Ringraziamo tutti i lettori per i numerosi e interessanti commenti. Per brevità ci concentriamo solo su alcuni punti comuni a vari messaggi.
Lo stage, come lo intendiamo nel nostro articolo, non deve essere un’ulteriore aggiunta al panorama già molto complesso di contratti e "contrattini" disponibili alle imprese per avere accesso a manodopera a basso costo. Si tratta invece di uno strumento formativo che permette a giovani ancora nel sistema educativo o tutt’al più recentemente laureati di acquisire un’esperienza sul mercato del lavoro. La letteratura al riguardo mostra che la combinazione di studio e lavoro facilita la transizione al primo impiego dopo il diploma o la laura. Purtroppo però in Italia, come in altri paesi Europei, gli studenti spesso svolgono le due attività in modo sequenziale prima terminano gli studi e poi iniziano a lavorare con il risultato di presentarsi sul mercato del lavoro con poca
esperienza. Lo stage gestito secondo i criteri che suggeriamo nel nostro articolo potrebbe diventare uno strumento utile per rendere la transizione meno brusca.
Siamo coscienti che gli abusi della formula dello stage non verrebbero risolti automaticamente dalle nuove regole che proponiamo, anche se più chiarezza aiuterebbe a ridurli. D’altra parte, la necessità di una convenzione tra scuola/università e impresa avrebbe il vantaggio di responsabilizzare maggiormente il settore educativo nel certificare la qualità degli stages realizzati. D’altro canto potrebbe rafforzare il dialogo tra settore educativo e mondo dell’impresa. I controlli andrebbero rinforzati e bisognerebbe stabilire delle sanzioni per chi organizza "falsi" stages. Gli abusi non svanirebbero dall’oggi al domani ma sarebbero molto probabilmente meno frequenti che nella situazione attuale.
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Le Acli hanno elaborato un Piano nazionale contro la povertà che corregge gli aspetti negativi della social card. Si tratta di una misura universale a sostegno delle famiglie in povertà assoluta, anche straniere se con residenza valida in Italia. Prevede un adeguamento dell’importo mensile, graduato in base al costo della vita del territorio. Alle erogazioni monetarie affianca servizi alla persona. Affida ai comuni un ruolo di regia e coinvolge il terzo settore. Nel primo anno bastano 300 milioni per avviare un percorso che può cambiare strutturalmente il welfare italiano.
Per combattere la disoccupazione giovanile e i suoi duraturi effetti negativi servono riforme del mercato del lavoro e della formazione. Esiste però uno strumento che se usato correttamente potrebbe aiutare subito i diplomandi e i laureandi ad arrivare sul mercato del lavoro con un curriculum più adeguato: lo stage. Indispensabili, però, nuove regole. Per renderlo uno strumento riservato ai soli studenti o neolaureati, da utilizzare per un periodo di tempo limitato, con rimborso spese, tutor e progetto formativo.
In Italia le donne sono la maggioranza e la parte più istruita della popolazione, ma solo il 47 per cento ha oggi un lavoro. Sono sistematicamente discriminate anche sul piano dei guadagni. Ridotta al minimo la presenza femminile nei consigli di amministrazione. Il problema ha radici lontane, ma negli ultimi dieci anni la situazione è peggiorata rispetto a paesi simili a noi. Mentre i media hanno contribuito a diffondere una cultura che le umilia. Ecco perché le donne chiedono un cambiamento, adesso.
L’invito all’umiltà recentemente rivolto ai giovani italiani dal ministro Meloni è ingiusto e ingeneroso, ma anche sbagliato. Perché il limite maggiore del nostro sistema paese è proprio l’incapacità di valorizzare al meglio il capitale umano delle nuove generazioni. Inoltre siamo uno dei paesi che meno riducono gli svantaggi di partenza. E dove, di conseguenza, sul destino dei singoli pesano di più le risorse della famiglia di origine, indipendentemente dalle effettive capacità e potenzialità di ciascuno. Non è certo così che possiamo ottenere un’Italia migliore.
Il discorso del Presidente Napolitano e i dati recenti sul tasso di disoccupazione giovanile confermano ulteriormente, se ve ne fosse bisogno, che la condizione delle nuove generazioni italiane è diventata insostenibile. Era drammatica prima della crisi ed è ora ancor più peggiorata. Quasi nessun paese in Europa presenta tassi di occupazione dei giovani laureati under 30 più bassi dei nostri. Si potrà dar la colpa alle vecchie generazioni e alle loro scelte sbagliate, ma unulteriore riflessione va fatta. Gli ultimi due governi, Prodi e Berlusconi, hanno previsto un apposito ministero per le Politiche giovanili, guidato da persone anagraficamente molto prossime alle nuove generazioni. Ci si poteva aspettare scelte coraggiose, forti, di discontinuità rispetto al passato. Linizio di una stagione nuova, in grado di smantellare strutturalmente gli squilibri generazionali del nostro paese.
Ed invece nulla di nuovo sotto il sole. Tanta buona volontà sorretta da interventi occasionali e di impatto limitato. Poca cosa di fronte al drammatico degrado delle opportunità dei giovani, che si esplicita non solo negli alti tassi di disoccupazione, nella crescita di giovani immobili e sempre più dipendenti dai genitori, ma anche nel crescente abbandono del nostro paese. Non solo cervelli in fuga ma giovani in cerca di un ambiente più favorevole e equo.
In questa situazione, va riconosciuto che un dicastero per le politiche giovanili serve davvero a poco e può anzi essere controproducente. Non solo ha poche risorse ma rinforza anche il malinteso che i giovani siano una riserva indiana da tutelare. Mentre invece le riforme che servono alle nuove generazioni sono esattamente le stesse necessarie per lo sviluppo del paese, che lo rendono più dinamico e competitivo. Meglio allora abolire tale ministero, mentre molto più utile sarebbe istituire una sorta di autorità garante indipendente, che possa valutare e dare pareri vincolanti sullimpatto che le scelte pubbliche hanno sulle nuove generazioni.
L’andamento del tasso di irregolarità nel periodo 1980-2009 suggerisce che esistono elementi particolarmente resistenti alle politiche anti-sommerso. Perché sono fattori di natura strutturale. Ma se siamo di fronte a un tasso sistemico di sommerso, solo con politiche e riforme a spettro e durata altrettanto ampia si può sperare di ottenere risultati visibili e persistenti. Tuttavia, se l’intento è lo sradicamento del lavoro nero, allora lo strumento migliore è la realizzazione di una pubblica amministrazione onesta e funzionale.
I giovani sono il motore del cambiamento, ma in Italia hanno scarso peso e spazio. Come mostra anche un indice che permette di misurare il degiovanimento della società italiana e valutarne le implicazioni, coniugando aspetti demografici e di partecipazione politica potenziale. Classe dirigente che non si rinnova e accanimento nel mantenere a lungo le leve del potere potrebbero influenzare i più generali risultati negativi del paese. Per esempio, c’è una relazione positiva tra questo indicatore e quello che misura i livelli di transparency e accountability nei vari paesi.
Un buon funzionamento del mercato degli affitti è fondamentale per favorire l’integrazione degli immigrati. Quello italiano ha molti problemi: l’offerta è scarsa e mal distribuita sul territorio nazionale, i costi di transazione sono elevati. Ma non solo: una parte dei proprietari non è disposta a concedere una casa in affitto agli stranieri. La discriminazione è più intensa nell’Italia settentrionale, colpisce soprattutto gli uomini e meno le donne e più gli arabi rispetto a chi proviene dall’Europa dell’Est. Neanche la crisi economica riesce a eliminarla.
La risposta ai commenti
Di Paolo Balduzzi e Alessandro Rosina
il 13/12/2010
in Gender gap, Stato e istituzioni
Da sempre sono le nuove generazioni le forze più dinamiche di una società, quelle che producono innovazione e che sostengono con vigore le ragioni del cambiamento. Secondo la felice espressione del filosofo Walter Benjamin, la gioventù è “quel centro in cui nasce il nuovo”.
Il nostro articolo cerca di rispondere a due interrogativi: a) è vero che in Italia i giovani hanno meno peso e spazio?; e b) il minor peso e spazio delle nuove generazioni nella società italiana è legato alla scarsa capacità di crescita, innovazione, oltre che ai bassi livelli di accountability di partiti e istituzioni?
Per rispondere alla prima domanda abbiamo introdotto il concetto di “degiovanimento” e ci siamo posti il problema di rendere operativa la sua misura, anche al fine di confronti tra Paesi e intertemporali. È difficile invece dare risposte chiare e convincenti al secondo quesito. L’idea è che una società più chiusa, più orientata a mantenere il potere acquisito che ad investire sul cambiamento e sul futuro, darà meno spazio agli outsider (i giovani, ma anche le donne e gli immigrati). D’altro canto, una società nella quale le forze nuove e più dinamiche riescono a guadagnarsi meno spazio, tenderà a essere più rigida e conservatrice. Le relazioni causali sono complesse, perché il “degiovanimento”, come abbiamo scritto altrove, può essere allo stesso tempo causa e conseguenza della scarsa propensione all’innovazione e al cambiamento. Si pensi ad esempio ai giovani più dinamici che dal Sud se ne vanno verso il Nord: spinti da scarsi spazi e opportunità nella loro area di origine, cercano maggiori opportunità ma aumentano allo stesso tempo il “degiovanimento” di tali aree. Lo stesso vale per il brain drain italiano verso l’estero e la scarsa attrazione di giovani cervelli nel nostro Paese. Per questo abbiamo parlato in un precedente articolo di “spirale negativa” da spezzare.
Come spezzarla? L’idea è che restituire più peso ai giovani, quantomeno a livello degli altri Paesi, vada nella direzione giusta. Innanzitutto, eliminando i maggiori vincoli anagrafici previsti dalla nostra Costituzione. In secondo luogo, incentivando i giovani stessi ad essere più partecipativi e aggressivi nei confronti dello status quo. Se non sono gli stessi giovani a picconare i muri di un vecchio sistema che non funziona più, chi deve farlo?
Veniamo, infine, ad alcune risposte più specifiche. Concordiamo con il fatto che, con i giovani, anche donne e immigrati soffrono di un sistema bloccato. Giusto quindi valorizzare meglio il loro ruolo potenziale di innovatori, come abbiamo del resto già scritto in molte altre sedi. Partiti troppo chiusi e autoreferenziali? Certo, e infatti che non basta semplicemente “rottamare”. Il cambiamento deve riguardare più le teste che i volti. Serve un’apertura strutturale al cambiamento e alla società. Interessanti i suggerimenti su fuori sede e università, senz’altro da approfondire. Altri lettori suggeriscono variazioni istituzionali specifiche, in alternativa all’abbattimento delle barrire costituzionali. Innanzitutto, l’indice che proponiamo tiene conto di vincoli anagrafici di accesso ai diritti politici e struttura demografica di un Paese. La specifica legge elettorale adottata in un Paese è indipendente da tutto questo. Il valore dell’indice sarebbe identico sia con legge proporzionale pura sia con legge maggioritaria (più ogni tipo di variante). Tale indipendenza è una forza dell’indice, poiché rende anche possibile i confronti a livello internazionale. Per quanto riguarda inoltre il vincolo di mandato, esso esiste già, ma per i soli sindaci. Alcuni partiti, come il PD, hanno inserito il vincolo di mandato anche per altre cariche, tranne poi prevedere una serie ben numerosa di eccezioni. Il punto che teniamo a sottolineare è che la nostra proposta non richiede alcun tipo di “quote” per la popolazione giovane, bensì pari opportunità. Sarà poi l’elettorato stesso a decidere se un diciottenne, per esempio, merita di essere eletto oppure no. Riguardo infine alla correlazione tra degiovanimento e corruzione, rassicuriamo chi pensa che basti levare qualche outlier per farla saltare. Sui limiti interpretativi in senso causale abbiamo già detto. Inoltre, ovviamente, la corruzione è legata a molti fattori, quindi è del tutto ragionevole che la dispersione dei punti sia ampia. A chi parla impropriamente di “significatività” ricordiamo che qui non abbiamo a che fare con dati campionari e che la relazione studiata è di tipo descrittivo.