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SENZA ICI AUMENTA LA SPESA LOCALE

L’Ici è sempre stata ritenuta un’imposta particolarmente iniqua dalla maggioranza degli italiani. E nel 2008 il governo ha totalmente abolito quella sulla prima casa. Ma la sostituzione delle tasse locali con un trasferimento rende più difficile per i residenti la corretta valutazione del costo dei beni pubblici locali. L’analisi dei bilanci comunali permette di isolare la variazione di spesa associata alla cancellazione dell’imposta: tra il 2007 e il 2009 c’è stato un incremento medio dello 0,9 per cento. L’effetto è ancora maggiore nelle grandi città.

PERCHÉ MAI UN CONDONO?

Il condono fiscale è la legittimazione di un atto illecito, è un premio per chi ha violato le leggi, è un gettare la spugna da parte dell’amministrazione, è una delegittimazione delle imposte come strumento democratico di finanziamento della cosa pubblica. Rappresenterebbe un’ulteriore perdita di reputazione per il nostro paese, cosa di cui non abbiamo proprio bisogno. Non è neppure detto che assicuri un gettito all’erario, né che aiuti i contribuenti in maggiore difficoltà.


BENI DELLA CHIESA: UNA GESTIONE DIVERSA È POSSIBILE *

Il discorso di monsignor Bagnasco del 19 agosto sulla necessità di contrastare l’evasione fiscale, che di per sé è stato di buon senso, ha scatenato reazioni vivaci. Ci si è chiesti perché anche la Chiesa non dovesse partecipare ai sacrifici. La pentola pesante dei beni e dei conti ecclesiastici è stata, per quanto possibile, scoperchiata ed è apparsa una condizione di indubbio favore. (1) È una situazione, probabilmente unica in Europa e nel mondo, per dimensioni e presenza diffusa sul territorio. I vertici ecclesiastici, mediante l’Avvenire, che è il loro megafono, hanno sostenuto che si voleva “tassare la solidarietà” (con riferimento alle attività sociali della Chiesa) e che ci si trovava di fronte a un complotto radical – massonico. Una tale reazione è stata appoggiata da Angelino Alfano per il Pdl, mentre Pier Luigi Bersani ha dovuto riconoscere che la legge lascia aperta la possibilità di evasione dall’Ici, da mettere in discussione.

DUE NOVITÀ

Ci sono state però due novità da parte di due osservatori di particolare autorevolezza, che hanno iniziato a rompere il muro dell’arroccamento ecclesiastico. Gennaro Acquaviva, uno dei protagonisti delle trattative che portarono al nuovo Concordato del 1984, ha riconosciuto che la percentuale dell’Otto per mille dell’Irpef devoluto alla Cei ha fornito un gettito eccessivo e che poteva essere ridotta, per esempio, al Sette per mille. Alberto Melloni, direttore della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, ha auspicato un passo indietro unilaterale da parte della Chiesa, mediante qualche atto credibile.

TRE QUESTIONI FONDAMENTALI

Chi pensa che, a breve termine, sia possibile un cambiamento di questa condizione di privilegio, si sbaglia. Si muoverà qualcosa solo nei tempi lunghi e se, dall’interno del mondo cattolico, ci sarà una nuova riflessione di fondo. Già ora, minoranze attive hanno posto il problema alle radici. Espongo tre questioni fondamentali come esse sono state impostate dal movimento “Noi Siamo Chiesa” (LINK a www.noisiamochiesa.org), che da quindici anni si impegna per la riforma della Chiesa cattolica nella linea delle direttive del Concilio Vaticano II e come parte di una rete internazionale di cattolici “critici” presente in Europa e in Nord America.

1) Qualsiasi approccio al problema dei beni e delle risorse deve partire dal fatto che la povertà della Chiesa e nella Chiesa è una condizione fondamentale per un vero annuncio evangelico. Questo approccio ha radici evangeliche che sono ricordate nel libro “Sulla Chiesa povera” (editrice “La Meridiana”, 2008);
2) nel nostro paese questa riflessione è intrinsecamente connessa con l’ipotesi della messa in discussione degli attuali rapporti Stato-Chiesa, su cui si fonda la situazione di privilegio;
3) corollario di questa convinzione è che sia necessario, come inevitabile primo passo nel momento attuale, prendere subito le distanze dalle attuali forze di governo. L’auspicata presa di distanza da questo tipo di rapporti con le istituzioni sarà necessaria anche nei confronti di una possibile nuova situazione politica. 

PUBBLICITÀ, TRASPARENZA, GESTIONE CONTROLLATA E PARTECIPATA

La prospettiva generale, contenuta in queste tre questioni fondamentali, non potrà essere accolta in tempi brevi dalla maggioranza dell’opinione del mondo cattolico. Ma, da subito, ci sono obiettivi concreti e praticabili. Tutti i beni che fanno capo alle strutture ecclesiastiche siano inventariati e conosciuti da tutti. Questi beni devono essere considerati, in un certo senso, di “proprietà” di tutti i membri della Chiesa, accumulatisi nel tempo con il contributo di moltissimi di essi. Attualmente solo la gestione di alcune parrocchie è conoscibile, tutto il resto è segreto o conosciuto solo per grandi cifre (ciò avviene, per esempio, per la ripartizione del miliardo annuo di gettito dell’Otto per mille amministrato dalla Conferenza episcopale, del quale non si hanno dati realmente disaggregati). L’ipotizzata conoscenza dei tanti attuali segreti di curia sulle dimensioni e le caratteristiche dei beni esige necessariamente la trasparenza nella loro gestione. Si deve sapere chi gestisce le risorse, secondo quali criteri, quali siano in modo analitico le destinazioni finali delle stesse. Bisogna, di conseguenza, attivare strutture di controllo e di gestione del beni e delle risorse che coinvolgano il maggior numero possibile dei cattolici attivi nella Chiesa. Ciò, ovviamente, deve avvenire secondo criteri di molta prudenza, gradualità e competenza che garantiscano non solo la correttezza amministrativa ma soprattutto la destinazione finale, avendo a mente la scelta prioritaria a favore dei bisognosi e la semplicità e la sobrietà come criteri da usare per organizzare le strutture della Chiesa che siano indispensabili.
Non si tratta di questioni teologiche, sono obiettivi praticabili dal grande corpo della Chiesa cattolica, anche dalla parte più tradizionalista e “moderata”, da subito e senza mettere in discussione, per ora, il Concordato e l’Otto per mille. Bisogna evitare che il diffuso rifiuto della casta politica si estenda alla casta ecclesiastica e renda più difficile l’annuncio dell’Evangelo.

 

(1) Vedi, per esempio, “Adista” n. 62 del 10 settembre 2011, l’Espresso del 1º settembre.

 

Vittorio Bellavite (Coordinatore nazionale di “Noi Siamo Chiesa”)

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio per i commenti, che evidenziano la complessità del tema.
Per quanto riguarda la pubblicazione di dati relativi alle dichiarazioni fiscali, a quanto mi risulta essa è effettuata solo per alcuni elementi e con limitazioni di accesso e temporali in Finlandia e in Norvegia.
Più frequente invece la pubblicazione di dati relativi agli evasori scoperti che hanno nascosto importi di reddito rilevanti., intesa a mettere in evidenza l’efficacia dell’azione di contrasto. In questo senso dovrebbe procedere in particolare la Grecia, nell’ambito delle misure anti-crisi (1); il ministro delle finanze ha annunciato che a breve, con modalità concordate con l’autorità per la privacy, saranno messe sul web liste di grandi evasori scoperti (imprese e individui).
In un quadro generale in cui molti paesi tendono a salvaguardare la privacy, emergono comunque varie eccezioni. Come notato nei commenti, in alcuni casi la pubblicazione dei dati fiscali, insieme ad altri elementi, viene richiesta per rendere più trasparente la posizione degli amministratori pubblici, e facilitare le valutazioni dei cittadini. Di particolare interesse al di fuori delle problematiche strettamente tributarie è poi anche l’accesso ai dati fiscali delle imprese, dove pure si possono invocare ragioni di trasparenza in relazione ad esempio alla quotazione in borsa e all’esercizio dei diritti degli azionisti.

SAN PAOLO, DOVE L’IVA NON SI EVADE

La lotta all’evasione fiscale è tornata di attualità. Ma il modo migliore per incentivare il buon comportamento fiscale non è tanto il controllo e la punizione quanto la compartecipazione ai profitti. Anche per la tassa più evasa, l’Iva. Come dimostra il programma Nota Fiscal adottato a San Paolo del Brasile: un sistema semplice, automatico e che fa leva sulla tecnologia. Mentre in Italia l’impianto delle detrazioni dall’imponibile Irpef è complesso e oneroso per il contribuente.

LA TASSA SUGLI INVISIBILI

Due senatori della Lega propongono un’imposta di bollo sui trasferimenti di denaro all’estero da parte di stranieri irregolari. A conti fatti si tratterebbe di un gettito annuo di 7 milioni. Ma il vero scopo è chiaro: colpire chi non ha voce, voto, tutela sindacale. Un modo per mettere le mani nelle tasche di chi – non certo per propria scelta – ha una vita già molto difficile. E, tra l’altro, la proposta fa a pugni con una norma in materia che esiste dal 2009.

LA VERGOGNA DI ESSERE UN EVASORE

La manovra nella versione del 1° settembre prevede la pubblicazione sui siti web dei comuni delle dichiarazioni dei redditi dei contribuenti. Difficile prevedere se davvero si passerà all’atto pratico. In ogni caso, la discussione sull’argomento è annosa e gli effetti sono dubbi. L’importanza delle sanzioni sociali per rafforzare l’osservanza delle leggi è tanto maggiore quanto più numerose sono le persone che già obbediscono alla norma. E l’informazione sull’altrui evasione non punita può tranquillizzare l’aspirante evasore. Più efficace il “naming and shaming”. Anche in Italia?

SALVATECI DALLE SALVAGUARDIE

Non abbiamo ancora la manovra, ma abbiamo ben due clausole di salvaguardia. Un vero e proprio record. Abbiamo già avuto modo di commentare la “clausola di salvaguardia”, meglio “clausola capestro”, che grava sulla delega per la riforma fiscale-assistenziale: se non venisse esercitata entro il settembre 2012, si procederà ad un taglio automatico del 5 per cento di agevolazioni e deduzioni, in larga parte Irpef e Iva, a scapito soprattutto delle persone con redditi più bassi. Il taglio salirebbe al 20 per cento nel 2014. Più tasse contro i più poveri: non c’è paese democratico che in questa crisi abbia scelto questa strada. Saremmo i primi. La seconda clausola di salvaguardia è stata annunciata ieri da Berlusconi da Parigi: se non arrivassimo al pareggio di bilancio nel 2013, ha dichiarato il nostro Presidente del Consiglio alla stampa estera che parla a molti acquirenti dei nostri titoli di stato, il governo aumenterà l’Iva dal 20 al 22 per cento per soli tre mesi. L’aliquota del 20 per cento non si applica ai beni di prima necessità (tassati al 4 per cento). Sono spese che possono in parte essere rinviate nel tempo. Una mossa di questo tipo avrebbe dunque l’effetto certo di spingerci velocemente verso il double-dip, la seconda recessione, provocando un immediato crollo dei consumi, in attesa che l’Iva venga riportata al 20 per cento. Entrambe le clausole sono quindi palesemente ineseguibili. Rimane a questo punto solo il messaggio lasciato ai mercati: se abbiamo bisogno di ben due clausole di salvaguardia e non c’è ancora una manovra approvata, non sarà perché lo stesso governo non è affatto sicuro di ottenere il pareggio di bilancio nel 2013?

CHI PAGA IL TAGLIO DELLE AGEVOLAZIONI FISCALI

La nuova versione della manovra correttiva dei conti pubblici prevede che numerosi regimi di esclusione, esenzione e favore fiscale siano automaticamente ridotti del 5 per cento nel 2013 e del 20 per cento complessivo nel 2014 se il governo non riuscirà a recuperare almeno 4 miliardi nel 2013 e 20 miliardi nel 2014 dal riordino della spesa sociale e dalla riforma del fisco. Le simulazioni mostrano che l’impatto complessivo sarebbe chiaramente regressivo sia per quanto riguarda l’Irpef sia per l’Iva. Pesano in particolare le minori detrazioni dell’imposta sul reddito.

UN FISCO DA RIPENSARE

In allegato la presentazione tenutasi, il 4 luglio 2011, al convegno a porte chiuse per i sostenitori de lavoce.info

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