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Categoria: Energia e ambiente Pagina 50 di 60

I DON CHISCIOTTE DEI NUMERI: I PRESUPPOSTI

Lo scontro in atto tra il governo italiano e la Commissione europea sul pacchetto clima non sembra essere una questione di numeri. Non ci sono infatti numeri fasulli né numeri veri. Ci sono scenari alternativi, come è prassi in questo genere di analisi. E la Commissione sembra avere considerato quello più ragionevole, mentre il nostro governo fa riferimento al più funzionale alla sua tesi, quella di rinegoziare i termini dell’accordo e di prendere tempo. Una tesi politica. E i numeri da tutti citati enfatizzano i costi, ma non tengono adeguato conto dei benefici. Episodio 2: La disputa in atto.

I DON CHISCIOTTE DEI NUMERI: LA DISPUTA IN ATTO

 

GLI SCENARI E LA “POSIZIONE” DELLA COMMISSIONE EUROPEA

Lo strumento utilizzato dalla Commissione per valutare le conseguenze economiche del pacchetto clima, il modello Primes, non è l’unico in circolazione per questo tipo di esercizi. Al di là dei suoi meriti, data l’estrema rilevanza della posta in gioco, sarebbe stato auspicabile produrre risultati per lo stesso pacchetto con altri modelli di simulazione di altri istituti di ricerca europei al fine di valutare la robustezza dell’analisi.
Spesso diversi scenari sono simulati per vedere il grado di variabilità delle stime ottenute – in questo caso i costi –  rispetto a quelle centrali scelte come le più ragionevoli, realistiche o preferibili. Lo scenario su cui la Commissione europea ha basato le sue valutazioni è quello che prevede l’operatività dei vari meccanismi di flessibilità, in particolare lo scambio di garanzie di origine sulle rinnovabili e la possibilità (limitata) di accreditare alle imprese europee le minori emissioni associate a progetti e impianti che esse realizzassero nei paesi in via di sviluppo: si tratta dei cosiddetti Cdm previsti dal Trattato di Kyoto. Questo ricorso, ancora una volta, può essere per il singolo attore meno oneroso delle opzioni alternative di cui dispone per raggiungere il proprio target. I costi per l’Unione europea di questa strategia che sfrutta la flessibilità sono riportati nella tabella 1 qui sotto e variano tra lo 0,45 e lo 0,60 per cento del Pil. (1) Associato al caso della massima flessibilità vi è un costo per l’Italia compreso tra lo 0,51 e lo 0,66 per cento del proprio Pil.Èinteressante notare che tale tabella veniva già proposta come tabella 37 nel documento di valutazione di impatto del pacchetto clima che la Commissione pubblicava a febbraio 2008, all’indomani cioè delle proposta di direttiva. (2)
Non è dunque vero quanto affermato dal ministro Prestigiacomo che il nostro governo ha dovuto insistere presso la Commissione per ottenere i numeri dei costi delle proposte. Vero è invece che la Commissione non aveva reso noti i dati di costo di una serie di altri scenari simulati, ivi inclusi quelli che non prevedevano l’operatività di alcun meccanismo di flessibilità. Non c’è bisogno di un economista per comprendere che tali scenari portano a costi per i singoli paesi, Italia inclusa, maggiori di quelli con flessibilità. (3)

LA “POSIZIONE DELL’ITALIA”

All’indomani della presentazione della proposta, il Parlamento europeo ha iniziato l’analisi dei contenuti e, attraverso un processo di emendamenti e votazioni, è arrivato a fine settembre ad approvare il pacchetto in una versione sostanzialmente invariata. Nonostante le pressioni di vari europarlamentari, le Commissioni ambiente e industria hanno licenziato un testo che è arrivato perciò al Consiglio europeo del 15 ottobre scorso. Queste direttive  richiedono la doppia approvazione di Europarlamento e Consiglio europeo e possono prevedere, se emendate, un riesame. Inoltre potrebbero essere approvate anche a maggioranza qualificata del Consiglio, in codecisione con il Parlamento, rendendo dunque un eventuale veto dell’Italia un atto politico,  sicuramente serio e da evitare assolutamente, ma privo di rilievo giuridico.
Mentre l’Europarlamento era impegnato nell’esame del pacchetto, iniziava, soprattutto a cavallo dell’estate, il lavoro diplomatico dei nostri ministri, finalizzato alla ricerca di alleati da associare alla propria posizione negativa sul pacchetto, quanto a tempi di entrata in vigore ed entità dell’impegno richiesta a ciascun paese. Ma la strategia nazionale mirava anche alla Commissione europea cercando di mostrare come le analisi quantitative condotte non riproducono fedelmente i reali costi che l’Italia dovrebbe sostenere nel caso di approvazione del pacchetto.
A supporto della propria posizione, il ministero delle Attività produttive produceva un documento datato 8 settembre 2008 di stima dei costi basato su un’analisi condotta dal Rie, il centro ricerche di Bologna che fa capo ad Alberto Clô, ex ministro dell’Industria del primo esecutivo Prodi. Il documento forniva cifre di costo davvero impressionanti. Stimava per il periodo 2013-2020 un costo per lo sviluppo delle fonti rinnovabili pari a 50 miliardi di euro, una costo per la riduzione dell’intensità energetica addirittura di 120 miliardi e infine un costo associato alla riduzione delle emissioni per un importo di 23-27 miliardi. Nel complesso si tratta di 200 miliardi che su base annua ammontano a 25 miliardi circa. Il documento e le cifre in esso contenute venivano fatte proprie dalla Confindustria che, prendendo le mosse dalla considerazione della consistente base manifatturiera della nostra economia e del paventato rischio di delocalizzazione delle nostre imprese più energivore, affiancava il  governo nell’offensiva europea.
Il documento Matt-Rie per come i calcoli sono effettuati lascia adito a dubbi significativi. Anzitutto il pacchetto europeo non prevede attualmente interventi sull’efficienza energetica: togliendo i 120 miliardi e conteggiando solo l’intervento su emissioni e rinnovabili i costi cumulati scendono a 73-77 miliardi, cioè poco più di 9 miliardi l’anno. In secondo luogo i calcoli sono fatti considerando gli obiettivi uno alla volta indipendentemente dagli altri, secondo una procedura di mera moltiplicazione tra un prezzo ipotizzato della tonnellata di carbonio per le presunte emissioni risparmiate e di prezzo delle varie fonti rinnovabili per il corrispondente consumo stimato sulla base dei target previsti dalle direttive. Naturalmente questo è una procedura approssimativa, in quanto appare di tutta evidenza come senza modelli integrati che consentano di tenere conto di tutte le interazioni tra mercati, settori di attività e agenti, soprattutto in presenza di una pluralità di politiche, sia difficile fornire cifre dotate di una credibilità per lo meno analoga a quelle della stessa Commissione europea.

LA “POSIZIONE DELL’ITALIA” RIVISTA

L’arma del nostro governo a sostegno della tesi della ridiscussione e del rinvio si è successivamente spostata su altri dati e su un’altra tabella, prodotta dallo stesso ministero, che è poi quella ripresa ripetutamente dalla stampa in questi giorni, ed è anche quella che permette di chiarire i termini della disputa. (4)
La Commissione stima i costi del pacchetto clima per l’Italia nell’ordine dello 0,51-0,66 per cento del Pil, l’Italia sostiene che sono pari al doppio, l’1,14 per cento del Pil, ossia 181,5 miliardi di euro cumulativamente ovvero 18,2 miliardi in media d’anno. Èimportante notare che questo ultimo dato non era stato fornito dalla Commissione europea a febbraio 2008 per la semplice ragione che corrisponde allo scenario privo di qualsiasi meccanismo di flessibilità per rinnovabili e Cdm.Èstato successivamente incluso in un documento di più di 900 pagine, solo tabelle e numeri, in cui vengono riprodotti paese per paese i risultati di tutti i vari scenari considerati nell’esercizio di simulazione, ivi incluso quello assunto a riferimento dal nostro governo. (5)
A essere precisi, verificando la corrispondenza tra documenti degli scenari e dei numeri per l’intera Unione, la Commissione calcola che il costo su base annua in questo caso ammonterebbe a 21,2 miliardi di euro. Questo è quanto presentato in un estratto del documento (a pagina 119) riportato qui sotto nella seconda tabella, mentre quello di flessibilità dell’Unione europea (a pagina 461) è ripreso nella terza tabella.

LA SINTESI

Non vi sono numeri inventati, fasulli o più veri. Vi sono solo numeri, corrispondenti a diverse ipotesi di scenario, ognuno associato a modalità di implementazione delle stesse direttive. Nessuna ipotesi mette in discussione l’impianto di fondo e i principi del pacchetto 20-20-20, ma guarda semplicemente all’impatto sui costi complessivi della presenza o meno, e in diversi gradi, dei meccanismi di flessibilità previsti. Èdunque singolare che il governo italiano, liberista sulla carta, vada a selezionare a sostegno delle proprie tesi proprio quello scenario che non prevede, anzi nega, un ruolo ai mercati e alla flessibilità. Questo lo porta anche a notare inutilmente che nello scenario Commissione europea i nostri targets fisici non sono raggiunti: questo è sicuramente vero, ma è precisamente il risultato dell’operare dei meccanismi di flessibilità. Non è un problema, poiché ciò che conta per l’intera strategia è che i targets europei siano centrati.  Non vi è una scenario giusto né uno sbagliato; ve ne sono diversi e ragionevolmente la Commissione europea ha selezionato quello che fa un favore agli Stati membri in quanto porta a minimizzare per essi i costi delle direttive proposte. Questo appare essere stato ben compreso dagli altri importanti paesi dell’Unione – Germania, Francia, Spagna – atteso che quest’ultima ha addirittura un costo stimato superiore al nostro ed atteso che la crisi finanziaria riguarda tutti quanti e non solo noi. Il presidente di turno Sarkozy, buon amico di Berlusconi, vuole chiudere entro dicembre con una decisione definitiva e ha messo in chiaro che l’arma del veto è spuntata, in quanto inefficace. I numeri assumono allora il valore di una scusa per cercare di prendere tempo e cercare di ottenere condizioni più vantaggiose nella ripartizione degli oneri tra paesi membri. Siamo in compagnia di otto paesi dell’Europa dell’Est, unico tra i fondatori ad adottare una posizione di scontro e chiusura con la Commissione e gli altri stati membri che contano. Non è una bella cosa. La partita poteva essere giocata meglio e si doveva tenere presente che tutti i nostri partner hanno visto il comportamento da cicala delle emissioni che l’Italia, governi di centrosinistra o di centrodestra, ha tenuto finora e che ci colloca ampiamente fuori rotta rispetto all’appuntamento di Kyoto.
Quanto alla posizione di Confindustria non si può non riconoscere che svolte nella politica energetica e del clima di questo tipo, la cui importanza e necessità è da tutti riconosciuta, comportano aggiustamenti nell’economia, che riguardano anche i settori produttivi. L’industria delle rinnovabili fiorisce, le industrie energivore soffrono: riallocazioni sono dolorose ma necessarie. L’esigenza è favorirle attutendo per quanto possibile i costi. Ma le proposte di direttiva, con l’assegnazione gratuita, almeno all’inizio, dei permessi di emissione , la possibilità di opting-out per le piccole imprese dal mercato delle emissioni, fino alla discussa possibilità di imporre border tax adjustments (cioè dazi all’import) per le produzioni più a rischio di perdita di competitività, svolgono esattamente quella funzione.
Più in generale, infine, i numeri da tutti citati enfatizzano i costi, ma non tengono adeguato conto dei benefici. Quale è l’entità dei danni dei cambiamenti climatici evitati dalle direttive se dovessero entrare in vigore? Quale è l’entità dei cosiddetti co-benefici rappresentati da guadagni occupazionali netti, da proventi connessi all’innovazione tecnologica? Quale il costo di interventi alternativi come tasse sul carbonio, quali i benefici in termini di minori emissioni di altri inquinanti connessi al pacchetto? Non varrebbe la pena di dirigere maggiori sforzi verso una più accurata valutazione dei benefici, oltre che dei costi?

(1) Si tratta della tabella 11 del documento di sintesi ottenibile all’indirizzo  http://ec.europa.eu/environment/climat/pdf/climat_action/analysis.pdf
(2) http://ec.europa.eu/environment/climat/pdf/climat_action/climate_package_ia_annex.pdf
(3) I vari documenti del pacchetto clima si trovano alla pagina “Climate Action” della Commissione europea:  http://ec.europa.eu/environment/climat/climate_action.htm
(4) http://www.minambiente.it/moduli/output_immagine.php?id=2388
(5)http://ec.europa.eu/environment/climat/pdf/climat_action/analysis.pdf e http://ec.europa.eu/environment/climat/pdf/climat_action/analysis_appendix.pdf

DISTRIBUTORI DI CONCORRENZA

La benzina è cara perché costa molto il petrolio. E chi vende il carburante al consumatore è strettamente controllato dalle compagnie petrolifere. Anche l’apertura alla grande distribuzione non ha dato grandi risultati. Si potrebbero però spingere le società petrolifere a cedere le loro reti di distribuzione, magari attraverso incentivi fiscali. Un gestore finalmente libero dagli attuali vincoli potrebbe cercare benzina a prezzi inferiori, mettendo in concorrenza diretta i produttori. A dare il buon esempio potrebbe essere l’Eni.

QUANTE ASPETTATIVE NEL BARILE

La speculazione non c’entra, almeno non come la si intende nell’immaginario collettivo. Ma non è neanche corretto dire che tutto dipende dal gioco della domanda e dell’offerta. Il fatto è che il petrolio è una risorsa esauribile. E il suo prezzo rimarrà elevato e variabile fino a quando i produttori continueranno ad aspettarsi che le sue quotazioni possano solo salire. Per esempio, perché si stima che la domanda cinese di greggio aumenterà molto in futuro, tanto da giustificare un prezzo intorno ai 250 dollari. Il ruolo dei tassi di interesse.

IL FISCO TRA I RIFIUTI

Dopo la Tarsu è arrivata la Tia, mai veramente applicata. Ora è il turno di una nuova tariffa, prevista dal Codice dell’ambiente. Dovrebbe perseguire almeno due obiettivi: coprire i costi complessivi del servizio e incentivare la raccolta differenziata. Il passaggio a una forma di tassazione commisurata alla quantità di rifiuti prodotta o al reale costo sociale dello smaltimento è un primo passo per una soluzione di lungo periodo del problema. Dopo aver definito il quadro generale, si può lasciare ai comuni un margine di manovra nella definizione della tariffa.

LIBERI DALLA MUNNEZZA? NON PROPRIO

Sono state ripulite le strade del centro di Napoli, non ancora la periferia e l’hinterland partenopeo. Si sono adottate misure tampone mentre resta irrisolto il problema di prendere provvedimenti strutturali, che rappresentino una soluzione duratura. Bisogna decidere fino a che puntosi può e si deve sostenere il principio dell’autosuficienza dei territori nello smaltimento dei rifiuti. Distinguendo le varie categorie ed evitando i giochi sporchi sulla munnezza.

UN COLPO ALL’INDIPENDENZA DELLE AUTORITÀ

L’economia vacilla sotto l’effetto di uno shock petrolifero di dimensioni impensate e i mercati più che mai avrebbero bisogno di punti di riferimento. Ma il governo non esita a cambiare in corsa l’intera Autorità di regolazione dell’energia, per scopi futili, introducendo ulteriori elementi di incertezza in operatori e consumatori. La legge è molto attenta a garantire l’indipendenza delle Authority, non solo dagli operatori economici dei settori regolati, ma anche dalla politica. E la certezza della durata in carica dei componenti ne è il prerequisito.

LA FRECCIA DI ROBIN HOOD COLPISCE LA BOLLETTA

La cosiddetta Robin Hood tax eleverà i prezzi dell’energia elettrica, già oggi piuttosto alti, spostando denaro dalle tasche dei consumatori a quelle dello Stato. Se avrà un effetto reale sulle imprese del settore, sarà a favore di quelle che oggi ottengono più profitti, a danno di chi fa fatica a stare a galla. Se si vogliono colpire i profitti eccessivi nel settore elettrico a sostegno della collettività, esiste solo un modo: far funzionare il mercato. Nel nostro, la concorrenza è poco efficace. Sarebbe interessante conoscere le intenzioni del governo in proposito.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Rispondo collettivamente ai MOLTI lettori che hanno avuto la cortesia di commentare il mio articolo. Alcuni di questi hanno sostenuto la loro netta contrarietà alla ripesa del nucleare sia per i livelli dei costi, sia per la minaccia alla sicurezza dell’ambiente e della popolazione . Altri, pur con molte preoccupazioni, hanno mostrato maggiore disponibilità alla ripresa del nucleare sottolineando la necessità di adottare ogni tipo di controllo. Altri ancora hanno valutato più importanti i problemi tecnici rispetto a quelli legislativi e regolamentari su cui mi ero soffermato.
Da parte mia desidero esplicitare ai lettori che non sono mosso da alcuna pregiudiziale scientifica e culturale alla ripresa del nucleare anche in Italia. La mia visione del problema dunque non è del tipo "nucleare si", "nucleare no", ma sul "come" si riavvia il nucleare nel nostro paese. Ciò che temo è una sorta di "via italiana" al nucleare che non adotti le "best practice" adottate nei paesi che da anni hanno promosso e potenziato il nucleare. Come noto l’industria civile del nucleare è una ricaduta dell’industria bellica (non a caso il prezzo dell’uranio è sceso ai minimi storici anche per effetto dell’abbandono della corsa agli armamenti); passaggio questo  che nel tempo ha creato competenze, controlli e accettazione sociale sostanzialmente in un processo di trial and error sia nel mondo dei privati sia in quello del pubblici controlli. In Italia, invece, nulla di tutto ciò da quasi venti anni. E’ possibile recuperare tale gap culturale, sociale e scientifico in un breve lasso di tempo in un paese (forse vittima di Croce) che – a scuola e all’università – ha troppo spesso trascurato l’istruzione scientifica di massa (non di alcune eccellenze) la cui conoscenza consentirebbe invece di non scorgere soltanto i fantasmi del nucleare?
Penso che sia possibile se per tempo si ragiona sul fatto che il la ripresa del nucleare non è soltanto questione che riguarda i tecnici del settore ( e la loro supposta supremazia), ma in particolare il ruolo e le competenze della pubblica amministrazione che deve esercitare i controlli  onde evitare che si formini vantaggi privati e costi collettivi. Osserviamo tutti i giorni che la nostra pubblica amministrazione non è in grado di esercitare con sufficiente efficacia il rispetto delle leggi (fiscali, sanitarie, ambientali, ecc.). Come deve cambiare dunque la pubblica amministrazione per la puntuale verifica del il rispetto delle norme in campo nucleare? Saranno sufficienti le abituali verifiche cartacee oppure saranno indispensabili quelle sul campo? E quale corpo dovrà effettuarle? Non a caso altri paesi hanno istituito apposite autorità per la sicurezza nucleare. Il governo ha annunciato che nei prossimi giorni adotterà alcuni provvedimenti al riguardo, Mi auguro che non siano soltanto quelli che daranno il permesso alla costruzione delle centrali nucleari (acciaio, cemento, piombo, rame, ecc) me che comprendano anche l’avvio di una riflessione sulle istituzioni pubbliche per il controllo di questo settore così delicato per la sicurezza della popolazione.
Vi  è infine chi mi a fatto notare che gli ingegneri nucleari già esistono in Italia. Ricordo al riguardo che per effetto dell’abbandono del nucleare molte università italiane hanno ridenominato i corsi di ingegneria nucleare in "ingegneria energetica" oppure "ingegneria nucleare e della sicurezza industriale" e così via. In ogni caso sono felice di scoprire che esistono ancora rappresentanti di una specie che consideravo, erroneamente, in estinzione se non del tutto estinta.

ROBIN HOOD ALL’ITALIANA

La tassa sui profitti delle società petrolifere finirebbe per colpire soprattutto l’Eni. Altre compagnie di raffinazione o di distribuzione non hanno avuto quest’anno risultati particolarmente brillanti, nonostante la crescita del prezzo del greggio. Per i beneficiari, l’aumento delle disponibilità dovrebbe avere moderati effetti espansivi. Anche sulla spesa per carburanti e trasporti. In contrasto con gli impegni del Protocollo di Kyoto. Demagogico l’obiettivo di porre un freno alla speculazione. Si apre forse una stagione di interventi straordinari, dopo quella delle una tantum?

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