’’insieme del particolato sospeso ricomprendente la frazione del particolato più grossolana ed avente effetti meno nocivi.  Dal 1998 viene utilizzato come riferimento per il particolato unicamente il PM¹⁰ ovvero una frazione di particolato di dimensioni molto inferiori a quella del PTS. Le due misure non possono dunque essere sovrapposte.

Sta di fatto che un grafico -– sempre di ARPA Lombardia – più aggiornato di quello da voi prodotto (fermo invece al 2005) evidenzia bene come, a Milano, dagli anni 90 ad oggi non sia affatto in corso una diminuzione dei livelli del particolato. Anzi, dal 2005 pare esservi stata un’’ulteriore crescita dei livelli dello stesso.
L’’evoluzione che invece l’’articolo omette di riportare riguarda ciò che oggi è noto del particolato che respiriamo nelle aree urbane,  ovvero che esso ha dimensioni minime, ha in parte rilevante origine secondaria (ovvero deriva da reazioni chimiche degli inquinanti in atmosfera) e, diversamente da quello di origine industriale di molti anni fa, è inalabile, come un vero e proprio areosol entrando appunto in circolo nel sangue.
Nel suo studio “Collaborative Research Project for Air Pollution Reduction in Lombardy Region” 2006-2010 (lo si veda per intero sul sito www.genitoriantismog.it) il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea ha effettuato un’’estensiva opera di campionamento del particolato lombardo, sulla base dell’’analisi di più di 1000 campioni prelevati ed analizzati in Lombardia,  giungendo alla conclusione che, in area urbana, mediamente l’’80% del PM¹⁰ è costituito da PM²̇⁵, e circa il 90% del PM²̇̇⁵ è costituto da PM¹ (si veda in proposito il 7° rapporto, parte I).
Il PM¹ ,anche detto ”ultrafine,” è la frazione del particolato studiata che possiede il più elevato potenziale infiammatorio: penetra nelle cellule e negli alveoli e, superate le barriere endoteliali ed epiteliali, entra  in circolo nel sangue. Invito gli autori a leggere il recente “Inquinamento atmosferico e salute umana” su Epidemiologia e Prevenzione del novembre 2009 per una carrellata degli ormai numerosissimi studi scientifici che hanno accertato la riconducibilità di conseguenze davvero gravi, sia in termini di mortalità che di morbilità, a breve e a lungo termine, all,’esposizione agli inquinanti presenti nell’’aria.
Non è dunque vero che vi sarebbe un trend di miglioramento nelle città italiane; certamente non a Milano. Migliorano davvero le città del nord Europa dove si è investito nella riduzione delle emissioni da traffico che, come accertato in un recente Rapporto Tecnico dell’’agenzia Europea dell’’Ambiente, rappresenta la più importante fonte di inquinamento dell’’aria in Europa (“Annual European Community LRTAP Inventory EEA Technical Report 7/2008”). Lo dimostra l’’ultima mappa dell’’Europa realizzata dall’’Agenzia Europea per l’’Ambiente (Technical paper 1/2009 “Assessment of health impacts of  exposure  to PM 2.5 in Europe” ) che indica “a colori” lo stato della nostra aria e dei morti che ne discendono e che, rispetto a quella precedente realizzata sulla base dei dati nel 2000, ha decisamente “schiarito” la zona dell’’Europa del nord ma non la nostra.

Mortalità prematura (per 10 000, all’’anno) riconducibile all’’esposizione al PM2.5 (anno 2005).

Mortalità prematura (per 10 000, all’’anno) riconducibile all’’esposizione al PM2.5 (anno 2000) tratto dalla Valutazione di impatto (settembre 2005 – SEC2005 1133) redatta dalla Commissione Europea in funzione a fini della formulazione e adozione della nuova Direttiva sull’’Aria.
In conclusione, incrociando il dato – raccolto dagli scienziati della Commissione Europea – inerente la natura “ultrafine” del nostro particolato urbano, la sua prevalente origine da traffico, con la stabilità dei livelli soprattutto nelle nostre aree urbane, ci si avvede che la diagnosi degli autori sul miglioramento della situazione nelle nostre aree urbane è decisamente errata.
Aggiungo che la notizia riportata circa il presunto miglioramento dell’’aria di Milano solleva il problema della qualità delle misurazioni. L’’art. 3 della Direttiva 2008/50 relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa, come già faceva la precedente direttiva 96/62/CE, prescrive ai paesi membri dell’’Unione di designare organi competenti e responsabili del controllo della qualità delle misurazioni dell’’aria. Ad oggi in Italia tale sistema di controllo della qualità dei dati è carente se non addirittura assente. Ciò è stato dimostrato dai risultati delle misurazioni effettuate in Lombardia, dal 2006 in poi, dal Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea in parallelo ed in collaborazione con ARPA Lombardia: i dati raccolti dall’’organismo di ricerca europeo hanno in più occasioni evidenziato gravi sottostime delle misurazioni effettuata dall’’agenzia regionale per l’’ambiente.
Fino a quando non sarà stato messo in atto il sistema di  garanzia di “accuratezza” delle misurazioni prescritto dalla normativa europea, ogni trionfalismo su pretese vittorie o miglioramenti della nostra aria suonerà necessariamente più un giudizio con basi traballanti che altro.
Ciò detto, l’’accanimento circa un peggioramento o miglioramento dell’’aria pare davvero sterile. Come poco trasparente pare la tesi dell’’irrilevanza dei danni derivanti dall’’inquinamento allorché gli autori sono costretti, per corroborarla, a ricorrere ad uno studio datato e poco noto del “Presidente onorario dell’’Istituto Francese del Petrolio” (2).
Perché i nostri autori non hanno letto i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dell’’Agenzia Europea dell’’Ambiente, o degli scienziati internazionalmente accreditati che da anni hanno accertato una diretta riconducibilità all’’inquinamento atmosferico  di asma, allergie, BPCO, edemi polmonari, infarti, ictus, ridotta funzionalità polmonare, morti anticipate a breve e a lungo termine laddove non addirittura, nei più recenti studi, una riduzione della capacità cognitiva dei bambini cresciuti in aree con alti livelli di inquinamento atmosferico  (Suglia, Gryparis et al. “Association of Black Carbon with Cognition among children in a Prospective Birth Cohort Study”, American Journal of Epidemiology, 15 nov. 2007)?
Che si lamenti la congestione delle aree urbane proponendo sistemi di tariffazione è più giusto anche alla luce della rilevanza dell’”’effetto congestione” sulle emissioni (3). Ma che si semplifichi l’’analisi ricavata da dati inerenti Torino e la sua metropolitana per sostenere  che il potenziamento del trasporto pubblico non sarebbe, per le aree urbane, una, e forse la principale, delle soluzioni per la riduzione dell’’inquinamento atmosferico, rappresenta non un punto di vista diverso, ma, non ce ne vogliano gli autori, davvero cattiva informazione.
Se il traffico è responsabile mediamente, per esempio a Milano, di una porzione pari ad almeno il 60 per cento (4) di ciascuno dei principali inquinanti atmosferici (Nox-Co-PM10 e O3 ) pare davvero improbabile che l’’effetto della mera decongestione conseguente all’’istituzione di tariffe di ingresso, e quello presunto dato dalla creazione di tunnel sotterranei e parcheggi, possano avere qualche effetto senza una politica seria di potenziamento dei trasporti pubblici. E, da ultimo, ci dicano gli autori, per cortesia, come andranno a lavorare quelli bloccati dall’’effetto decongestionante del pur sacrosanto road pricing?

* Anna Gerometta è Avvocato e membro del comitato direttivo dell’associazione Genitori Antismog

(1)   http://ita.arpalombardia.it/ITA/qaria/doc_EvoluzioneAnni.asp
(2)   http://www.academie-sciences.fr/publications/rapports/rapports_html/rapport12_AsC_gb.htm
(3)   (il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea ha misurato le emissioni di NOX – precursore di ozono e pm secondario – di un furgone su un circuito a Milano ed ha evidenziato emissioni di NOX più che doppie rispetto a quelle previste dal limite prescritto dal circuito di omologazione NEDC, V Rapporto p. 210 e ss.)
(4) Dati Inemar inventario Regionale Emissioni Arpa http://ita.arpalombardia.it/ITA/inemar/inemarhome.htm)

Ma l’aria è avvelenata

Cosa succede nelle nostre città, stiamo soffocando per lo smog o siamo vittima di eccessivi allarmismi? E’ la domanda alla quale cercano di rispondere Andrea Boitani e Francesco Ramella con il loro documentato intervento su lavoce.info, nel quale sviluppano anche la proposta di introdurre sistemi di pagamento per la circolazione nelle aree urbane. In effetti è indiscutibile che il trend di alcuni inquinanti in Europa sia in diminuzione, anche se, come gli stessi autori precisano, questo non vale per tutti: le concentrazioni di ozono, sono, ad esempio, in costante crescita nel nostro Paese, dove raggiungono i livelli più alti di tutto il Continente. Complessivamente comunque l’’aria delle nostre città è migliorata perché si usa meno carbone, è stato tolto il piombo dalle benzine e anche il benzene è stato ridotto. L’’inquinamento urbano di oggi è inferiore a quello di trent’’anni fa ma ha anche cambiato composizione e l’’effetto nocivo dei nuovi inquinanti non è meno temibile (Composti Organici Volatili, Composti Organici Volatili Biologici, metalli, nano particelle, etc.).

TABAGISMO…

Il problema, a mio parere, va però visto anche sotto un’’angolazione diversa e per spiegarmi utilizzerò l’’esempio del fumo di sigaretta. In Italia negli ultimi anni, grazie alle campagne d’’informazione sanitaria e alla legge Sirchia, il consumo di sigarette è andato diminuendo sensibilmente, ma possiamo accontentarci? Soprattutto possiamo confrontare i dati attuali con quelli di cinquanta anni fa quando gran parte delle tossicità del tabagismo erano ancora sconosciute? I nostri genitori, quando fumavano, non sapevano tutto quello che oggi noi conosciamo sul potere nocivo del tabagismo. Lo stesso discorso vale per l’’inquinamento: gran parte degli studi effettuati sui danni causati al nostro organismo da PM 10, PM 2,5, NO2, SO2 e dagli altri inquinanti sono stati svolti negli ultimi 10 anni e hanno portato ad alcune scoperte fondamentali. E’ nota per esempio l’’azione pro-trombotica dei particolati, con l’’aumento di rischio di malattie cardiovascolari, come l’’infarto, l’ictus, le trombosi; ci sono poi rischi gestazionali, rischi per la popolazione pediatrica e per i più anziani, problematiche respiratorie.
…E INQUINAMENTO

L’’esempio del tabagismo che ho utilizzato è però un’’analogia imperfetta: chiunque di noi, informato delle possibili conseguenze, può scegliere se fumare o meno, cosa che ovviamente non può avvenire con l’’aria che respiriamo.
L’’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che 800.000 persone all’’anno in tutto il mondo muoiano prematuramente a causa dell’’inquinamento (tredicesima causa di mortalità) e che lo smog sia oggi responsabile del 3 per cento di tutti i decessi per malattie cardio-vascolari e del 5 per cento di tutti i tumori polmonari. Oltre 350.000 morti premature dovute al PM 10 si registrano ogni anno nella sola UE. Secondo lo studio APHEIS, pubblicato nel 2006 sull’’European Journal of Epidemiology, che ha interessato 23 importanti città europee (per l’Italia, Roma), su una popolazione totale di oltre 32 milioni di persone, la riduzione delle concentrazioni di PM 2,5 a livelli massimi di 15µg/m3 comporterebbe un risparmio ogni anno di 16.926 morti premature (delle quali 11.612 per cause cardio-polmonari e 1901 per tumori polmonari). Questi dati non possono essere sottovalutati, la consapevolezza dell’’importanza dell’’ambiente e della sua tutela, della pericolosità dello smog è fondamentale. Una vastissima letteratura scientifica ha ormai chiaramente documentato che non esiste un vero valore soglia di tossicità: qualsiasi livello degli inquinanti causa danni, il loro effetto è presente anche a bassi livelli e aumenta in modo direttamente proporzionale all’’aumentare delle concentrazioni degli inquinanti. Le norme inoltre sono spesso il frutto di mediazioni: non deve quindi stupire che i valori soglia adottati dalla UE per alcuni inquinanti, come i particolati, siano sensibilmente superiori a quelli suggeriti dall’’Organizzazione Mondiale della Sanità.
L’’inquinamento è un’’emergenza nazionale, lo confermano gli ultimi dati dell’’Agenzia Europea per l’’Ambiente con 17 città italiane nella classifica delle trenta città Europee più inquinate, e tre fra le prime quattro (Torino, Brescia e Milano), dopo la bulgara Plovdiv. I rimedi possono essere tanti, la “congestion charge”, almeno per una città come Milano, è certamente una proposta da discutere e valutare attentamente. E’ chiaro però che, oltre a misure locali e a politiche adeguate, sono indispensabili strategie ambientali che intervengano su macro-regioni per modificare l’’inaccettabile inquinamento delle città del nostro Paese.

La risposta ai commenti

Scrive il dott. Harari nella sua replica al nostro articolo che il livello dell’’inquinamento delle città del nostro Paese è inaccettabile e che per ridurlo sono indispensabili “strategie ambientali” su macro-regioni. Non si precisa quali dovrebbero essere tali strategie.
La nostra modesta cultura sanitaria non ci permette di esprimere una valutazione informata dell’’impatto sulla salute dell’’inquinamento atmosferico.  Ci pare però utile presentare ai lettori qualche altro parere, perché possano formarsi un’’opinione e, se ne hanno voglia, decidere di approfondire la questione. Ecco dunque quanto scriveva qualche anno fa l’’Accademia Francese delle Scienze (1): “Vi sono numerose incertezze in merito alla rilevanza degli effetti a corto e a lungo termine. Tali incertezze sono legate alla piccolezza del rischio (corsivo nostro). È relativamente facile misurare un rischio relativo superiore a 5, come accadeva trent’anni fa. Negli anni Ottanta dello scorso secolo ci si è occupati di rischi dell’’ordine di grandezza da 1,5 a 2 e già questo risultava molto più difficile poiché i fattori di confusione introducono rilevanti elementi di imprecisione. Ma, oggi, i rischi relativi sono compresi fra 1,02 e 1,05; ci si viene quindi a trovare in una situazione assai complessa in quanto i risultati sono largamente influenzati dal tipo di metodologia utilizzata: la correzione dei fattori di confusione, i modelli matematici che sono indispensabili per l’’analisi determinano infatti livelli di incertezza assai rilevanti… Se si paragonano le diverse Regioni della Francia si può riscontrare una forte correlazione fra la mortalità prematura e il consumo di alcol e di tabacco mentre non è possibile rilevare alcun impatto delle diverse forme di inquinamento sulla speranza di vita o sulla frequenza dei casi di cancro sia a scala nazionale che regionale. In particolare, in Francia, non si registra alcuna correlazione fra l’’evoluzione della speranza di vita e l’’inquinamento atmosferico; la speranza di vita più elevata dell’’intero Paese è quella che si registra nell’’Île de France ossia nella regione più densamente popolata e che fa registrare i livelli di traffico più elevati. Si può inoltre rilevare come le due regioni nelle quali la speranza di vita si è maggiormente accresciuta nel corso degli ultimi decenni sono la regione di Parigi e la Provenza Costa Azzurra. Tali elementi non consentono di escludere che esista un qualche impatto dell’’inquinamento sulla salute ma suggeriscono che non si tratta di fattori che hanno un peso maggioritario”. Analoghe considerazioni, aggiungiamo noi, possono essere presumibilmente svolte con riferimento all’’Italia.
Un impatto, dunque, da non sottovalutare ma neppure da sovrastimare. Come ha fatto notare nel suo commento il dott. Galavotti (AUSL Modena) il rischio della sovrastima è che: “una spasmodica attenzione verso l’inquinamento collettivo riduca l’attenzione dei cittadini sul più grave e rimediabile dei fattori di rischio sanitario: il comportamento individuale”. Al riguardo si segnalano anche le parole di Umberto Veronesi (2): “un atteggiamento, inaccettabile, è quello di cambiare la realtà dei fatti. Un luogo comune, molto diffuso, è quello di affermare che l’inquinamento atmosferico, specie in città, è tale che una sigaretta in più o in meno non fa alcuna differenza. È un’affermazione sbagliata e priva di senso: l’inquinamento cittadino provoca bronchiti, allergie, ma la possibilità che provochi tumore al polmone è minima rispetto a quella del fumo di sigaretta. Pochi lo sanno, ma nell’arco alpino, ad esempio in Friuli, dove si fuma molto, l’incidenza del cancro al polmone è superiore a quella che si registra in città come Milano o Genova. Impegnarsi per un ambiente più pulito è giusto, ma questo non deve distoglierci dalla lotta contro i tumori”. Infatti, secondo il parere del dott. Aldo De Togni (AUSL Ferrara): “una persona che respira per un anno lo smog di una città molto inquinata come Los Angeles inala la stessa quantità di inquinanti combusti che un fumatore introduce col fumo di 40 sigarette”. L’’inquinamento atmosferico, nel peggiore dei casi, sarebbe dunque paragonabile al fumo di una sigaretta ogni nove giorni.
Impatto sulla salute a parte, vale la pena di precisare che il nostro intervento mirava a smentire con i numeri la tesi secondo cui l’’inquinamento nelle città italiane starebbe continuamente peggiorando. Non abbiamo detto – né avremmo avuto gli strumenti per farlo – che il livello attuale del particolato o di altri inquinanti nelle città italiane è alto, basso o accettabile e neppure abbiamo nascosto che le città italiane si trovano in coda alla lista nella graduatoria delle città europee per rispetto dei limiti comunitari in materia di emissioni di particolato. Volevamo e vogliamo richiamare la differenza tra livelli e dinamica, nonché tra livelli assoluti e relativi. Ignorando queste differenze, a nostro avviso, si fa solo confusione. E dalla confusione non nascono buone politiche. In ogni caso, eventuali ulteriori politiche di riduzione dell’’inquinamento atmosferico dovrebbero essere valutate alla luce di un’’attenta analisi dei costi e dei benefici.
Come evidenziato nell’’articolo, le politiche di riequilibrio modale indotto dal potenziamento dell’’offerta di trasporti collettivi (a spese dei comuni) non sembrano superare questo test: avrebbero elevati costi per i contribuenti e benefici molto modesti, se paragonati a quelli conseguiti grazie alla innovazione tecnologica. L’’offerta non crea la sua domanda! L’’introduzione di un pedaggio, abbinata al potenziamento della rete stradale (specie sotterranea) – il cui obiettivo prioritario sarebbe la riduzione dei costi di congestione che risultano essere assai più elevati di quelli correlati all’’inquinamento –avrebbe come beneficio ancillare la riduzione delle emissioni nelle città, perché contribuirebbe alla riduzione della circolazione di autoveicoli. Il potenziamento del trasporto collettivo, in questo caso, verrebbe trainato dalla maggior domanda (di coloro che usano meno l’’auto privata) e dalla maggior velocità di circolazione nelle aree sottoposte a pedaggio. I costi sarebbero molto più bassi. Infatti, per potenziare il servizio a congestione invariata (come nello scenario “riequilibrio modale”) sarebbero necessari più autisti, più mezzi, più spese di manutenzione e più carburante; nello scenario “pedaggio”, viceversa, sarebbe in buona misura possibile potenziare il servizio spendendo in più solo per il carburante e per le manutenzioni, a parità di ore lavorate, di autisti impiegati e di parco autobus. Considerando quanto incide il costo del lavoro sui costi totali di gestione e quanto pesano i mezzi sulla spesa per investimenti…

(1) Académie des Sciences – Cadas, (1999), Pollution atmosphérique due aux transports et santé publique, Rapport commun n. 12, Paris, p. 177
(2) L’’Unità, 13 aprile 2002

Inquinamento: se la diagnosi è sbagliata la terapia non funziona

Non è vero che la qualità dell’aria in Italia è peggiorata. Sono i vincoli dell’Unione Europea a essere divenuti più rigidi e molte città italiane faticano a rispettarli. Si è invece aggravato il problema della congestione stradale nelle grandi aree metropolitane. Ma per risolvere questo problema la strategia più adeguata non è il potenziamento dei trasporti collettivi. Sarebbe preferibile introdurre sistemi di pagamento per la circolazione nelle aree urbane.

Sfogliando la margherita dell’Ecopass

Tra chi vorrebbe rafforzarlo e chi vorrebbe abolirlo, sull’Ecopass milanese si sta per giocare una partita decisiva. Vi sono sul tavolo alcune opzioni per cercare di risolvere i problemi del traffico urbano. L’obiettivo di ridurre l’inquinamento non è però l’unico che un Ecopass riveduto e corretto potrebbe contribuire a raggiungere. Cruciale è anche limitare il congestionamento. E per entrambi gli obiettivi altre ipotesi di soluzione non sembrano altrettanto efficaci.

La risposta ai commenti

L’ intento del mio articolo non era certo quello di promuovere indirettamente l’energia nucleare, come alcuni hanno pensato, né potevo ovviamente allargare il tema a tutte le altre opzioni possibili. Ho voluto solo sottolineare che le energie rinnovabili, e quella fotovoltaica in particolare, hanno costi sociali molto elevati che i loro appassionati sostenitori tendono a dimenticare e si guardano bene dal quantificare. E’ un problema che si pone in tutta l’Europa. Ad esempio, il governo inglese (Dipartimento dell’Energia) ha recentemente stimato che i sussidi alle energie rinnovabili faranno aumentare, nel 2020, il costo dell’energia del 33% per i consumatori domestici. Si tratta in effetti di un’imposta “nascosta” ed iniqua in quanto grava grossomodo egualmente su ricchi e poveri. Se l’obiettivo è quello di ridurre le emissioni di CO2 vi sono modi assai più efficienti e meno costosi: si veda ad esempio il recente studio “Greener, cheaper” sul sito www.policyexchange.org.uk.
Quasi tutti i commenti critici,inoltre, mi accusano di non aver evidenziato anche i costi sociali del nucleare o del termico, ma un tema tanto ampio e difficile non poteva certo essere trattato esaurientemente in una paginetta. Devo però chiarire che il costo del termico o del nucleare francese cui ho fatto cenno nell’articolo non è certo una stima del loro costo sociale ma solo un’indicazione del costo per gli utilizzatori, rilevante per la competitività. E’ ben noto che il costo dell’energia elettrica per le imprese italiane è assai più elevato di quello di altri paesi dell’area euro. Se indirizziamo i nuovi investimenti verso fonti energetiche ad altissimo costo questo handicap competitivo non potrà che peggiorare…”

Tira ancora una brutta aria

Un recente studio sugli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute in Italia conferma che un incremento delle polveri sospese provoca un aumento della mortalità e dei ricoveri per malattie respiratorie. Nuove evidenze emergono per quanto riguarda i danni alla salute dei bambini e le malattie cardiache negli adulti. I dati indicano anche che solo tre città su dieci rispettano i valori delle concentrazioni giornaliere di Pm10 e biossido di azoto. Le enormi responsabilità del traffico.

La risposta ai commenti

Ringraziamo per i numerosi commenti ricevuti, ai quali tentiamo di rispondere.
Innanzitutto è certamente vero che il nostro argomento prende solo spunto dalle richieste di Gheddafi, ma si applica più in generale alle politiche di aiuti ai paesi africani e non, di per sé, alle operazioni di vigilanza. E tuttavia, come ha rilevato Matthew Newman, portavoce del commissario Ue alla Giustizia, gli aiuti comunitari in questo contesto non sono meri trasferimenti per operazioni di vigilanza, ma accordi bilaterali quadro più ampi.
In secondo luogo, come rileva un commentatore, il fatto che gli aiuti siano anche rivolti ad azioni di polizia, potrebbe aggravare il quadro, specie se distoglie gli aiuti da altri sbocchi: i respingimenti sul fronte libico aprono altri fronti (la Grecia, ad esempio) e i contenimenti potrebbero produrre effetti non duraturi.
Infine, con riferimento al commento generale del Prof. Orsi, non possiamo –  anche qui – che concordare: quando si parla di numeri bisogna esser sempre rigorosi (anche se ciò non deve portarci alle estreme conseguenze di allegare i modelli agli editoriali o introdurre i referaggi). Siamo in particolare d’’accordo sul fatto che bisogna resistere alla tentazione del ‘contro-intuitivo’ a tutti costi e che dietro una ipotesi posta a verifica empirica debba poter esserci una qualche ipotesi teorica (anche qui però senza esagerare, nel senso che molta parte delle teorie comportamentali recenti sono nate e progredite anche dai puzzle contro-intuitivi suggeriti dall’’analisi dei dati). Proprio per questo, ci sentiamo di poter respingere la sua critica nel nostro caso, sul quale non vi è soltanto una ipotesi, ma addirittura una ricca letteratura teorica che, purtroppo, fino ad oggi ha ricevuto scarsa verifica empirica. Il nostro punto di partenza è stato proprio quello di tentare di fornire -– con tutti i caveat del caso –- una verifica empirica a tale letteratura, seguendo un approccio metodologico proprio nel senso suggerito da Orsi. L’’esistenza della dinamica cui facciamo riferimento è oggi sostenuta dalla maggioranza degli esperti di migrazione internazionale. Non è rimasto quasi nessuno, oramai, ad affermare che i flussi migratori siano il puro risultato di “push factors” (in primis la povertà assoluta), mentre la quasi totalità della letteratura sul tema oggi riconosce che la migrazione internazionale segua principalmente i canali aperti dalle relazioni economiche (sia commerciali sia di cooperazione allo sviluppo). Il nostro lavoro intende dunque essere un supporto empirico a modelli teorici consolidati e ad analisi socio-economiche condivise che da molti anni sono al centro della letteratura scientifica (per citarne qualcuno: Schiff, M., 1994 “How Trade, Aid and Remittances Affect International Migration“, Policy Research Working Paper 1376, World Bank; Martin, P.,  1993 “Trade and Migration: NAFTA and Agriculture“, Institute for International Economics, Washington D.C.; Martin, P., 1998 “Economic Integration and Migration: The Case of NAFTA“, IGCC  Working Paper; Martin, P. and Taylor, J.E., 1996 “The Anatomy of a Migration Hump“, in J. E. Taylor (eds.) Development Strategy, Employment, and Migration: Insights form  Models, OECD, Paris, pp. 43-62; Vogler, M. and Rotte, R., 2000 “The Effects of Development on Migration: Theoretical Issues and New Empirical Evidence“, Journal of Population Economics, 2000(13): 485-508; Olesen, H., 2002 “Migration, return and Development: An Institutional  Perspective“, International Migration, 40(5): 125-150; De Haas, H., 2004 “International Migration, remittances and Development: Myths and Facts“, Third World Quarterly, 26(8): 1269-1284.).
Per quanto riguarda la nostra affermazione (“tanto più un paese riceve aiuti economici internazionali, tanto più da quel paese si origineranno flussi di migrazione internazionale”) e alla base del titolo, certo ad effetto (ci siamo chiesti se un punto interrogativo fosse stato più appropriato), del nostro articolo, confermiamo che la nostra conclusione è il risultato di una stima econometrica eseguita con “severità”.
Nello specifico, rispondendo a quanti ci chiedono dettagli sul modello statistico, abbiamo sviluppato un modello a due equazioni, stimate simultaneamente, benché consapevoli che le tecniche econometriche non consentono mai una esatta identificazione dei nessi causali. Con questo caveat,  comunque, i risultati ottenuti superano con successo i tradizionali test diagnostici. La prima equazione descrive il tasso di emigrazione –dai paesi sub-sahariani verso i paesi OCSE – come funzione degli aiuti internazionali e di un set di variabili di controllo: le principali sono l’’indice di sviluppo umano (che include speranza di vita, istruzione, e reddito), l’’indice di povertà (basato su un set di sottoindicatori per probabilità alla nascita di non sopravvivere sino ai 40 anni, tasso di alfabetizzazione, accesso ad acqua potabile, denutrizione infantile), l’’esistenza di conflitti, l’’accesso e diffusione di internet, l’’accesso e diffusione della televisione, e un vettore di dummies per controllare per l’’effetto delle relazioni coloniali tra paesi africani e paesi europei. La seconda equazioni invece serve a spiegare la variabilità (tra i paesi africani) degli aiuti internazionali ricevuti, in funzione di povertà, reddito nazionale lordo e apertura commerciale. In questo modo, teniamo conto, almeno parzialmente, della possibile endogeneità degli aiuti internazionali. Il modello è stimato attraverso un three-stage least square in cui i due ultimi stadi sono iterati fino ad avere convergenza nella stima dei parametri. L’’analisi diagnostica del modello, svolta attraverso il Sargan test sulle cosiddette overidentifying restrictions, ci permette di validare statisticamente la scelta delle variabili strumentali utilizzate nel modello; infine, il test di Wald su tutte le specificazioni del modello considerate, ci permette di rifiutare l’’ipotesi nulla di non significatività congiunta dei parametri. Nelle varie specificazioni non si presenta nessun problema di collinearità. La nostra analisi principale è di tipo cross-country, ma è stata replicata con successo sia (ove i dati lo hanno permesso possibile) su time series, opportunamente detrendizzate.
Detto questo, siamo convinti che il tema è troppo importante per le implicazioni di policy che ne derivano e per questa ragione ogni cautela suggerita è più che benvenuta. La nostra ricerca sul tema continua, in particolare nel tentativo di individuare se esista una soglia critica di aiuti che, a parità di altri fattori economici e istituzionali, possa determinare una inversione nella relazione che abbiamo osservato.

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