Per favorire l’occupazione femminile il governo Monti starebbe valutando una differenziazione nella imposizione fiscale sul reddito da lavoro di donne e uomini. L’idea è inefficace e ingiusta. Inefficace perché non c’è abbassamento di aliquota che compensi una domanda di lavoro debole o nulla rivolta a donne a bassa qualifica. Ingiusta perché rischia di rivelarsi una redistribuzione da famiglie a reddito basso verso quelle a reddito alto. Più utile investire nella formazione e destinare tutte le risorse possibili all’allargamento dell’offerta di servizi di cura.
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Contrastare l’evasione fiscale tassando l’utilizzo di denaro contante è un’idea semplice, ma non è quella destinata a risolvere il problema. Perché una tassa simile sarebbe incostituzionale. E perché le cause dell’evasione risiedono in aspetti strutturali del sistema, modificabili solo con una molteplicità di interventi, a diversi livelli. Occorre ridare semplicità, coerenza e sistematicità all’ordinamento fiscale italiano. E rendere più efficiente l’attività di controllo, che oggi può contare su poteri di accertamento mai avuti prima e su personale qualificato.
La priorità per l’Italia dovrebbe essere il recupero di competitività esterna per svincolarsi dalla necessità di finanziarsi all’estero. E per convincere i mercati che, alla lunga, il paese riuscirà a restare nell’euro perché ha allineato i costi a quelli della concorrenza internazionale. Si può fare attraverso una svalutazione fiscale, con un aumento dellIva abbinato a una riduzione della tassazione del lavoro. Rendendo così più competitive le imprese esportatrici. In Germania un provvedimento simile ha dato ottimi risultati.
Con il nuovo governo si tornerà a parlare di lotta all’evasione fiscale. Ma quali sono gli strumenti per affrontare un problema complesso e antico? Si possono accrescere i vincoli alla compensazione dei crediti Iva. E vanno applicate o estese le misure che hanno dimostrato di essere efficaci per aumentare il costo dell’evasione. Ma nel medio periodo è cruciale il tema della qualità e dell’utilizzo delle informazioni. L’amministrazione finanziaria dovrebbe razionalizzare le sue richieste di dati. E usare tutti quelli a sua disposizione per prevenire e non solo per reprimere.
Lunedì 24 ottobre. Il Consiglio dei ministri è terminato. Nulla di fatto. Il decreto sviluppo continua ad essere un oggetto misterioso. Una bozza è circolata nel pomeriggio, ripresa dalle più importanti testate nazionali. Conteneva una litania impressionante di condoni di tutti i tipi: riapertura dei termini per gli anni pregressi, regolarizzazione delle scritture contabili, accertamento con adesione per i periodi dimposta pregressi, definizione dei ritardati od omessi versamenti, definizione degli atti di accertamento e di contestazione, degli avvisi di irrogazione delle sanzioni, degli inviti al contraddittorio e dei processi verbali di constatazione, definizione delle liti pendenti, definizione dei tributi locali, definizione agevolata ai fini delle imposte di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni, proroga di termini, definizione degli importi non versati, regolarizzazione di inadempienze di natura fiscale, proroga di termini. Tutti cumulabili. Alcuni anonimi.
In larga parte un déjà vu: la riproposizione, con pochi aggiornamenti, della lunga lista di condoni messi in atto con la legge finanziaria per il 2003.
La notizia è rimbalzata sui siti e nei notiziari. Il Governo ha smentito.
È un giallo? È lennesimo ballon dessai? Per saggiare lopinione di chi? Dei contribuenti o della propria maggioranza?
Non lo so. Quello che è certo è che una notizia di questo tipo, lasciata trapelare e poi smentita da un governo debole, indeciso e diviso, è unulteriore non indifferente elemento che ne mina la residua credibilità.
Lavevamo chiamata legge ad aziendam e questa definizione è stata fatta propria dalla stampa. Ci riferivamo alla norma contenuta nel decreto legge incentivi (n. 40/2010), che permetteva una rapida definizione delle controversie tributarie pendenti da oltre dieci anni per le quali l’amministrazione finanziaria fosse risultata soccombente nei primi due gradi di giudizio. Il contribuente poteva estinguere la controversia che lo riguardava, pagando un importo pari al 5 per cento del suo valore (riferito alla sola imposta oggetto di contestazione in primo grado, senza tenere conto degli interessi, delle indennità di mora e delle eventuali sanzioni).
Lavevamo chiamata ad aziendam perché le condizioni richieste per accedere alla sanatoria si attagliavano alla perfezione a un importante contenzioso pendente in Cassazione che riguardava la Mondadori. Limposta dovuta dall’azienda editoriale era pari a 173 milioni. Se si aggiungono interessi, indennità di mora e sanzioni, si trattava, secondo la stampa, di una somma di circa 350 milioni di euro. Grazie alla norma citata la controversia si è chiusa con il pagamento di 8,6 milioni.
Marina Berlusconi, Presidente di Mondadori ha rigettato linterpretazione di una legge ad aziendam: Non legge ad aziendam, ma ad aziendas, perché è una norma che restituisce certezze a tutto il sistema delle imprese. Se le leggi, come in questo caso, sono sacrosante, che cosa si vorrebbe, che le nostre aziende non le utilizzassero solo perché fanno capo alla famiglia Berlusconi?
Chi aveva ragione?
Il senatore del Pd Giuliano Barbolini ha provato ad avere dal ministero dellEconomia tutte le informazioni necessarie a capire quante siano state davvero e per che importi le imprese che di questa norma si sono avvalse. Ci sono volute tre diverse interrogazioni.
La risposta del Ministero dellEconomia, per quanto limitata a solo alcuni aspetti, sembra abbastanza interessante. Le aziende che hanno utilizzato la norma sono state 67. Il costo complessivo che si è rinunciato a introitare a bilancio pubblico, nel caso di soccombenza della controparte, viene valutata in circa 226 milioni.
Se ne deduce che, poiché di questi 226 milioni 173 milioni riguardano la Mondadori, la vertenza Mondadori pesa per poco più del 75% del totale. Le altre 66 aziende, tutte insieme, contano per il restante 25%.
Si può o non si può parlare di legge ad aziendam?
L’Ici è sempre stata ritenuta un’imposta particolarmente iniqua dalla maggioranza degli italiani. E nel 2008 il governo ha totalmente abolito quella sulla prima casa. Ma la sostituzione delle tasse locali con un trasferimento rende più difficile per i residenti la corretta valutazione del costo dei beni pubblici locali. L’analisi dei bilanci comunali permette di isolare la variazione di spesa associata alla cancellazione dell’imposta: tra il 2007 e il 2009 c’è stato un incremento medio dello 0,9 per cento. L’effetto è ancora maggiore nelle grandi città.
Il condono fiscale è la legittimazione di un atto illecito, è un premio per chi ha violato le leggi, è un gettare la spugna da parte dell’amministrazione, è una delegittimazione delle imposte come strumento democratico di finanziamento della cosa pubblica. Rappresenterebbe un’ulteriore perdita di reputazione per il nostro paese, cosa di cui non abbiamo proprio bisogno. Non è neppure detto che assicuri un gettito allerario, né che aiuti i contribuenti in maggiore difficoltà.
Il discorso di monsignor Bagnasco del 19 agosto sulla necessità di contrastare levasione fiscale, che di per sé è stato di buon senso, ha scatenato reazioni vivaci. Ci si è chiesti perché anche la Chiesa non dovesse partecipare ai sacrifici. La pentola pesante dei beni e dei conti ecclesiastici è stata, per quanto possibile, scoperchiata ed è apparsa una condizione di indubbio favore. (1) È una situazione, probabilmente unica in Europa e nel mondo, per dimensioni e presenza diffusa sul territorio. I vertici ecclesiastici, mediante lAvvenire, che è il loro megafono, hanno sostenuto che si voleva tassare la solidarietà (con riferimento alle attività sociali della Chiesa) e che ci si trovava di fronte a un complotto radical – massonico. Una tale reazione è stata appoggiata da Angelino Alfano per il Pdl, mentre Pier Luigi Bersani ha dovuto riconoscere che la legge lascia aperta la possibilità di evasione dallIci, da mettere in discussione.
DUE NOVITÀ
Ci sono state però due novità da parte di due osservatori di particolare autorevolezza, che hanno iniziato a rompere il muro dellarroccamento ecclesiastico. Gennaro Acquaviva, uno dei protagonisti delle trattative che portarono al nuovo Concordato del 1984, ha riconosciuto che la percentuale dellOtto per mille dellIrpef devoluto alla Cei ha fornito un gettito eccessivo e che poteva essere ridotta, per esempio, al Sette per mille. Alberto Melloni, direttore della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, ha auspicato un passo indietro unilaterale da parte della Chiesa, mediante qualche atto credibile.
TRE QUESTIONI FONDAMENTALI
Chi pensa che, a breve termine, sia possibile un cambiamento di questa condizione di privilegio, si sbaglia. Si muoverà qualcosa solo nei tempi lunghi e se, dallinterno del mondo cattolico, ci sarà una nuova riflessione di fondo. Già ora, minoranze attive hanno posto il problema alle radici. Espongo tre questioni fondamentali come esse sono state impostate dal movimento Noi Siamo Chiesa (LINK a www.noisiamochiesa.org), che da quindici anni si impegna per la riforma della Chiesa cattolica nella linea delle direttive del Concilio Vaticano II e come parte di una rete internazionale di cattolici critici presente in Europa e in Nord America.
1) Qualsiasi approccio al problema dei beni e delle risorse deve partire dal fatto che la povertà della Chiesa e nella Chiesa è una condizione fondamentale per un vero annuncio evangelico. Questo approccio ha radici evangeliche che sono ricordate nel libro Sulla Chiesa povera (editrice La Meridiana, 2008);
2) nel nostro paese questa riflessione è intrinsecamente connessa con lipotesi della messa in discussione degli attuali rapporti Stato-Chiesa, su cui si fonda la situazione di privilegio;
3) corollario di questa convinzione è che sia necessario, come inevitabile primo passo nel momento attuale, prendere subito le distanze dalle attuali forze di governo. L’auspicata presa di distanza da questo tipo di rapporti con le istituzioni sarà necessaria anche nei confronti di una possibile nuova situazione politica.
PUBBLICITÀ, TRASPARENZA, GESTIONE CONTROLLATA E PARTECIPATA
La prospettiva generale, contenuta in queste tre questioni fondamentali, non potrà essere accolta in tempi brevi dalla maggioranza dellopinione del mondo cattolico. Ma, da subito, ci sono obiettivi concreti e praticabili. Tutti i beni che fanno capo alle strutture ecclesiastiche siano inventariati e conosciuti da tutti. Questi beni devono essere considerati, in un certo senso, di proprietà di tutti i membri della Chiesa, accumulatisi nel tempo con il contributo di moltissimi di essi. Attualmente solo la gestione di alcune parrocchie è conoscibile, tutto il resto è segreto o conosciuto solo per grandi cifre (ciò avviene, per esempio, per la ripartizione del miliardo annuo di gettito dellOtto per mille amministrato dalla Conferenza episcopale, del quale non si hanno dati realmente disaggregati). Lipotizzata conoscenza dei tanti attuali segreti di curia sulle dimensioni e le caratteristiche dei beni esige necessariamente la trasparenza nella loro gestione. Si deve sapere chi gestisce le risorse, secondo quali criteri, quali siano in modo analitico le destinazioni finali delle stesse. Bisogna, di conseguenza, attivare strutture di controllo e di gestione del beni e delle risorse che coinvolgano il maggior numero possibile dei cattolici attivi nella Chiesa. Ciò, ovviamente, deve avvenire secondo criteri di molta prudenza, gradualità e competenza che garantiscano non solo la correttezza amministrativa ma soprattutto la destinazione finale, avendo a mente la scelta prioritaria a favore dei bisognosi e la semplicità e la sobrietà come criteri da usare per organizzare le strutture della Chiesa che siano indispensabili.
Non si tratta di questioni teologiche, sono obiettivi praticabili dal grande corpo della Chiesa cattolica, anche dalla parte più tradizionalista e moderata, da subito e senza mettere in discussione, per ora, il Concordato e lOtto per mille. Bisogna evitare che il diffuso rifiuto della casta politica si estenda alla casta ecclesiastica e renda più difficile lannuncio dellEvangelo.
(1) Vedi, per esempio, Adista n. 62 del 10 settembre 2011, lEspresso del 1º settembre.
Vittorio Bellavite (Coordinatore nazionale di Noi Siamo Chiesa)
Ringrazio per i commenti, che evidenziano la complessità del tema.
Per quanto riguarda la pubblicazione di dati relativi alle dichiarazioni fiscali, a quanto mi risulta essa è effettuata solo per alcuni elementi e con limitazioni di accesso e temporali in Finlandia e in Norvegia.
Più frequente invece la pubblicazione di dati relativi agli evasori scoperti che hanno nascosto importi di reddito rilevanti., intesa a mettere in evidenza lefficacia dellazione di contrasto. In questo senso dovrebbe procedere in particolare la Grecia, nellambito delle misure anti-crisi (1); il ministro delle finanze ha annunciato che a breve, con modalità concordate con lautorità per la privacy, saranno messe sul web liste di grandi evasori scoperti (imprese e individui).
In un quadro generale in cui molti paesi tendono a salvaguardare la privacy, emergono comunque varie eccezioni. Come notato nei commenti, in alcuni casi la pubblicazione dei dati fiscali, insieme ad altri elementi, viene richiesta per rendere più trasparente la posizione degli amministratori pubblici, e facilitare le valutazioni dei cittadini. Di particolare interesse al di fuori delle problematiche strettamente tributarie è poi anche laccesso ai dati fiscali delle imprese, dove pure si possono invocare ragioni di trasparenza in relazione ad esempio alla quotazione in borsa e allesercizio dei diritti degli azionisti.