Un cambiamento radicale, cominciato però con un passo falso. Infatti la riforma della fiscalità degli immobili entrata in vigore il 4 luglio col decreto legge 223/06 sta per essere corretta dal Governo: alcune proposte su come dovrebbe essere rettificata la normativa fiscale appena entrata in vigore.
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La politica fiscale deve coniugare flessibilità di breve periodo e disciplina di lungo periodo. Dovrebbe perciò essere controllata da un Fiscal Council indipendente che fornisca stime veritiere delle variabili macroeconomiche su cui si fondano le previsioni delle entrate e delle spese e monitori il raggiungimento degli obiettivi di risanamento. Anche il Dpef raccomanda trasparenza e monitoraggio dei conti pubblici. Perché allora non adottare una legge di responsabilità fiscale, come hanno fatto altri paesi?
Un Dpef di legislatura per quanto riguarda le entrate tributarie. Il documento non indica quanta della correzione del disavanzo prevista sia imputabile al prelievo, né entra nel dettaglio dei singoli provvedimenti finalizzati ad aumentare il gettito. Conferma come prioritaria la linea di intervento a favore del recupero della base imponibile impostata con il decreto legge 223. Dà, invece, alcune indicazioni qualitative sulla riduzione del cuneo fiscale sul costo del lavoro e sul nuovo disegno delle deduzioni dall’Irpef per lavoro e oneri familiari.
Il decreto 223 è parte integrante della strategia del Governo per perseguire equità, sviluppo e risanamento. I provvedimenti di contrasto a evasione, elusione ed erosione fiscale sono numerosi e variegati, con ricadute sulle imposte dirette, indirette e sull’Irap. Potenziato l’utilizzo di strumenti informatici, a fini di accertamento, ma anche di razionalizzazione e semplificazione. Apprezzabile che si tocchino molti punti deboli del sistema con interventi mirati, e non con impegni generici. Qualche aspetto da modificare in sede di conversione del decreto.
Nel loro intervento del 16 giugno Giampaolo Arachi e Alberto Zanardi, con il contributo di Carlo Fiorio che ha sviluppato interessanti considerazioni sugli effetti distributivi, hanno riproposto tal quali le argomentazioni pubblicate su Il Sole-24Ore del 9 giugno 2005. (1) Lo studio europeo Lo studio della Commissione europea cui gli autori fanno riferimento espone i dati relativi allanno 2000. (2) Incidentalmente osservo che il 2000 rappresenta il massimo storico assoluto nel rendimento dellIva italiana dal 1973 in poi: lIva di competenza essendo risultata pari al 6,5 per cento del Pil (serie Istat antecedente lultima revisione); nel 2005 siamo calati al 5,9 per cento (sempre vecchia serie, vedi il grafico in fondo). Un confronto Italia-Francia Nella tabella 2 sottostante espongo, per due Stati membri, il ragionamento che si dovrebbe fare per capire di cosa stiamo parlando. Per memoria, nella tabella 1 riporto la griglia delle aliquote legali esistenti in Francia e in Italia: le aliquote ridotte sono da noi poco meno che doppie di quelle francesi e laliquota normale è di poco superiore (4 decimi di punto).
Un anno fa la manovra sulle aliquote Iva doveva servire a finanziare un alleggerimento dellIrap, oggi un alleggerimento del cuneo fiscale. Lungi da me intenti polemici, vorrei precisare i motivi che rendono infondata la tesi che attribuisce la scarsa produttività dellIva alla struttura delle aliquote applicate in Italia.
Lo studio è stato condotto su dati delle contabilità nazionali dei singoli Stati membri (Sm) e non già su dati di fonte fiscale come avrebbe dovuto essere. Pertanto, per quanto concerne le proxy delle basi finali imponibili si sono utilizzati dati statistici, mentre per laliquota implicita si è fatto il rapporto tra un dato fiscale (lIva di competenza per i criteri di Maastricht) e ciò che si ritiene sia la base finale imponibile Iva. Non mi sembra sia questo un procedimento corretto da un punto di vista logico perché inevitabilmente si scambiano tra loro cause ed effetti. È cosa nota, infatti, che tuttora permangano seri problemi di confrontabilità dei dati statistici. degli Stati membri. Ergo, i consumi finali della famiglie dei singoli Stati possono non essere tra di loro omogenei, a prescindere dallampiezza dei consumi finali esenti.
Utilizzando i dati delle dichiarazioni, con riferimento al 2004 si può osservare che in Francia laliquota finale sulle vendite è risultata pari al 16,21 per cento mentre in Italia è stata del 18,06 per cento. In sostanza, se si considerano le operazioni imponibili spontaneamente dichiarate dai contribuenti Iva, laliquota finale sulle vendite è risultata in Italia superiore di circa l11,4 per cento (1,85 punti).
Sugli acquisti con Iva detraibile, sempre spontaneamente dichiarati, laliquota francese è risultata pari a 16,46 per cento mentre quella italiana è stata del 19,30 per cento (2,84 punti in più, pari a uno scarto del 17,3 per cento circa). Queste sono dunque le aliquote finali medie che si sono realizzate nel sistema economico dei due Stati membri sulle vendite imponibili e sugli acquisti detraibili.
La sintesi delle due aliquote applicate ai rispettivi flussi determina unaliquota finale del sistema, sulla base imponibile finale che rimane incisa, che è pari a 15,50 per cento in Francia e 14,80 per cento in Italia (lo scarto è di 7 decimi di punto pari a 4,5 per cento a danno dellItalia rispetto alla Francia).
A questo punto, anche uno studente liceale capirebbe che la minor resa dellIva italiana (cioè il “Vat burden” di cui parla lo studio della Commissione) non dipende dalla griglia delle aliquote bensì da qualcosaltro: gli acquisti portati in detrazione.
Se, per lItalia, il funzionario che ha redatto il rapporto, un economista dellufficio “Economic analysis of taxation”, non è arrivato a questa conclusione non è colpa mia. Di sicuro ha utilizzato un procedimento analitico che lo ha portato fuori strada.
Laumento delle aliquote comunque mascherato e giustificato non farebbe che complicare la situazione, cioè il cattivo funzionamento strutturale dellIva, fornendo una scorciatoia illusoria più volte percorsa in passato. In sostanza, il sistema Iva italiano somiglia molto a uno scolapasta con grossi buchi: lobiettivo dovrebbe pertanto essere quello di trasformare lo scolapasta in colabrodo (fori significativamente più piccoli).
Lunico argomento che ancora rimane a sostegno della proposta di aumento delle aliquote Iva è dunque squisitamente politico e, come tale, non assoggettabile a obiezioni di tipo logico: si tratta in definitiva della decisione di spostare potere dacquisto da una parte della popolazione (chi si trova sotto la soglia di povertà, i pensionati al minimo, i salariati a basso reddito) verso le imprese genericamente intese.
(1)
“Iva più europea per varare i tagli”, Il Sole-24Ore, 9 giugno 2005.(2) “Vat indicators”, working paper n.2/2004.
Tabella 1: la struttura delle aliquote legali in Francia ed in Italia
(1) aliquote (2) aliquota (3) aliquota implicita (4) divario in %
ridotte normale media aliquota normale
Francia 2,1 5,5 19,6 15,5 22,1
Italia 4 10 20 15 25
Media UE-15 – 19,4 15,9 18
Tabella 2: lIva sulle operazioni imponibili e sugli acquisti detraibili nel 2004
FRANCIA | volumi | imposta | aliquota | ||
Totale operazioni imponibili | 2.965.604 | Totale imposta | 480.806 | 16,21 | |
Base finale imponibile | 769.381 | Imposta | 119.254 | 15,50 | |
Acquisti ad Iva detraibile | 2.196.223 | Imposta | 361.552 | 16,46 |
ITALIA | volumi | imposta | aliquota | ||
Totale operazioni imponibili | 2.287.807 | Totale imposta | 413.188 | 18,06 | |
Base finale imponibile | 559.115 | Imposta | 84.229 | 14,80 | |
Acquisti ad Iva detraibile | 1.718.692 | Imposta | 331.641 | 19,30 |
FRANCIA / ITALIA | volumi | imposta | aliquota | ||
Totale operazioni imponibili | 129,63 | Totale imposta | 116,36 | 89,76 | |
Base finale imponibile | 135,19 | Imposta | 141,58 | 104,73 | |
Acquisti ad Iva detraibile | 127,34 | Imposta | 109,02 | 85,28 |
Nota bene
: lIva sulla base finale è quella di competenza economica di fonte Istat e Insee.Il cuneo fiscale ha tre componenti. Una è relativa all’Irpef, e una sua riduzione non è all’ordine del giorno. Poi ci sono i contributi sociali, per i quali forse c’è spazio per una riduzione, ma certamente non consistente. Cosa rimane per il famoso taglio di 5 punti percentuali? I contributi previdenziali. Ma questi sono parte integrante della retribuzione del lavoratore. Se l’obiettivo è risolvere i problemi di competitività delle imprese italiane, la soluzione migliore non può essere quella di chiedere a tutti i cittadini di aiutare le aziende a pagare gli stipendi.
Il cuneo fiscale è la differenza fra il costo del lavoro sostenuto dallimpresa e la retribuzione netta che resta a disposizione del lavoratore. E costituito dalle imposte e dai contributi commisurati alla retribuzione, che sono pagati dal datore di lavoro o dal lavoratore. E quindi formato da un insieme eterogeneo di componenti che gravano su soggetti diversi. Ciò va attentamente valutato nel decidere su quali componenti del cuneo eventualmente intervenire.
L’Italia parte da un’aliquota Iva ordinaria fra le più elevate. Finisce però per avere una aliquota implicita al di sotto della media europea. Una revisione dei regimi ad aliquota ridotta permetterebbe probabilmente di raggiungere diversi obiettivi: da un lato garantire una maggiore neutralità ed equità dellimposta. Dall’altro ottenere una parte del gettito necessario per il risanamento dei nostri conti pubblici. Dimensione e struttura di un eventuale intervento devono tener conto dell’impatto redistributivo e sul tasso di inflazione.
Il cuneo fiscale italiano, cioè la differenza tra il costo del lavoro per limpresa e quanto i lavoratori percepiscono in busta paga, è di circa 35 punti percentuali (non considerando nel computo lIrap). È certamente un valore considerevole che si colloca tra i più alti in Europa e il suo contenimento è oggi al centro di un vivo dibattito politico ed economico.
Entrambe le coalizioni di centrodestra e di centrosinistra avevano recepito nei loro programmi elettorali lobiettivo della riduzione del cuneo fiscale: 3 punti per il centrodestra e 5 per il centrosinistra.
Finanziamento
Per ridurre il cuneo fiscale occorre tuttavia individuare le risorse necessarie alla copertura del suo costo, in termini di minore gettito: secondo la valutazione più accreditata, potrebbe aggirarsi in 10 miliardi di euro per una riduzione di 5 punti.
Nel programma di Governo, il centrosinistra si proponeva di attingere le risorse necessarie da: i) lotta allevasione fiscale; ii) contenimento della spesa pubblica al livello della crescita nominale del Pil; iii) aumento delle aliquote contributive dei lavoratori parasubordinati e autonomi; iv) tassazione delle rendite finanziarie.
Laumento delle aliquote contributive dei lavoratori parasubordinati e autonomi, come correttamente evidenziato da Elsa Fornero, equivale a promesse pensionistiche più elevate e quindi, prima o poi, ad incrementi di spesa. (1) Pertanto, assumendo la costanza della spesa pubblica in termini reali, la copertura della manovra non può che basarsi sulla tassazione delle rendite finanziarie e sulla lotta allevasione.
Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra hanno stimato il gettito che si potrebbe ottenere dalla riforma della tassazione delle rendite finanziarie, pur sottolineandone laleatorietà, tra i 2,5 e i 4,2 miliardi. La lotta allevasione sembrerebbe quindi la conditio sine qua non per limplementazione della politica di riduzione del cuneo fiscale.
Analisi in equilibrio economico generale
Lo studio di ipotesi di manovre fiscali richiede però lanalisi degli effetti da queste generati nel sistema economico. Lutilizzo di un modello computabile di equilibrio economico generale calibrato sui dati delleconomia nazionale italiana rappresenta lo strumento più idoneo.
Se nel modello elaborato presso il dipartimento di Scienze economiche e finanziarie delluniversità di Genova, simuliamo la riduzione delle aliquote degli oneri sociali del solo lavoro dipendente (proporzionalmente) di 3, 5 e 10 punti percentuali, con il vincolo del bilancio in pareggio, (2) emerge un risultato molto interessante. Infatti, se prendiamo come benchmark la stima di 10 miliardi di euro quale costo per la copertura della riduzione del cuneo fiscale di 5 punti, allora, secondo il modello, possiamo valutare rispettivamente in 4,7 e 23 miliardi la copertura richiesta per un abbassamento del cuneo fiscale di 3 e 10 punti. Queste stime possono essere riviste al ribasso tenendo in debito conto landamento generale del sistema economico e in particolare dei prezzi. Dalla simulazione condotta in equilibrio economico generale emerge infatti un costo di copertura notevolmente inferiore se visto in termini spesa pubblica reale: 3,16 miliardi per una riduzione del 3 per cento, 7,98 per il 5 per cento e 20,4 per il 10 per cento.
La riduzione del cuneo fiscale è accompagnata da effetti positivi dal lato del consumo (maggior reddito disponibile per le famiglie e conseguente incremento dei consumi) e dal lato della produzione (diminuzione dei costi di produzione, diminuzione dei prezzi, recupero in competitività, aumento nei livelli di attivazione, aumento della domanda del fattore lavoro). Si innesta in altre parole un circolo virtuoso che partendo dai due lati opposti, sebbene strettamente interconnessi, produzione e consumo, si propaga nel sistema economico generando favorevoli effetti moltiplicativi. Inoltre non va sottovalutato il fatto che labbattimento del cuneo fiscale determina, sia per il lavoratore che per il datore di lavoro, un minor onere deducibile e quindi un maggior imponibile fiscale.
Tenendo conto di tutto questo attraverso il modello di equilibrio economico generale e focalizzando lattenzione sullipotesi di una riduzione del cuneo di 5 punti percentuali (valore mediano tra quelli proposti), emerge un risultato ancora più confortante. In termini di gettito complessivo reale, il costo finale per lo Stato potrebbe essere quantificabile in un intervallo compreso tra il 41 e il 53 per cento del costo di 10 miliardi di euro inizialmente stimato. Questo valore risulta dalla differenza in termini reali per lo Stato italiano del reddito prima e dopo la manovra fiscale. (3)
Si può quindi ipotizzare un costo di copertura finanziaria decisamente inferiore a quanto previsto anche se gli effetti di eventuali manovre per il suo finanziamento, lotta allevasione o tassazione delle rendite finanziarie, andrebbero ancora analizzate in termini di equilibrio economico generale.
Levasione fiscale
Levasione fiscale in Italia è stimata dalla Agenzia delle Entrate in 200 miliardi di euro lanno, equivalente a un minor gettito per lerario di 80-100 miliardi di euro, pari circa al 6-7 per cento del Pil. A copertura totale della manovra, almeno secondo la nostra simulazione, basterebbe un valore inferiore allo 0,38 per cento del Pil. Attenzione, però: la lotta allevasione nasconde insidie dal punto di vista del benessere generale.
Levasione è in certa misura configurabile come un contributo, sebbene non voluto, alla produzione e al lavoro. Se, per ipotesi, lo Stato fosse in grado di eliminare tout court il fenomeno, senza tuttavia dar seguito ad una riforma del sistema fiscale (in particolare, alla diminuzione delle aliquote), allora si assisterebbe a una perdita di benessere: i prezzi aumenterebbero, molte imprese perderebbero in competitività ed altre sarebbero spinte fuori dal mercato. Gli effetti a catena che verrebbero a generarsi sarebbero simmetrici ma di segno contrario a quelli attesi nel caso di riduzione del cuneo fiscale.
Se invece il finanziamento avvenisse attraverso lintroduzione di nuove imposte o laumento di imposte già esistenti, come per la tassazione delle rendite finanziarie, si potrebbero creare, anche in questo caso, indesiderabili effetti distorsivi, con conseguente eccesso di pressione e perdita di benessere: attraverso le inevitabili ripercussioni sul sistema economico, andrebbero ad alterare sensibilmente le stime prodotte aumentando più che proporzionalmente il costo di copertura della riduzione del cuneo fiscale.
(1) Il Sole-24Ore 31/3/2006.
(2) Il minor gettito per lo Stato conseguente alla riduzione del cuneo fiscale non è coperto da altre entrate ma semplicemente gestito attraverso una riduzione di spesa pubblica.
(3) La definizione di reddito reale qui utilizzata comprende il gettito di tutte le imposte dirette e indirette, a qualsiasi titolo introitate dalla Pubblica amministrazione con riferimento quindi sia al Governo centrale che a quelli locali.
Mi pare che nel contributo dell8 maggio, Maurizio Benetti e Gabriele Olini abbiano centrato bene diverse questioni. Non sarà solo la differenza di oneri contributivi a favorire luso improprio dei dispositivi dinserimento al lavoro da parte delle imprese, ma è certo che le convenienze economiche pesano, e molto, nelle decisioni dei datori di lavoro. Al minor costo previdenziale del lavoro parasubordinato o autonomo si aggiunge poi il vantaggio della flessibilità, non quella necessaria, comprensibilmente ricercata dalle imprese, ma quella resa possibile e quasi suggerita dallattuale regolazione. Lavoro parasubordinato Vi è una massa di lavoratori autonomi prevalentemente “involontari” poco garantiti sotto il profilo previdenziale e con nessuna tutela economica in caso di mancanza di lavoro. Lunica strada per moderare il ricorso a questi rapporti di lavoro è abbattere il differenziale che sfiora i 15 punti percentuali con il lavoro dipendente. Per quanto riguarda la domanda di tutela per i periodi senza lavoro, se la diffusione resta quella attuale, la risposta non è semplice. Se la platea dei co.co.pro si riduce, sarà agevolata. Lavoro incentivato LItalia è tradizionalmente un paese che ricorre molto agli incentivi economici per promuovere loccupazione, in particolare giovanile. (1) In via di principio, le sottocontribuzioni per lapprendistato, quelle che intendono agevolare linserimento e il reinserimento al lavoro dei disoccupati sono una misura ragionevole e in qualche caso appropriata. È lutilizzo anomalo, peraltro stigmatizzato a livello europeo perché in contrasto con la normativa dellUnione, a far mutare il giudizio. (2) Di fatto, le imprese considerano le sottocontribuzioni un risarcimento degli eccessivi oneri impropri sopportati piuttosto che uno stimolo ad accrescere la domanda di lavoro. Inoltre, poiché gli sgravi contributivi riguardano il flusso di nuovi assunti, ciò incentiverà le imprese ad attuare il ricambio occupazionale: di conseguenza, a pagare saranno spesso i lavoratori meno giovani, anche perché sono sempre meno utilizzabili gli ammortizzatori sociali in deroga (mobilità lunga, prepensionamenti). Lavoro a termine Non si può non riconoscere che la precarietà del lavoro nella prima parte della vita attiva è preferibile alla disoccupazione. Ma è altrettanto certo che una sequenza prolungata di lavori a termine, per di più scarsamente retribuiti, finisce per riflettersi negativamente sulla condizione del lavoratore. La mancanza di autonomia economica influenzerà le scelte di vita, compresa quella non irrilevante di avere figli. (3) È ragionevole ritenere che un lavoratore a termine costi di più alla collettività in quanto “consumerà” più interventi pubblici di un lavoratore stabile sia per sostenere il suo reddito, nella forma di unindennità di disoccupazione ordinaria o più frequentemente con requisiti ridotti, che interventi di politica attiva. Convergenza – unificazione delle aliquote previdenziali Oltre a favorire un uso improprio dello strumento, le aliquote attualmente in vigore per i parasubordinati finiscono per deprimere lammontare della pensione cui si avrà diritto per leffetto combinato del metodo contributivo e per la tuttaltro che rara discontinuità dei nastri lavorativi individuali. Si potrebbe elevare di 10 punti percentuali laliquota contributiva attualmente in vigore per coloro che non hanno unaltra posizione previdenziale attiva. Con loccasione, ma la questione ha un rilievo più generale, potrebbe essere riesaminato il contributo rispettivo di datori e lavoratori. Rimodulazione della spesa pubblica per le politiche del lavoro Operando sulle convenienze economiche, dovrebbe essere possibile “pilotare” il sistema lavoro verso una assetto più convincente ed efficiente. La perdita di peso del lavoro parasubordinato e la riduzione dellarea del lavoro incentivato dovrebbero favorire inizialmente la crescita del lavoro a termine. Questo non può essere lobiettivo finale del disegno riformatore, ma va considerato un passo in avanti in termini di chiarezza del mercato del lavoro, di maggiore tutela previdenziale dei lavoratori deboli. Il passaggio più delicato sarà comunque la rimodulazione della spesa per incentivi individuando la priorità nella stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Parte delle risorse oggi destinate agli sgravi contributivi potrebbe essere utilizzata per ridurre in misura modesta ma strutturale il costo del lavoro alle dipendenze per tutte le imprese, limitando però lapplicazione alla platea di lavoratori che percepiscono una retribuzione inferiore a un determinato ammontare (per esempio 40mila euro/anno ), parte per finanziare la riforma degli ammortizzatori sociali e parte per impieghi mirati, e in particolare per investimenti formativi. (4) Differenziazione delle aliquote extraprevidenziali Lammontare della contribuzione allassicurazione per la disoccupazione involontaria che vale poco meno del 2 per cento della massa salariale potrebbe essere differenziato a seconda che si tratti di assicurare lavoratori a termine o lavoratori stabili. Nel primo caso, il contributo per il finanziamento delle politiche attive del lavoro e la tutela economica della disoccupazione potrebbe essere maggiorato di 1,4 punti percentuali rispetto allassetto attuale, dall1,61 al 2 per cento lordinario, dallo 0,30 all1,30 per cento il contributo addizionale. (5) Limporto risultante dalla maggiorazione contributiva sarebbe restituito al datore di lavoro nel caso in cui il rapporto di lavoro venga stabilizzato prima o entro la scadenza contrattuale. Ladeguamento dei contributi previdenziali degli autonomi Come fanno giustamente notare Benetti e Olini, laumento dei contributi previdenziali degli autonomi sembra importante per due ragioni: le aliquote attualmente in vigore non sono certamente aliquote di equilibrio e il loro adeguamento porterà loro vantaggi nelle prestazioni. (1) Più di 5 miliardi di euro lanno pari a 10mila miliardi delle vecchie lire secondo i dati contenuti nel Rapporto di monitoraggio del ministero del Lavoro.
Il problema è che nessuno regala niente: se la contribuzione vale poco, varranno poco anche le prestazioni; e se la flessibilità è elevata, si volteggia senza rete. Il vantaggio di alcuni sarà pagato dalla collettività e dalla parte più debole dei lavoratori. Occorre dunque intervenire su quelle convenienze, regolare la flessibilità, premiare i comportamenti socialmente virtuosi delle imprese, rivedere il sistema delle tutele in un mercato del lavoro profondamente mutato. Non correzioni, ma un quadro dinterventi coerente, che va ben al di là della legge 30.
(2) LItalia ricorre agli incentivi allassunzione assai più degli altri paesi europei. È proprio questo ricorso anomalo che toglie senso al confronto con gli altri paesi per quanto attiene alla spesa per le politiche attive del lavoro.
(3) Il costo elevato degli alloggi e la mancanza di esternalità limitano fortemente la mobilità territoriale dei giovani a fini di formazione o per lavoro.
(4) La precarizzazione dei rapporti di lavoro ha messo in crisi il modello della formazione continua. Una nuova e impegnativa strategia potrebbe quella del sostegno alla domanda individuale di formazione. Ma questo richiede un sistema pubblico allaltezza della sfida, più qualità e più concorrenza tra le proposte formative, azioni di sistema appropriate. Comunque, deve emergere la consapevolezza che la fase attuale non è favorevole alla formazione: la leggerezza dei rapporti di lavoro non promuove gli investimenti formativi e dovendo scegliere a cosa rinunciare, gli individui scelgono comprensibilmente più reddito rispetto a più formazione;
(5) Il contributo dello 0,30 per cento finanzia oggi in parte i fondi interprofessionali per la formazione continua.