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Dietro le sbarre si perde il diritto alla salute

Otto anni fa un decreto legislativo prevedeva il passaggio della competenza sulla sanità nelle carceri dal ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale. Ma la sperimentazione non si è mai conclusa. E’ una questione di democrazia prima ancora che di costi. La tutela della salute delle persone recluse non può essere limitata da esigenze di sicurezza e confinata nei documenti di programmazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma deve procedere su un binario unitario insieme a quella del mondo libero .

Sette mesi dopo l’indulto

Il provvedimento ha quasi dimezzato le presenze nelle carceri italiane e riavvicinato le strutture a una dimensione di legalità. Ha segnato però la crisi dei rapporti fra il processo penale e il suo stesso scopo, che non si limita all’accertamento dei fatti, ma prevede l’esecuzione delle decisioni prese. Fra allarmi sociali ingiustificati e rinuncia a un intervento complessivo sul sistema delle pene e sul recupero della loro funzione costituzionale, l’indulto ci rimanda una politica che si condanna da sola a interventi emergenziali, che rinviano i problemi e sempre li aggravano.

Una rosa piena di spine

Sette proposte di legge per introdurre anche in Italia la class action. Che però non sembra essere lo strumento giusto per il diritto antitust. Appare eccessiva se l’obiettivo è accrescere la funzione deterrente delle sanzioni dell’Agcm. Se invece si vogliono dare ai privati gli incentivi e gli strumenti concreti per contrastare comportamenti anticoncorrenziali attraverso la giustizia civile, andrebbero affrontati i nodi del costo dell’indagine e della raccolta di prove. Mentre ai giudici spetterebbe il non molto congeniale ruolo di registi delle cause.

La class action all’italiana non aumenta la responsabilità dei produttori

Negli Stati Uniti le azioni collettive svolgono un ruolo molto importante per il risarcimento di danni causati da prodotti difettosi e fondate sulla responsabilità civile dei produttori. Basterà una legge sulle class action per diffondere anche in Italia una simile tradizione? Probabilmente no. Perché il regime di responsabilità oggettiva è stato introdotto in Europa nel 1985, ma raramente vi si è fatto ricorso. E restano notevoli le differenze con gli Usa nelle garanzie offerte dallo Stato sociale e nel costo di accesso alla giustizia.

Così l’efficienza entra in tribunale

Adottando un semplice decalogo, il tribunale di Torino ha aumentato in modo notevole la produttività. A parità di risorse e organico. Se tutti i tribunali italiani avessero fatto altrettanto, il numero di giorni medio per un giudizio di primo grado nelle cause di contenzioso civile sarebbe sceso da 1007 giorni nel 2001 a 769 giorni nel 2005. La situazione della nostra giustizia può dunque migliorare decisamente se funzionari di vertice motivati esercitano effettivamente i loro poteri direttivi. E se la cooperazione di tutto lo staff è stimolata da adeguati incentivi.

Alla previdenza complementare serve autodisciplina

Undici milioni di lavoratori sono chiamati a decidere sulla destinazione del loro Tfr. Una scelta complessa per diversi motivi. Alla previdenza complementare spetta infatti il compito di compensare il minore livello di copertura fornito dal pilastro pubblico obbligatorio. Utile guardare all’esperienza degli Stati Uniti. Ma ancor di più sarebbe auspicabile il varo di un codice di autodisciplina volto a dettare norme di comportamento omogenee e tutti i soggetti che sollecitano l’adesione ai fondi pensione dovrebbero impegnarsi a osservarle.

Riforma dell’ordinamento giudiziario, la storia infinita

Il Parlamento ha approvato la sospensione di buona parte della riforma Castelli. Tuttavia, alcune idee di quella legge non vanno abbandonate. La separazione delle carriere va realizzata, anche se gradualmente. E va migliorato il controllo sulla professionalità dei magistrati, pur senza interferire con la loro indipendenza. Il sistema migliore potrebbe essere quello di intervenire sulla formazione iniziale, scuola della magistratura compresa. Altrimenti, difficilmente sarà possibile migliorare il rendimento della nostra giustizia.

Se la giustizia non aiuta le imprese

L’inefficienza della giustizia civile in Italia rappresenta uno dei fattori di contesto che limitano competitività e capacità di crescita del paese. Ha effetti negativi sui mercati finanziari perché induce tassi di interesse più elevati e minore disponibilità di credito. Influisce sulla nascita e sulla dimensione delle aziende perché rappresenta una barriera all’ingresso e disincentiva gli investimenti. Come conferma un confronto tra le diverse province italiane. Si spiega anche così il nanismo delle nostre imprese nel panorama internazionale.

Non fa una bella figura l’Italia in tribunale

La radice dell’inefficienza della nostra macchina giudiziaria non è nella carenza di risorse destinate al settore. La spesa pubblica dovrebbe essere razionalizzata, non aumentata. Alcuni segnali positivi vengono dalla riorganizzazione generale dei tribunali. Mentre restano tutti gli incentivi al processo lungo, che indebolisce la forza contrattuale della parte che ha ragione. La soluzione più efficace sarebbe stabilire un compenso a forfait per gli avvocati. Ma anche le novità introdotte dal decreto Bersani rischiano di essere presto vanificate.

E per le controversie “un’alternativa” rischiosa

Per arginare la crisi della giustizia civile in molti paesi occidentali si guarda con interesse ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie. In Inghilterra, per esempio, anche chi ha ragione può essere condannato a pagare le spese processuali se ha rifiutato transazioni ragionevoli prima o durante il processo. Giusto introdurre simili meccanismi nel nostro ordinamento? Vista la lunghezza dei processi italiani, c’è il rischio di rafforzare l’attuale deprecabile situazione per cui è molto più vantaggiosa la posizione di chi ha torto.

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