Si sapeva che il decreto privatizzazioni avrebbe portato tensioni con le parti in causa. Era da mettere in conto che le categorie più protette, dai tassisti ai farmacisti passando per gli avvocati avrebbero protestato, anche in forme molto aspre. Ma che l’Associazione bancaria italiana arrivasse al gesto plateale delle dimissioni in massa dell’organo di vertice per protesta contro le misure prese da un governo che comprende colui che è stato fino ad ieri amministratore delegato della più grande banca italiana, sfiora il sublime del surreale, degno delle migliori commedie di Ionesco. Il problema non è tanto l’oggetto del contendere, quello delle misure in materia di commissioni bancarie, quanto nella guerra di religione che è stata scatenata. In gioco ci sarebbe la libertà di impresa, il posto di lavoro di 300 mila bancari (apprendiamo che tutti si occupano solo di commissioni) e via elencando in un mulinare di draghinasse. Il fatto è che questa presidenza dell’Abi, in netta discontinuità con tutte quelle precedenti, ha scelto fin da subito la linea dello scontro frontale. Nei mesi passati, la parte del cattivo è stata assegnata alle autorità di vigilanza che chiedevano alle banche di aumentare il capitale e poiché con la Banca d’Italia non ci si può mettere in urto, non è sembrato vero sferrare attacchi feroci contro quella europea, l’Eba, colpevole di aver seguito le indicazioni del Consiglio europeo e di aver condotto un nuovo stress test che ha messo in evidenza un deficit di capitale per 119 miliardi complessivi. Si badi che solo due mesi prima il Fondo monetario internazionale aveva detto che il fabbisogno di capitale delle banche europee era di 200 miliardi. Ma la tesi secondo cui le banche stanno benissimo, sprizzano dalla voglia di concedere prestiti alle imprese, ma non possono farlo solo per l’ottusità di un regolatore europeo, era troppo facile da cavalcare ed è stata anche amorevolmente assecondata da una parte non piccola della stampa.
Una strategia, al di là di ogni giudizio sullo stile, che non porta lontano, anche perché l’ultima clamorosa decisione mette in evidenza un dilemma drammatico. Delle due l’una: o le banche si rifiutano di fare la loro parte, nel momento in cui si chiedono sacrifici a tutti. Oppure sono in condizioni così fragili che non si possono permettere il lusso di un ritocco, piccolo o grande che sia, ai loro ricavi. In ogni caso, sarà bene che qualcuno si affretti ad accettare le dimissioni.