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Categoria: Stato e istituzioni Pagina 78 di 89

UN VOTO ALTERNATIVO PER L’ITALIA

E’ il sistema usato dagli australiani per eleggere la Camera dei Deputati e dagli irlandesi per eleggere il presidente della repubblica. E’ un maggioritario, ma all’elettore si chiede di mettere in ordine di preferenza i diversi candidati. Evita la dipendenza dalle alleanze pre-elettorali. Aiuta l’emergere di due blocchi, anche se non necessariamente di due partiti. Favorisce i partiti maggiori e quelli geograficamente concentrati. Dunque, in questa legislatura, e forse solo in questa, è una riforma che si può fare.

I CONTI CON LA BOZZA CALDEROLI

L’attuazione del federalismo fiscale non può prescindere dal problema della perequazione interregionale, per i forti divari territoriali del nostro paese. Qual è la posizione della proposta Calderoli sul tema? E’ ancora troppo vaga per dirlo con precisione. Ma le stime suggeriscono che alcune Regioni potrebbero soffrire perdite non irrilevanti, mentre altre avere risorse in eccesso. E’ perciò cruciale indicare regole chiare per la redistribuzione e definire un periodo di transizione. E affrontare la questione delle Regioni a statuto speciale.

RICETTE DI BUON FEDERALISMO

Al di là dei problemi di metodo e di merito della proposta di federalismo fiscale della Lombardia, alcune questioni sono imprescindibili. La spesa statale da devolvere alle regioni è localizzata soprattutto nel Sud, mentre le risorse sono prevalentemente al Centro-Nord. Qualunque ricetta di federalismo dovrebbe perciò riavvicinare nel medio periodo i livelli di spesa a quelli delle entrate regionali; garantire a tutte le regioni le risorse necessarie per i servizi fondamentali; introdurre sistemi di controllo per premiare le capacità gestionali territoriali.

COME FARE LE RIFORME ED ESSERE RIELETTI

I politici europei temono che procedere sulla strada delle riforme strutturali significhi perdere le elezioni successive. E’ una paura infondata. Perché i benefici che ne derivano per famiglie e imprese possono essere anticipati da mercati finanziari ben funzionanti, riducendo così l’opposizione. I dati mostrano che di tutti i governi riconfermati dopo aver varato una riforma, il 65 per cento era a capo di una nazione con una regolamentazione pro-competitiva dei mercati finanziari. Diventano poi più facili gli interventi sui mercati dei prodotti e del lavoro.

UN COLPO ALL’INDIPENDENZA DELLE AUTORITÀ

L’economia vacilla sotto l’effetto di uno shock petrolifero di dimensioni impensate e i mercati più che mai avrebbero bisogno di punti di riferimento. Ma il governo non esita a cambiare in corsa l’intera Autorità di regolazione dell’energia, per scopi futili, introducendo ulteriori elementi di incertezza in operatori e consumatori. La legge è molto attenta a garantire l’indipendenza delle Authority, non solo dagli operatori economici dei settori regolati, ma anche dalla politica. E la certezza della durata in carica dei componenti ne è il prerequisito.

BLOCCHI LOCALI

Si torna a parlare di un nuovo blocco dei tributi locali. Che dovrebbe preludere al vero federalismo fiscale. Come nel 2002. Questa volta con l’aggravante dell’eliminazione dell’Ici sulla prima casa, l’unico tributo proprio che i comuni abbiano mai avuto. Il governo vuole così frenare la spesa locale. Un’intenzione comprensibile. Ma nel 2003-2006 non è andata così. E potrebbe peggiorare il rating di Regioni e comuni, mettendo in crisi quelli più indebitati.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

I numerosi commentatori si sono espressi  in maggioranza in termini favorevoli alle mie tesi. Ne sono confortato, anche perché  tra di essi stanno noti studiosi della materia come il prof. Petretto e il prof. Tramontana. Il commento di Petretto va sottolineato. Esso ricorda, a ulteriore sostegno, che l’efficienza economica induce a privilegiare le imposte caratterizzate da bassa reattività dei contribuenti , come appunto l’ICI, rispetto alle probabili imposte sostitutive che colpiscono i  redditi e i  consumi e  generano contrazioni dell’imponibile  e distorsioni nell’economia.
Ma veniamo ai commenti sfavorevoli. Alcuni contestano l’equità di un’imposta  su un patrimonio improduttivo qual è l’abitazione propria, affermando che solo l’imposta sul reddito o sul consumo è equa. La replica è che, come ampiamente noto, il reddito figurativo della residenza è tassabile quanto il reddito monetario dell’edificio locato; e questo incontestato principio tributario non è intaccato dalle possibili agevolazioni che si vogliano concedere, magari per finalità extratributarie ( diffusione della proprietà  a scopo di stabilizzazione sociale). Occorre poi ricordare che l’ICI sulla prima casa, mentre appare compatibile con il criterio della capacità contributiva,  è in ogni caso ampiamente  giustificata nella finanza locale dal criterio del beneficio.
Un altro commento invoca il ritorno alla vecchia imposta locale sul reddito ( Ilor, abolita nel 1998). A prescindere dai problemi applicativi di tale imposta nella sua configurazione effettiva, che a dispetto del nome la condannarono ad essere unÂ’imposta erariale, va detto che per la casa di abitazione lÂ’Ilor, depurata dalle esenzioni temporanee concesse sugli immobili di nuova costruzione, sarebbe del tutto equivalente allÂ’Ici.
Più fondamento teorico avrebbe l’ipotesi, avanzata in altro  commento, di ripristinare l’Invim, che tuttavia, per vari motivi non analizzabili in questa sede, è improponibile  nell’attuale contesto.
In termini  più aderenti alla situazione presente, viene da alcuni invocato un inasprimento dell’Ici sullo sfitto a compenso del gettito perduto con l’abolizione dell’Ici sulla prima casa. Incidentalmente va osservato  che non è  affatto ovvio il fondamento etico  della penalizzazione dello sfitto (bisognerebbe chiedersi perché il proprietario rinuncia al guadagno della locazione); ma  ai fini del tema in discussione basta sottolineare la vistosa differenza  tra i due imponibili, quello delle case sfitte e quello delle prime case, per concludere  che non c’è possibilità che un inasprimento sul primo compensi la scomparsa del secondo.
Su altro piano è stato sostenuto che si può configurare  una manovra sull’Irpef  tale da rendere il prelievo più progressivo rispetto all’attuale sistema con l’Ici. E’ tesi astrattamente  valida, ma non si tratta di configurare possibili combinazioni aritmetiche , bensì di ragionare  sulle probabili manovre di questo  governo dal lato delle entrate e su quello delle spese; e allora resta  valida la mia tesi che non ci si deve aspettare alcun guadagno in termini di efficienza o equità. Senza contare che simili esercizi  non intaccano comunque le ragioni del federalismo che militano a favore dell’Ici.
Termino riconoscendo molto lucida l’osservazione di Mario Data sui possibili guasti provocati dall’Ici sulla politica urbanistica. La tesi, che  anch’io avevo avanzato su queste colonne, è che i comuni,  in perenne crisi finanziaria, sono tentati di svendere il territorio e “ cementificare l’impossibile” per incassare in futuro l’Ici ( in aggiunta  all’incasso immediato degli oneri di urbanizzazione e costruzione). Ma la soluzione sta nel garantire  una più efficace tutela  del territorio e un maggiore ruolo delle compartecipazioni comunali al gettito delle  imposte erariali, non già nell’abolire l’Ici sulla prima casa.

MASSIMA SPESA, MINIMA RESA?

L’indennità dei parlamentari italiani è fino a quattro volte superiore al reddito annuale di un manager del settore privato. E i redditi totali dei deputati nel primo anno alla Camera aumentano in media del 77 per cento. A questo si somma il reddito di eventuali attività professionali esterne: in media un ulteriore 38 per cento dell’indennità. Ma le stime suggeriscono che 10mila euro di reddito guadagnato in attività al di fuori del Parlamento riducono il tasso di partecipazione del parlamentare dell’1 per cento. Nasce da qui la proposta di abolire la possibilità di cumulo.

ANCORA LUNGA LA MARCIA DEL FEDERALISMO FISCALE

Nonostante la vittoria della Lega, il percorso del federalismo fiscale è ancora in salita. Le due questioni fondamentali dei rapporti Nord-Sud e Regioni-enti locali sono lontane da soluzioni condivise e minacciano di creare spaccature all’interno di maggioranza e opposizione. Non basta il generico invito all’accordo bipartisan. Occorre individuare una ricomposizione di forze che sfrutti le componenti federaliste delle due parti, pur rispettando il vincolo di non creare pericoli al governo. Non è un risultato facile da raggiungere e richiede fantasia, anche sul piano procedurale.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Il pezzo ha suscitato qualche reazione, soprattutto da parte di esperti nel campo. Curiosamente, le reazioni sono di segno opposto, dagli amici “federalisti” (Alessandro Petretto) che mi accusano di aver ceduto sul principio della capacità fiscale; alla risposta piccata, per la ragione contraria, del presidente della Svimez, che ringrazio comunque per l’attenzione. Ma resto della mia opinione. Per le seguenti ragioni.
Primo, non esiste Paese, federale o meno, in cui l’offerta di servizi attinenti diritti fondamentali di cittadinanza –sanità, istruzione, certe componenti del welfare, etc.- siano delegati per intero alla sovranità i governi sub-centrali. Ovunque, il governo federale interviene in qualche misura, o con l’introduzione di standard nazionali o con il potere della borsa o con tutti e due. Fissare gli standard significa anche garantirne il finanziamento; e in un Paese duale, con bisogni differenziati, ci pone il principio del fabbisogno o della “spesa necessaria”. Certo, dipende anche da dove è collocata l’asticella. Se gli standard fossero veramente minimi, allora forse anche il principio della capacità fiscale potrebbe essere sufficiente. Ma non sono sicuro si tratti di una soluzione praticabile o auspicabile per il Paese. La soluzione di Bruno De Leo (spesa storica oggi, perequazione domani al Pil), mentre interessante sul piano pratico, rimanda solo il problema, perché capacità fiscale e Pil sono strettamente correlati.
Secondo, esiste una tensione inevitabile tra fissazione degli standard al centro e autonomia dei governi locali. Si può cerrcare di mitigarla, ma resta. So anch’io che in teoria regioni e enti locali possono esercitare la propria autonomia in aggiunta e a latere della spesa necessaria; ma visto l’abitudine inveterata dello Stato italiano di fissare gli standard in termini di input, piuttosto che di output, temo assai le conseguenze per l’autonomia territoriale di un’ interpretazione universale del principio per fabbisogni. Meglio limitarlo ai servizi davvero essenziali. Per gli altri, la spesa “necessaria” è semplicemente la capacità potenziale di spesa garantita dalle risorse proprie e dalla perequazione per capacità fiscale. Questo, naturalmente, non significa che lo Stato centrale non debba al contrario concentrare i propri sforzi, anche sul piano finanziario, a vantaggio dei territori dove minore è la presenza dei beni pubblici fondamentali che lo Stato stesso deve garantire: principalmente, sicurezza e infrastrutture di base. Terzo, i potenziali vantaggi del federalismo stanno tutti nella differenziazione: la possibilità di diversificare i servizi sul territorio sulla base di esigenze locali, finanziandoli al margine con tributi propri allo scopo di rendere responsabili i politici nei confronti dei propri elettori (pago, controllo, esigo). Se invece si vuole l’uniformità dei servizi, meglio centralizzare. Dire che la nostra Costituzione implica “il principio dell’uguaglianza dei cittadini dovunque risiedano”, e interpretare questo principio come riferito, non solo ai servizi fondamentali, su cui ovviamente concordo, ma alla totalità dei servizi offerti dagli enti territoriali di governo, come fa il presidente della Svimez, significa negare a priori la possibilità del federalismo. Dubito molto che questa fosse l’intenzione dei legislatori costituenti del 2001 e della maggioranza dei cittadini italiani che hanno votato a favore di questa proposta di revisione costituzionale.

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