Il pezzo ha suscitato qualche reazione, soprattutto da parte di esperti nel campo. Curiosamente, le reazioni sono di segno opposto, dagli amici “federalisti” (Alessandro Petretto) che mi accusano di aver ceduto sul principio della capacità fiscale; alla risposta piccata, per la ragione contraria, del presidente della Svimez, che ringrazio comunque per l’attenzione. Ma resto della mia opinione. Per le seguenti ragioni.
Primo, non esiste Paese, federale o meno, in cui l’offerta di servizi attinenti diritti fondamentali di cittadinanza –sanità , istruzione, certe componenti del welfare, etc.- siano delegati per intero alla sovranità i governi sub-centrali. Ovunque, il governo federale interviene in qualche misura, o con l’introduzione di standard nazionali o con il potere della borsa o con tutti e due. Fissare gli standard significa anche garantirne il finanziamento; e in un Paese duale, con bisogni differenziati, ci pone il principio del fabbisogno o della “spesa necessaria”. Certo, dipende anche da dove è collocata l’asticella. Se gli standard fossero veramente minimi, allora forse anche il principio della capacità fiscale potrebbe essere sufficiente. Ma non sono sicuro si tratti di una soluzione praticabile o auspicabile per il Paese. La soluzione di Bruno De Leo (spesa storica oggi, perequazione domani al Pil), mentre interessante sul piano pratico, rimanda solo il problema, perché capacità fiscale e Pil sono strettamente correlati.
Secondo, esiste una tensione inevitabile tra fissazione degli standard al centro e autonomia dei governi locali. Si può cerrcare di mitigarla, ma resta. So anch’io che in teoria regioni e enti locali possono esercitare la propria autonomia in aggiunta e a latere della spesa necessaria; ma visto l’abitudine inveterata dello Stato italiano di fissare gli standard in termini di input, piuttosto che di output, temo assai le conseguenze per l’autonomia territoriale di un’ interpretazione universale del principio per fabbisogni. Meglio limitarlo ai servizi davvero essenziali. Per gli altri, la spesa “necessaria” è semplicemente la capacità potenziale di spesa garantita dalle risorse proprie e dalla perequazione per capacità fiscale. Questo, naturalmente, non significa che lo Stato centrale non debba al contrario concentrare i propri sforzi, anche sul piano finanziario, a vantaggio dei territori dove minore è la presenza dei beni pubblici fondamentali che lo Stato stesso deve garantire: principalmente, sicurezza e infrastrutture di base. Terzo, i potenziali vantaggi del federalismo stanno tutti nella differenziazione: la possibilità di diversificare i servizi sul territorio sulla base di esigenze locali, finanziandoli al margine con tributi propri allo scopo di rendere responsabili i politici nei confronti dei propri elettori (pago, controllo, esigo). Se invece si vuole l’uniformità dei servizi, meglio centralizzare. Dire che la nostra Costituzione implica “il principio dell’uguaglianza dei cittadini dovunque risiedano”, e interpretare questo principio come riferito, non solo ai servizi fondamentali, su cui ovviamente concordo, ma alla totalità dei servizi offerti dagli enti territoriali di governo, come fa il presidente della Svimez, significa negare a priori la possibilità del federalismo. Dubito molto che questa fosse l’intenzione dei legislatori costituenti del 2001 e della maggioranza dei cittadini italiani che hanno votato a favore di questa proposta di revisione costituzionale.