In occasione della festa dei lavoratori si è tornato a parlarne. Ma sulle morti bianche si dicono e scrivono una marea di ipocrisie. E’ un problema di lunga data del nostro paese, non un’emergenza degli ultimi giorni. Affrontarlo con nuove leggi non serve, perché nasce dalla disapplicazione delle leggi già in vigore, peraltro allineate a quelle di paesi con il numero più basso di incidenti mortali sul lavoro. Se il sindacato non si fosse opposto a suo tempo alla riconversione del personale del collocamento, avremmo ora un corpo di ispettori del lavoro in grado di effettuare molti più controlli. Si è ancora in tempo di farlo, basta che il sindacato lo consenta.
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La stima del numero dei precari non è semplice. Ma se adottiamo una definizione “operativa”, che includa i lavoratori a termine involontari, i collaboratori con forti indizi di subordinazione e gli individui non più occupati perché hanno concluso un contratto temporaneo e che tuttavia sono ancora sul mercato del lavoro, possiamo calcolare che la precarietà coinvolge in Italia 3.757.000 persone, e una su quattro non è occupata. Con un’incidenza sul totale dell’occupazione del 12,2 per cento.
Le aspettative di vita sono significativamente diverse a seconda della classe socio-economica e del tipo di lavoro prevalentemente svolto. Su tali differenze si potrebbero definire in maniera non arbitraria i lavori usuranti e arrivare a una suddivisione delle professioni in tre classi. Di cui tener conto quando si discute di requisiti di ammissibilità, che nella logica contributiva non dovrebbero modificare l’equità attuariale del sistema. Ma anche quando si parla di coefficienti di trasformazione, che invece su questa hanno un impatto diretto
A prima vista, sembra che in Italia e in genere nel Sud Europa, le donne godano di una maggiore parità retributiva rispetto agli uomini. Ma dove le differenze salariali sono elevate, come in Usa e Regno Unito, i differenziali nei tassi di occupazione sono fra i più bassi dei paesi Ocse. Perché il vantaggio delle italiane è solo apparente e scompare quando si tiene conto del problema della selezione nella forza lavoro. Da approfondire il ruolo delle norme di comportamento sociale e dei pregiudizi verso la domanda e l’offerta di lavoro femminile.
Le differenze di genere nei tassi di crescita salariale sono legate a fenomeni di mobilità “volontaria”. Forse perché le donne decidono di muoversi verso imprese più grandi per motivi diversi dalla retribuzione, come la maggiore protezione o la flessibilità nell’orario di lavoro. Nelle politiche del lavoro è necessario considerare questo aspetto e sviluppare misure di supporto che permettano di conciliare vita lavorativa e familiare senza per questo rinunciare alla realizzazione professionale.
NellUnione Europea si inaspriscono le differenze tra cittadini e stranieri residenti e tra stranieri di diversa qualità. Gli svantaggi riservati agli stranieri variano non solo a seconda delle categorie, ma anche nel tempo, in seguito a fenomeni come le pressioni dei flussi non programmati. Le frontiere (ri)diventano più selettive e si spostano e si spostano aggravando i disequilibri.
Nel suo ultimo articolo su lavoce.info, Carlo DellAringa ha sostenuto che la valutazione individuale dei lavoratori pubblici non serve perché i consumatori sono interessati al buon funzionamento complessivo degli uffici, non al comportamento dei singoli lavoratori che in essi operano. Dissento da questa affermazione per almeno due motivi.
I tempi dei giudici di pace
In primo luogo, è evidente che il buon funzionamento di un determinato servizio pubblico non è indipendente dalla produttività dei singoli lavoratori che in esso operano. Lo dimostra una ricerca a cui sto lavorando insieme a Decio Coviello e Francesco Contini sulla durata dei processi nellUfficio dei giudici di pace di una media città italiana. (1)
Questo Ufficio assegna i processi ai giudici in modo totalmente casuale. Ne consegue che i giudici hanno lo stesso carico di lavoro in termini di qualità e quantità. Sono inoltre assistiti dalla stessa cancelleria e operano nella stessa struttura. Ciò nonostante, prendendo ad esempio i casi di cognizione ordinaria, la durata mediana dei processi assegnati al giudice più lento è circa due volte e mezzo maggiore di quella corrispondente al giudice più veloce. Inoltre nellevento ipotetico in cui tutti i casi fossero assegnati a giudici con una produttività pari a quella del 25 per cento migliore, la durata mediana dei processi in questo ufficio si ridurrebbe di quasi il 40 per cento (tutte queste differenze sono statisticamente significative).
Il cittadino che si rivolge allUfficio non può scegliere il giudice, ma non per questo dovrebbe disinteressarsi della produttività individuale dei singoli magistrati, poiché da questa può dipendere, in valore atteso, un miglioramento considerevole del servizio ricevuto. Inoltre non sembra accettabile che il cittadino sia messo di fronte a una roulette russa tale per cui la variazione di qualità del servizio ottenuto può arrivare fino a due volte e mezzo a seconda di quale giudice sia assegnato al suo caso. I risultati dimostrano che se nellUfficio operassero solo i giudici migliori o se i meno produttivi fossero stati indotti a lavorare di più con opportuni incentivi, la performance dellintero ufficio sarebbe migliorata. Per fare entrambe queste cose, la valutazione individuale dei lavoratori è essenziale, proprio a vantaggio dei singoli utenti.
La responsabilità del singolo
In secondo luogo, laffermazione di Carlo DellAringa è particolarmente pericolosa se induce a sollevare i singoli lavoratori dal sentirsi responsabili del funzionamento complessivo del servizio pubblico in cui operano. Quando qualcosa non funziona in Italia, nessuno si sente mai responsabile individualmente: la colpa è sempre di qualcun altro o di qualcosa daltro. Spesso la mancanza di risorse è il capro espiatorio a cui viene addebitato ogni mal funzionamento. La valutazione individuale ha anche la funzione educativa di diffondere nel nostro paese letica della responsabilità individuale. Ma questo non tanto per un motivo di equità nellattribuzione di colpe e meriti, quanto soprattutto per un motivo di efficienza. I risultati della ricerca sui giudici suggeriscono che investire maggiori risorse in un servizio in cui la produttività dei singoli lavoratori sia così disomogenea porta ragionevolmente a sprecare parte delle risorse aggiuntive, combinandole con lavoratori che finirebbero per usarle male. Per non sprecare le risorse aggiuntive bisogna prima rendere più omogenea la produttività dei lavoratori di ciascun servizio portando i peggiori ad avvicinarsi ai migliori. Anche per questo è necessaria la valutazione individuale.
Detto questo, la valutazione individuale dei lavoratori, che peraltro è prassi indiscussa nel privato, non è certamente la soluzione di tutti i problemi del settore pubblico, ma sembra difficile sostenere che non sia cosa di primaria importanza proprio a vantaggio degli utenti.
(1) La versione corrente, non definitiva, dei risultati di questa ricerca può essere scaricata da http://www2.dse.unibo.it/ichino/.
Nel 1992, di fronte alle degenerazioni di Tangentopoli e per evitare la catastrofe economica di un ingente disavanzo pubblico, il governo Amato ha ottenuto dal Parlamento la delega per realizzare quattro riforme, nei settori ritenuti (allora come oggi) causa del disavanzo: previdenza, sanità, finanza locale, pubblica amministrazione. Il ruolo dei nuclei di valutazione La riforma della Pa è stata fondata su un principio forte: riservare agli organi politici le funzioni di indirizzo e di controllo e affidare alle strutture operative la gestione delle risorse, lorganizzazione delle attività e la responsabilità dei risultati. I rapporti con gli enti locali Un secondo punto su cui riflettere è come riuscire a trasferire a livello degli enti pubblici territoriali i principi del progetto di legge, senza suscitare reazioni. Pur essendo semanticamente corretto scrivere che gli enti locali sono tenuti ad adeguare i propri ordinamenti alle disposizioni della legge delega e dei decreti legislativi, il termine “disposizioni” suscita il sospetto di dover riproporre modalità operative decise centralmente. Forse sarebbe meglio dire che essi debbono adeguare i propri ordinamenti “ai principi e alle finalità” della legge delega. La verifica di attuazione va condotta sullelemento sostanziale del conseguimento dello scopo voluto dalla legge, più che sui modi di come farlo. Il caso delle Asl Il terzo punto di riflessione riguarda la particolare situazione delle aziende sanitarie locali. In quanto strutture aziendali sanitarie esse debbono applicare la riforma sanitaria del 1992 (decreto legislativo 502/92) e successivi aggiornamenti. In quanto strutture pubbliche esse sono tenute ad applicare la riforma della Pa del 1993 (Dlgs 29/93) e successivi aggiornamenti.
Sono state introdotte, per il personale, consistenti incentivazioni economiche, ancorate, però, a metodiche di garanzia, ricomprese nel sistema dei controlli. La distribuzione degli incentivi è stata correlata a specifici sistemi di valutazione da negoziare con le organizzazioni sindacali. Per elaborare i criteri e applicarli al personale dipendente, il decreto legislativo 286/99 ha previsto la costituzione di appositi nuclei di valutazione.
Lesperienza maturata consente di affermare che i nuclei di valutazione possono svolgere questo ruolo in maniera coerente con gli scopi della riforma solo se hanno libertà di operare in maniera indipendente, come soggetti terzi tra gli organi politici e le strutture operative; non subiscono interferenze o condizionamenti da parte degli organi politici e, quindi, se vengono nominati con procedure pubbliche trasparenti; e se di essi non fanno parte dipendenti dellente pubblico, per evitare lanomalia del valutato-valutatore.
Nella pratica avviene che le nomine siano spesso di tipo discrezionale, nello spirito dello spoils system; che il direttore generale o dirigenti dellente locale vengano cooptati nel nucleo; che gli organi politici esorbitino dalle funzioni di indirizzo per condizionare aspetti gestionali di competenza della dirigenza tecnica e che le disfunzioni dei servizi operativi dipendano spesso da criticità di sistema, non adeguatamente risolte a monte dagli organi politici.
Non sarà male, allora, riflettere che la produttività da misurare non è solo quella del pubblico impiego, ma quella complessiva dellente pubblico e che, quando si parla di pubblica amministrazione bisogna riferirsi allinsieme strutturale “organi politici + strutture operative”.
Il progetto di legge per la costituzione dellAutorità sul pubblico impiego dovrebbe garantire perciò che i nuclei di valutazione, nel valutare il rendimento dei dipendenti, siano tenuti anche a indicare le disfunzioni di sistema attribuibili a monte agli organi politici, e che tali segnalazioni vengano doverosamente rivolte ai soggetti politici, perché provvedano a mettervi rimedio, ma raggiungano anche lAutorità, la pubblica opinione locale e quanti sulla Pa studiano e ricercano.
Le indicazioni di principio del Dlgs 286/99 non hanno prodotto risultati sempre in linea con le finalità che si vogliono perseguire. Ecco allora la necessità di far assurgere a principio della legge delega laffermazione che per assicurare la terzietà e lautonomia dei nuclei di valutazione, la loro costituzione va garantita con procedure pubbliche trasparenti e la loro composizione non può prevedere la presenza di soggetti politici o di personale dellente locale in cui il nucleo deve operare. Si tratta di due condizioni oggettive che è possibile verificare in concreto.
Quanto alle attività diniziativa dellAutorità, di cui alle lettere f) e seguenti dellarticolo 2, si ha motivo di ritenere che la sola struttura centrale possa essere insufficiente per una mole così ampia di compiti. Per questo va valutata la possibilità di porre a supporto dellAutorità, presso le prefetture, una rete di piccoli comitati di esperti locali che mantengano, nellambito provinciale, rapporti di collaborazione con i nuclei già costituiti; che svolgano funzioni di promozione e di supporto agli enti pubblici che ne sono sprovvisti e che operino da collettori delle informazioni necessarie allAutorità centrale.
In base alla riforma sanitaria, le Asl ricevono gli indirizzi da un organo politico locale costituito dalla “Conferenza dei sindaci” (quando la Asl è sovracomunale), dal sindaco o dallorgano circoscrizionale (quando lAsl è comunale o intracomunale). Infatti, sono questi organi politici che, in forza della legittimazione elettorale, hanno titolarità per esprimere i bisogni delle popolazioni amministrate. Ed è a essi che le Asl sono tenute annualmente a riferire, in pubbliche conferenze di servizio, sulle attività svolte e sui risultati conseguiti (articolo 14 Dlgs 502/92).
In quanto enti pubblici, le Asl debbono, però, conformarsi anche al sistema dei controlli di cui al Dlgs 286/99, comprensivo della attivazione di specifici nuclei di valutazione.
Lanomalia è che nella pratica i nuclei di valutazione delle Asl rispondono al direttore generale o riferiscono direttamente alla Regione. Nel primo caso si vulnera il principio che il direttore generale, essendo esso stesso soggetto di valutazione, non può rivestire contemporaneamente il ruolo di valutatore finale. Nel secondo caso, oltre a potenziarsi il neocentralismo regionale, si verifica lanomalia che un soggetto di programmazione, quale è la Regione, svolge in concreto funzioni di gestione, esautorando i legittimi organi politici locali.
Occorre fare esplicita menzione nella legge delega di questa peculiarità delle Asl, per poter correggere le anomalie che ne derivano nei decreti legislativi di attuazione.
La proposta di istituire una Authority sul pubblico impiego, avanzata da Pietro Ichino, ha sollevato un importante dibattito, sia in sede scientifica, sia in sede politica. Compito di queste brevi note è di proporre ulteriori elementi di discussione su alcuni aspetti tecnici. Affermazioni di buon senso ed evidenza empirica Che nella Pa italiana vi siano diffusi problemi di inefficienza è opinione comune ed esperienza diffusa: tutti, in qualche modo, siamo cittadini utenti di pubblici servizi. Questa sensazione condivisa di cattivo funzionamento diventa stridente, poi, ogniqualvolta ci si trovi a confrontare la nostra situazione con i migliori esempi europei, dal “mito” della burocrazia francese, ai servizi infrastrutturali tedeschi, al welfare nord-europeo, e così via. · linefficienza della Pa italiana: quanta ce nè e in rapporto a quale benchmark, come si manifesta, dove si annida in particolare, quando si verifica; Nel dibattito su lavoce.info lesistenza di problemi di misurazione dellefficienza dei pubblici servizi è già stata sollevata, ma la questione va approfondita ulteriormente. Problemi di misurazione La misurazione dellefficienza nel caso della produzione di attività burocratico-amministrative e di beni e servizi pubblici non è resa difficoltosa solo dallassenza di prezzi di mercato che consentano di valutare il valore effettivo della produzione. Anzi, allo stato attuale delle tecniche, questo è probabilmente un aspetto in parte superato. Sono ormai ampiamente sperimentati in letteratura metodi di misurazione dellefficienza relativa che considerano loutput in termini fisici, come la Data Envelopment Analysis o il metodo delle frontiere stocastiche. Per le attività prettamente amministrative, in verità, rimangono specifiche difficoltà di definizione e misurazione delloutput, anche in termini fisici e un tentativo di risolvere tale questione è stato quello, applicato in passato nella Pa italiana, basato sui carichi di lavoro. Solo casi eclatanti? Ma è proprio questo il problema di misurazione più arduo da risolvere. Non solo mancano tecniche sperimentate, ma diventa soprattutto difficile avere una base di dati attendibile sulla produttività del singolo lavoratore pubblico perché intervengono i noti problemi di asimmetria informativa e altre questioni, già toccate dallintervento di Daveri. * Queste note sono state predisposte da ricercatori attualmente impegnati nel progetto di ricerca Sisper (http://sisper.istat.it), finanziato dal Dipartimento della Funzione pubblica e in corso di svolgimento presso lIstat. Le opinioni sono espresse a titolo puramente personale e non impegnano in alcun modo gli enti citati. (1) Probabilmente lo pensa anche Pietro Ichino, visto che nel suo progetto assegna alla Authority precisi compiti di valutazione.
Non si vuole mettere in discussione la validità di affermazioni di buon senso, le quali possono essere spiegate, peraltro, alla luce della teoria economica della burocrazia, basate sul paradigma individualista. Il punto è che per fare un discorso scientifico descrittivo e prescrittivo su questi problemi laneddotica non basta. (1)
Le premesse generali di Ichino sono due: la prima è che la Pa italiana sia inefficiente, la seconda è che una causa primaria di tale inefficienza sia la scarsa produttività dei dipendenti pubblici. Quindi, occorre trovare adeguate evidenze empiriche, misurate secondo metodi robusti, dei seguenti fenomeni:
· la “nullafacenza” dei dipendenti pubblici, anche qui con la necessità di stabilire le medesime coordinate di quanto, come, dove e quando;
· il nesso causale che regredisce dalla seconda alla prima: consistenza e forza di tale nesso, esclusione di relazioni spurie, eccetera.
Il problema fondamentale, però, resta quello di non conoscere a priori la funzione di produzione dei vari servizi pubblici considerati, per cui non si è in grado di individuare e misurare i casi di inefficienza produttiva (tecnica) in senso assoluto. I metodi citati, infatti, consentono di stimare una “frontiera” delle possibilità produttive, ma solo in termini relativi. Permettono di individuare un benchmark costruito in base alle prestazioni migliori tra i casi considerati. In sintesi, dato un determinato settore della Pa, si può stimare quali amministrazioni siano inefficienti (e quanto) rispetto alla performance degli uffici più produttivi. Per fare un esempio di attualità, è possibile stabilire quali ospedali pubblici siano meno produttivi rispetto ai migliori ospedali italiani. In linea teorica si potrebbe farlo anche con le prefetture, o con gli uffici del catasto, e così via.
Lapplicabilità di tali tecniche, peraltro, si scontra con altri, non facili problemi. Primario è quello dellomogeneità delloutput: le analisi di efficienza relativa, per essere attendibili, presuppongono che le unità produttive messe a confronto producano esattamente lo stesso tipo di output. Non basta che si tratti di ospedali, ma occorre che siano ospedali che offrono lo stesso tipo di prestazioni, le quali, inoltre, vanno “pesate” adeguatamente.
È ovvio che queste possibilità di misurazione non possono offrire evidenze empiriche, se non in maniera molto parziale, alle premesse generali del ragionamento. Una volta sancito che un tale ufficio è meno efficiente rispetto allufficio più produttivo, infatti, restano da stabilire almeno due cose: in primo luogo, occorre verificare se la migliore prestazione rilevata (il benchmark relativo) sia effettivamente la migliore possibile (anche il più produttivo tra gli uffici considerati potrebbe essere, in realtà, inefficiente). In secondo luogo, la constatazione di inefficienza tecnica relativa a carico di un ufficio o di unazienda pubblica, a rigore, non ci dice nulla riguardo alle cause.
Per il primo punto continua a rilevare la questione della non conoscenza a priori della funzione di produzione. Del resto, secondo una vecchia battuta che circola tra gli economisti, la funzione di produzione la conoscono solo Dio e gli ingegneri.
Per quanto riguarda il secondo punto, invece, si ritorna alla questione del nesso causale sottostante al ragionamento di Ichino. Linefficienza (relativa) di una qualsiasi unità organizzativa della Pa può dipendere da molteplici fattori: cattiva organizzazione, carenze di direzione e coordinamento, una inefficiente combinazione degli input, la scarsa produttività unitaria degli input. Solo questi ultimi due fattori hanno a che fare con le questioni sollevate da Ichino: ci può essere una pletora di lavoro pubblico, eventualmente sostituibile con risorse capitali, oppure un problema di scarsa (o addirittura negativa) produttività dei singoli, da licenziare e, nei casi di produttività bassa ma non negativa, da sostituire con elementi maggiormente produttivi. Anche nel caso di unosservata scarsa produttività unitaria del lavoro, poi, occorre verificare quali ne possono essere le cause, alcune non dipendenti dallimpegno del lavoratore: la carenza di formazione, a esempio, o di motivazione, dovuta a difetti di direzione o a fenomeni di sottoutilizzazione, e così via.
La questione è già stata sollevata e Ichino ha risposto che «Qui parliamo di “valutazione”, nel senso che la parola assume sul piano giuridico: niente a che vedere con la misurazione. Per qualsiasi lavoro si può esprimere una valutazione circa la sua utilità rispetto agli scopi dellistituzione o rispetto a unattività aziendale. [
] Daltra parte, qualsiasi lavoratore, anche lultimo degli uscieri, può esprimere una produttività negativa, per esempio rubando, o molestando le colleghe, o tenendo altre attività illecite nel luogo di lavoro».
Se sono questi i casi a cui si punta, però, ci sfugge la portata stessa della proposta: si tratta, cioè, di casi eclatanti di malversazione e frode nei confronti dellerario, a volte addirittura con risvolti penali rispetto a terzi. Cè bisogno di una Authority nazionale per “valutarli” e quindi sanzionarli? E, per quanto possano verificarsi fenomeni di questo tipo, siamo sicuri che il generale e sentito problema dellinefficienza della Pa italiana sia risolvibile, o anche solo significativamente attenuabile, grazie alleliminazione dei casi estremi?
Questi comportamenti vanno comunque sanzionati per il danno, non solo pecuniario, che generano allerario e nei confronti di terzi privati, e non perché siano causa di inefficienza dellazione pubblica. E per individuarli laneddotica è sufficiente. Ma non è necessaria lAuthority: bastano le altre interessanti e sensate proposte di riforma che il disegno di legge presentato da Ichino contiene, come la limitazione della responsabilità civile dei dirigenti amministrativi e la costruzione di un sistema di incentivi e disincentivi più efficace.
Per quanto riguarda la parte di misurazione e valutazione dei fenomeni di inefficienza e delle loro cause, invece, senza fare ricorso a strutture straordinarie costruite ad hoc, basterebbe cominciare con un serio lavoro di indagine conoscitiva sulla Pa, che consideri la varietà di strutture organizzative e la consistenza degli organici, le tipologie contrattuali, le competenze professionali presenti, i metodi di programmazione del fabbisogno, le attività di formazione e luso delle procedure di mobilità. Il tutto con riferimento allattuale quadro istituzionale in continua transizione verso il regionalismo. Da unanalisi di questo tipo potrebbero scaturire risultati (apparentemente) sorprendenti, come il fatto che, a esempio, gli organici non sono necessariamente e ovunque sovradimensionati, soprattutto negli enti locali, dopo anni di applicazione del blocco del turn-over e del Patto di stabilità interna.
Di pubblica amministrazione si è tornati a parlare. E questo è un bene, dal momento che gli ultimi cinque anni hanno visto un po leclissi del tema (ai Giannini, Cassese e Bassanini sono succeduti i Mazzella e i Baccini che certo non hanno lasciato tracce significative nellopinione pubblica).
E tuttavia i modi in cui se ne è tornati a parlare sono deludenti, non solo per il merito delle proposte avanzate, quanto soprattutto per il fatto che sembrano ignorare, forse volutamente, il dibattito scientifico sviluppato a livello internazionale e tutto sommato anche lesperienza italiana. Si può pensare tutto il male possibile del New Public Management e del dibattito sulla governance, per non parlare delle iniziative dellOecd. Ma, almeno, bisognerebbe tenere conto della direzione in cui sta andando la riflessione.
Linefficienza non è generalizzata
Un primo esempio, ampliando le riflessioni già avanzate dal gruppo di lavoro Sisper, riguarda la questione dellefficienza della Pa. Siamo sicuri che essa sia così bassa in modo generalizzato? Molti dati sembrano suggerire il contrario. Lesempio dellindagine Pisa è da questo punto di vista eclatante: i livelli di apprendimento degli studenti italiani sono sì bassi, ma sono soprattutto estremamente differenziati tra un Centro e un Nord nei quali appaiono assolutamente in linea con le medie europee, e un Sud in cui sono molto al di sotto. Poiché il rapporto di lavoro degli insegnanti, il loro sistema di incentivi, le garanzie di cui godono, sono uniformi a livello nazionale sorge il sospetto che le strategie di riforma proposte da Pietro Ichino , e forse anche da Tito Boeri e Giuseppe Pisauro (ma qui il discorso sarebbe più lungo) siano inadeguate, proprio perché non tengono conto dei fattori che quei dislivelli generano. E lo stesso vale per luniversità (si vedano i dati sulla valutazione studentesca o la analisi dellemployability fatta da Alma Laurea), per la sanità (dove la valutazione è sistematicamente più alta tra gli utenti che nella cittadinanza), per moltissimi servizi locali. E si potrebbe continuare con molti altri esempi.
Ciò non significa che non siano possibili recuperi di produttività, sarebbe demenziale affermarlo. E nemmeno che essi non potrebbero avere benefici effetti sulla spesa pubblica, ma le soluzioni proposte non sembrano in grado nemmeno di scalfire il problema.
La domanda da porsi
In realtà, la domanda che bisognerebbe porsi è la seguente: le pubbliche amministrazioni “non funzionano” perché a esse si applicano regole diverse da quelle con cui operano le organizzazioni private, oppure perché la sostanziale differenza delle missioni e dei contesti richiederebbe regole ancora più differenti? Come tutte le buone domande, non ha una risposta né semplice né ovvia, tanto è vero che grandissimi studiosi per tutti: Sabino Cassese hanno anche recentemente sostenuto che lapplicazione dei principi di totale flessibilità al rapporto di lavoro dei manager pubblici configge con limparzialità e il buon andamento previsti dalla Costituzione.
E tuttavia la strada seguita negli anni “di Bassanini” in Italia, e in buona parte dei paesi occidentali almeno a partire dal 1980, è andata nella direzione opposta, nel tentativo di uniformare le regole tra settore pubblico e settore privato, per quanto attiene al rapporto di lavoro e al funzionamento dellorganizzazione. Così ad esempio la non indipendenza degli organi di controllo interno, lamentata da Ichino e Paderni, non è una mancata attuazione del decreto 286/1999, ma costituisce un obiettivo esplicitamente perseguito, proprio per riportare lattività di analisi della performance, il controllo di gestione e la valutazione dei dirigenti, al loro significato “normale” in tutte le organizzazioni “normali”: quello di essere strumenti nelle mani dei dirigenti per lo svolgimento delle loro normali attività. Il tutto basato sullosservazione, abbastanza naturale dopo Tangentopoli, che più di cento anni di controlli esterni indipendenti non sembravano essere stati particolarmente efficaci né nellimpedire fenomeni degenerativi, né nellassicurare unefficienza media accettabile. E che, se il settore privato è più efficiente di quello pubblico, forse ciò avviene anche perché le regole sulla base delle quali esso funziona sono più adeguate.
Condizioni necessarie
Ovviamente questa scuola di pensiero, dominante in tutti i paesi sviluppati, ritiene che la rimozione dei vincoli (la contrattualizzazione dei dipendenti, lomogeneizzazione dellorario di lavoro, labolizione dei controlli esterni, luso generalizzato degli strumenti del diritto privato, la separazione organizzativa tra attività di indirizzo e attività di gestione, la piena assimilazione delle modalità di nomina dei vertici amministrativi a quelle dei top manager privati, eccetera) non è condizione sufficiente per il miglioramento dellefficienza e dellefficacia. Se politici, funzionari e clienti sono daccordo nel non spingere in questa direzione, cè ben poco che si possa fare per legge. Tuttavia, chi scrive riteneva allora e continua a ritenere, con il conforto di qualche osservazione empirica, che era ed è limpostazione corretta, e che abbia consentito, nei molti luoghi delle pubbliche amministrazioni italiane dove cerano la volontà e le risorse per farlo, di migliorare significativamente efficienza ed efficacia dei servizi, soprattutto attraverso la migliore trasparenza delle responsabilità per successi e fallimenti. In altre parole, si trattava di condizioni necessarie per consentire il dispiegamento delle potenzialità presenti nei sistemi.
Altro discorso ovviamente è se questo disegno sia stato perseguito con la necessaria coerenza, se siano state messe in campo le azioni necessarie per intervenire nei punti di crisi, se le persone preposte a tutti i livelli siano state allaltezza delle nuove responsabilità attribuite, eccetera.
Però in quegli anni abbiamo imparato due cose: che non esiste “la pubblica amministrazione”, ma tanti diversi servizi pubblici con diverse esigenze e condizioni di contesto, e che i principi prevalenti a livello internazionale sono applicabili anche in Italia. Dispiace un po che tali fondamentali insegnamenti corrano il rischio di andare perduti.