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Tutti gli incentivi del reddito minimo

Il reddito minimo garantito è un istituto che permettere di semplificare e unificare in un interevento generale e trasparente una serie di politiche occasionali. E può contribuire all’efficienza del sistema economico nel breve e nel lungo periodo. Alcune simulazioni confutano le tradizionali critiche a questo strumento. Mostrano infatti che non comporta disincentivi al lavoro per gli individui con bassi salari e non favorisce il lavoro nero. Né un maggior prelievo fiscale sui redditi più elevati fa diminuire l’offerta di lavoro di chi ha stipendi più alti.

L’imposta di successione per un fondo-giovani

Nel 2001 è stata abolita in Italia l’imposta di successione. Portava nelle casse dello Stato circa un miliardo di euro all’anno. Esistono buone ragioni per reintrodurla, vincolandone i proventi all’accrescimento delle opportunità di autodeterminazione dei giovani italiani. Si potrebbe, ad esempio, introdurre un fondo di cittadinanza sul modello del Child Trust Fund britannico. Si tratterebbe di un diritto individuale, che prescinde dalle condizioni economiche della famiglia. Dunque, renderebbe i ragazzi più indipendenti e, forse, più responsabili

Buoni propositi: l’assegno alle famiglie

Un assegno da 2.500 euro l’anno per ogni bambino, fino ai diciott’anni. La proposta di Prodi anticipa la necessaria riforma degli istituti di sostegno dei redditi familiari. La misura riunifica assegni familiari e deduzioni, ha carattere strutturale, è universale e selettiva allo stesso tempo. Nell’immediato, l’onere per lo Stato è contenuto, mentre gli effetti distributivi sono virtuosi: l’incidenza percentuale del beneficio è più elevata per i decili inferiori della distribuzione e decresce all’aumentare del reddito. Più problematica la copertura a regime.

Imprese, formazione e cuneo fiscale

Le imprese italiane versano oggi un contributo obbligatorio per il sostegno delle politiche di formazione dei lavoratori. Le risorse si riversano in fondi destinati a co-finanziare gli interventi formativi. Peraltro, poco utilizzati dalle aziende. Si tratta dunque un sistema efficiente? Una valutazione complessiva del suo impatto sulle performance economiche delle imprese, in particolare di quelle medio-piccole, e sulle opportunità di carriera dei lavoratori, è indispensabile. Soprattutto alla luce della richiesta di riduzione del costo del lavoro.

Ma la previdenza sociale non sempre scoraggia il lavoro

Nel pubblico dibattito, in Italia come altrove, molto spesso viene dato per scontato che i contributi previdenziali scoraggino l’offerta di lavoro e quindi l’occupazione. L’implicazione è che uno dei modi di aumentare l’occupazione sia di ridimensionare la previdenza sociale. Il ragionamento sottostante è molto semplice. I contributi previdenziali, siano essi a carico del lavoratore o del datore di lavoro, sono una tassa e contribuiscono quindi ad allargare il cuneo d’imposta sul lavoro. In altre parole, riducono il beneficio monetario netto che una persona ricava dal lavorare un’ora, una giornata o un anno in più e di conseguenza l’incentivo a erogare quella quantità aggiuntiva di lavoro (ovviamente a parità di retribuzione unitaria). Anche su questo sito, Maria Cecilia Guerra e Silvia Giannini includevano i contributi previdenziali nel computo del cuneo. Ma è giusto considerare i contributi previdenziali alla stregua di un’imposta?

Beveridge o Bismarck?

La risposta è diversa a seconda che si stia parlando di un paese anglosassone come Stati Uniti o Gran Bretagna, oppure di un paese europeo continentale come Francia, Germania o Italia.
I primi hanno sistemi pensionistici pubblici alla Beveridge, dove le prestazioni possono variare da una persona all’altra sulla base di certe caratteristiche personali, ma non in base ai contributi eventualmente versati. In tali paesi la quantità di lavoro erogato e i contributi versati da una persona non hanno alcun effetto sul trattamento pensionistico della persona stessa. I contributi previdenziali sono pertanto un’imposta a tutti gli effetti (la social security tax).
Il secondo gruppo di paesi si è invece dato un sistema pensionistico alla Bismarck, dove le prestazioni aumentano per la stragrande maggioranza dei cittadini con i contributi pagati. Fanno eccezione soltanto coloro i quali otterrebbero così una pensione inferiore a un certo minimo o superiore a un certo massimo politicamente determinato. Per queste minoranze di molto poveri o molto ricchi, i contributi pensionistici costituiscono un’imposta. Per tutti gli altri, i contributi sono invece una forma di risparmio, ancorché forzoso.

Quando c’è il cuneo

In una recente nota dimostro formalmente che, in un sistema alla Beveridge, i contributi previdenziali danno necessariamente luogo a un cuneo d’imposta sul lavoro, o allargano quello creato dall’imposizione sul reddito. (1) Viceversa, in un sistema alla Bismarck, i contributi possono dar luogo a un cuneo e pertanto costituire un disincentivo al lavoro soltanto a certe condizioni. In talune circostanze, il sistema previdenziale può addirittura essere un incentivo a lavorare. Vediamo perché.
Poniamo che il rendimento implicito dei contributi previdenziali sia diverso da quello che una certa persona potrebbe ottenere, a parità di rischio, investendo liberamente sul mercato. Se è minore, il contribuente sta in effetti pagando un’imposta implicita. Se è maggiore, sta ricevendo un sussidio implicito. (2) Qualora l’imposta aumentasse o il sussidio si riducesse all’aumentare del reddito sarebbe allora vero che, a parità di altre condizioni, il beneficio monetario netto di lavorare un’ora, una giornata o un anno in più è inferiore al salario orario, giornaliero o annuale. Altrimenti non sarebbe vero e non ci sarebbe cuneo. Si noti che quest’ultima proposizione è vera sia che si tratti di un’imposta o di un sussidio. Non è quindi vero che un’imposta disincentiverebbe e un sussidio incentiverebbe a lavorare. Ciò che conta è come varia l’imposta o il sussidio al variare del reddito e quindi della quantità di tempo lavorata.
Cosa succede se il contributo pagato da un lavoratore è più alto dell’ammontare che egli avrebbe volontariamente risparmiato? Se il lavoratore è in grado di eliminare l’eccesso prendendo a prestito a un tasso d’interesse pari al tasso di rendimento del contributo, la sua offerta di lavoro e il suo benessere rimarranno inalterati. Altrimenti, il suo benessere si ridurrà e la sua offerta di lavoro tenderà ad aumentare per cercare di riportare il consumo presente al livello desiderato. In presenza di un’imposta implicita crescente o sussidio implicito decrescente al crescere del reddito la distorsione derivante dal razionamento del credito tenderà quindi a compensare quella di segno contrario derivante dal cuneo d’imposta. Se dovesse predominare la prima, il risultato netto sarebbe non una riduzione, ma un aumento dell’offerta di lavoro (anche se a costo di una riduzione del benessere). In ogni caso, il disincentivo a lavorare sarà minore, a parità di aliquota contributiva, se il sistema pensionistico è di stile continentale invece che di stile anglosassone.

I livelli di occupazione

Come si spiega allora che i paesi anglosassoni tendono ad avere un livello di occupazione maggiore rispetto a quelli continentali? Una spiegazione è che l’occupazione non dipende solo dalla politica pensionistica. Un’altra è che i sistemi anglosassoni sono più “leggeri” di quelli continentali. Pur restando vero che la stessa aliquota contributiva disincentiva il lavoro di più in un sistema alla Beveridge che in uno alla Bismarck, l’occupazione potrebbe infatti essere più alta nei paesi anglosassoni semplicemente perché l’aliquota è più bassa.
In un suo articolo, Richard Disney mette in relazione il tasso di partecipazione maschile e femminile in un certo numero di paesi dapprima con l’aliquota contributiva e poi con le componenti “imposta” e “risparmio” della stessa. (3) La partecipazione maschile risulta essere insensibile sia all’aliquota che alle sue componenti. Per contro, la partecipazione femminile risulta negativamente correlata sia con l’aliquota che con la sua componente imposta, ma positivamente correlata con la componente risparmio. Tutto questo è coerente con il ragionamento teorico che abbiamo fatto.
La procedura seguita da Disney può essere criticata perché è basata su dati aggregati e perché calcola l’aliquota contributiva come quella quota dei salari che dovrebbe essere versata nelle casse del fondo pensioni per mantenerlo in equilibrio nel lungo andare. Sappiamo invece che l’aliquota effettiva non è sempre stata quella d’equilibrio. Sappiamo inoltre che in alcuni paesi, in particolare l’Italia prima delle riforme Amato e Dini (e ancora adesso finché l’ultima riforma non va a regime), vi sono state disparità di trattamento previdenziale. Per un test convincente della teoria bisogna quindi aspettare analisi basate su dati individuali.
Alla luce della corsa al pensionamento anticipato da parte di alcuni, e a costosi “riscatti” e “ricongiungimenti” da parte di altri, verificatisi in Italia dopo l’annunzio dell’ultima riforma previdenziale, mi sembra però di poter escludere sin da ora l’ipotesi che il cittadino non si renda conto del legame fra contributi e trattamento previdenziale, o che non agisca di conseguenza. Non assumiamo quindi che i contributi previdenziali siano una tassa sul lavoro e non lasciamoci convincere troppo facilmente a smantellare la previdenza sociale.

(1) Cigno, A., “Is There a Social Security Tax Wedge?” IZA DP n. 1967, February 2006.
(2) Questo si può verificare nelle fasi iniziali di uno schema pensionistico a ripartizione, quando i primi pensionati ricevono una pensione pur non avendo pagato contributi per gran parte della propria vita attiva, nel qual caso il prezzo del regalo sarà pagato dalle generazioni successive, oppure in periodi di rapida crescita, quando il tasso di rendimento sostenibile è superiore al tasso d’interesse. In Italia hanno ricevuto sussidi impliciti le coorti nate fra il 1940 ed il 1945.

(3) Disney, R., “Are Contributions to Public Pension Programmes a Tax on Employment?” Economic Policy, July 2004, pp. 267-311

Decontribuzione: come e per chi?

Prodi si è impegnato a ridurre di cinque punti il cuneo fiscale nel primo anno di un suo eventuale Governo. Mancano ancora dettagli importanti sulla proposta, a partire dalle coperture e dalla platea di lavoratori a cui la decontribuzione dovrebbe essere applicata. L’analisi dei potenziali effetti della decontribuzione su competitività del paese, sistema previdenziale e finanza pubblica fa ritenere che l’intervento dovrebbe essere limitato solo ai percettori di bassi salari. Se così fosse, la manovra sarebbe interamente finanziabile con l’inasprimento della tassazione delle rendite finanziarie.

L’evasione fiscale, un problema “sociale”

L’indagine della Banca d’Italia dedica quest’anno un approfondimento agli atteggiamenti dei cittadini nei confronti delle imposte e, in particolare, dell’evasione fiscale. Dai risultati emerge l’indicazione che è necessario un rafforzamento dei controlli, in particolare su settori produttivi, tipologie di contribuenti e aree del paese dove maggiori sembrano le opportunità di evasione. Ma soprattutto va recuperato il carattere sociale del fenomeno di fronte alla percezione generalizzata di una mancanza di reciprocità tra tutti i cittadini verso gli obblighi fiscali.

Un’operazione trasparenza per gli studi di settore

Una modifica degli studi di settore è senz’altro opportuna. Deve però essere discussa apertamente, coinvolgendo oltre alle categorie l’opinione pubblica specializzata e gli esperti dei diversi settori. Un’operazione che potrà essere messa a punto solo se il prossimo Governo renderà pubblici i dati sull’andamento degli studi di settore dal 1998 al 2004. La discussione sulla riforma di questo fondamentale strumento di politica fiscale, potrà così partire da una base conoscitiva adeguata e condivisa.

Il fisco à la carte dei distretti

Le nuove agevolazioni fiscali sui distretti industriali rischiano di rivelarsi controproducenti invece di sostenere il rafforzamento delle imprese che vi operano. La norma sui distretti industriali contenuta nella Legge Finanziaria 2006 è stata presentata dal governo come una norma “fondamentale in termini di politica industriale”. In realtà, dopo i primi entusiasmi , la norma in questione sta suscitando dubbi e perplessità, soprattutto per la parte relativa alle agevolazioni fiscali. Sono leciti i dubbi che iniziano ad emergere? O le norme di agevolazione fiscale, al di là delle evidenti difficoltà di applicazione, potrebbero essere utili per risolvere i problemi dei distretti?

Due legislature, due sistemi di tax-benefit

Con un metodo di analisi molto semplice si possono verificare gli effetti sul reddito disponibile delle famiglie delle riforme attuate negli ultimi dieci anni. E’ possibile rintracciare una diversità nelle logiche di fondo che hanno ispirato le due esperienze di Governo: il centrosinistra è stato più attento al segno redistributivo delle riforme, concentrando le risorse a favore dei decili inferiori della distribuzione, mentre il centrodestra ha avuto come prioritario l’obiettivo della riduzione del carico fiscale, in modo percentualmente uniforme.

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