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Categoria: Lavoro Pagina 78 di 113

La slavina dei redditi da lavoro dipendente

Questa scheda si propone di documentare l’andamento della quota salari in Italia e in alcune economie avanzate negli ultimi quattro decenni. (1) La quota salari rappresenta la parte del reddito nazionale assegnata al fattore lavoro nell’ottica della distribuzione funzionale del reddito fra i fattori di produzione, quali capitale, lavoro e terra. Rappresenta perciò una delle componenti più importanti della distribuzione del reddito a livello aggregato e non individuale. In altri termini, non si sta guardando alla distribuzione personale dei redditi da lavoro e quindi ai salari medi individuali, ma piuttosto alla quota assegnata all’insieme dei lavoratori dipendenti.

Chi ha paura del negoziante straniero?

Cresce il numero delle imprese individuali con titolare extracomunitario. Sono soprattutto attività legate al commercio, fisso e ambulante. Che contribuiscono a mutare il paesaggio urbano delle città e per questo sono ostacolate da molti amministratori locali, in particolare lombardi. Anziché apprezzare il fatto che vetrine illuminate e negozi aperti vivacizzano anche i quartieri difficili, prevale una visione della sicurezza come rimozione dei luoghi di incontro e degli spazi di socialità dei gruppi considerati pericolosi. Anche a costo di desertificare le strade.

Come la Fiat può svincolarsi dal contratto nazionale

1. Secondo l’’orientamento oggi prevalente della giurisprudenza, per poter derogare al contratto collettivo nazionale con effetti estesi a tutti i dipendenti dell’’azienda, un contratto aziendale deve essere firmato da tutte le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto nazionale.

Tutte le bandiere dell’auto italiana

La storia della Fiat è intrecciata con quella dell’industria italiana. Per questo non dovrebbero sorprendere le recenti decisioni del gruppo torinese di trasferire gli stabilimenti produttivi in paesi emergenti. In un contesto internazionale dove la produzione mondiale di veicoli è crollata, le grandi imprese -la Fiat più di altre- cercano di produrre in paesi a più basso costo con inevitabili riflessi sul nostro sistema di relazioni industriali. Iniziare il dibattito sul tema già due anni fa avrebbe aiutato a gestire meglio il problema.

Marchionne: tante dichiarazioni, una strategia

La Fiat è stata al centro di tanti avvenimenti negli ultimi mesi. Mettere ordine in questa storia fa emergere una tendenza ad una internazionalizzazione sempre più spinta. Il ruolo dell’Italia nei piani di Fiat sarà sempre più limitato. Tanto che non si capisce se i progetti Fabbrica Italia erano solo fumo negli occhi, o il tentativo di far passare delle scelte (legittime) ormai compiute come colpe del sindacato.

C’è un futuro per la Fiat in Italia?

Il sistema produttivo che la Fiat intende applicare su larga scala richiede l’utilizzo a ciclo continuo degli impianti, il consenso da parte della forza lavoro, le certezze sulla gestione dei rapporti sindacali. La vicenda di Pomigliano ha rimesso in discussione il progetto “Fabbrica Italia”. Le scelte provocatorie della Fiat mirano ad ottenere una risposta chiara sulla possibilità di portare avanti il progetto. Lo spazio di trattativa è sempre più ristretto. Senza un accordo, si rischia il ridimensionamento della capacità produttiva in Italia.

La risposta ai commenti

Siamo consapevoli del fatto che la PA ha mille problemi, noi ne abbiamo studiato uno: come reagiscono le assenze alla legge 133 e sue modifiche nel tempo per donne, uomini, giovani e anziani, rango professionale, regione? Il crollo delle assenze del 2008 è stato accolto con incredulità: era un dato significativo oppure no?
La Commissione non è fatta di consulenti del Ministro, ma di docenti e professionisti che hanno lavorato gratuitamente per due anni e mezzo. Non era tra i nostri compiti studiare norme per migliorare l’’ambiente lavorativo della PA o aumentare la produttività. Stupisce che accademici preferiscano l’’insulto agli argomenti o che si scivoli nell’’inclinazione italica di: “il problema è ben altro”. Credevamo che si potesse discutere di assenze senza che al solo udire la parola scattassero reazioni viscerali: “Brave le autrici,compitino ben fatto”… “ Ma siete sicuri, voi wanna-be-Brunetta, di sapere di cosa parlate? E i bravi estensori di questa dotta ricerca che cosa volevano dimostrare?” “Noto con rassegnato sgomento che c’è ancora molta gente disposta a credere che interventi alla Brunetta forniscano risultati positivi. E gongolano leggendo le statistiche truffaldine, che al massimo possono raccontarci se si è al lavoro oppure no.
Noi, con non rassegnato sgomento, constatiamo che c’’è ancora chi pensa che ISTAT (dati forze di lavoro), AE (circa 34.000 dipendenti) INPS (circa 38000 dipendenti + tutto il settore privato), Ragioneria Generale dello Stato emettano dati falsi, che una ventina di professionisti a gratis li abbiano elaborati in maniera “truffaldina” e che il Ministero della PA, con l’’aiuto dell’’ISTAT, scelga solo le risposte che vuole al questionario.
Credevamo che si potesse valutare l’’operato di un ministro, facendo parlare i numeri. Invece ben pochi sono i commenti che intervengono nel merito del nostro lavoro:

“Voglio esprimere la mia sorpresa per l’implicita assunzione che essere presenti in ufficio significhi lavorare..Piuttosto ragioniamo di come rendere il lavoro più interessante e significativo, di come coinvolgere di più i lavoratori nella definizione dei processi di lavoro. Siamo ancora ad una cultura fordista del lavoro? Ci scusi, ma al momento vorremmo ragionare sui risultati che abbiamo ottenuto che non sono poca cosa,  poi se ne avremo le forze, e il Ministero ce lo chiederà,  passeremo altri due anni a studiare la produttività nella PA.
“Non si capiscono le ragioni del supporto a provvedimenti che creano un sistema di disincentivi ai pubblici dipendenti onesti”. Caro Fabio, siamo economisti indipendenti che hanno elaborato una straordinaria quantità di dati e offerto le loro conclusioni alla pubblica attenzione: l’’obiettivo della Commissione non era quello di dare sostegno ai provvedimenti, ma se vuoi la nostra impressione, non crediamo che disincentivi gli onesti. Il disincentivo per gli onesti è la constatazione che i comportamenti opportunistici continuano a prevalere senza sanzione. Purtroppo l’’identificazione dei lavoratori che si ammalano veramente da quelli che abusano della malattia è impossibile con le informazioni disponibili. L’’epidemiologo della Commissione, Giuseppe Costa, ha cercato di distinguere i fattori di rischio dell’’assenza tra quelli che portano ad ammalarsi davvero e quelli sociali e culturali che esistono ed hanno peso.
E’ vero che le norme, decurtando la parte accessoria dello stipendio, “puniscono” non solo gli assenteisti, ma tutti indistintamente: lo spirito della legge è proprio decurtare la componente della retribuzione collegata alla presenza. Ma come si fa a distinguere i buoni dai cattivi? Non esiste un’’informazione codificata né un modo di selezionarli con la legge. Forse a tre anni dalla legge e con questo bagaglio di informazione si potranno pensare ritocchi che tengano conto dei tassi di assenteismo dei vari settori, migliorare il controllo, varare in modo definitivo l’’invio telematico dei certificati medici e mantenere il rigore sulle visite fiscali.
Quella di Brunetta non è una legge stupida, è intelligente: introduce incentivi per un uso sobrio e ragionevole della prestazione che non è un atto dovuto da parte dello Stato poiché non è finanziato in base a criteri di equità attuariale. E’ sicuramente una legge migliorabile. L’’informazione che abbiamo consegnato al Ministero permetterà di lavorare di fine tuning: certo se persino gli scienziati saltano sulla cattedra non appena sentono la parola assenza o Brunetta, non facciamo progressi.
Nella sua relazione alla nostra conferenza finale, il Presidente dell’’INPS Antonio Mastrapasqua ha spiegato come sia aumentato il controllo sui certificati medici e le visite fiscali, le norme esistenti sui controlli: è stato approvato in Parlamento il Decreto legislativo 150/2009 per rendere obbligatoria la comunicazione on-line dei certificati di malattia all’’INPS da parte dei medici. Questo renderà più immediati i controlli a casa e eviterà scelte conniventi e documenti falsificati. La Commissione non ha studiato questo aspetto che però è un punto importante nell’’agenda del Ministro. INPS, cioè noi contribuenti, spende 2 miliardi di euro per pagare i 50.000.000 di giorni di malattia ai dipendenti, riceve ogni anno circa 500.000 certificati medici. Prima, il costo medio del “ciclo dei certificati di malattia” era circa 10 euro a pratica. Infatti il lavoratore inviava il certificato al datore di lavoro via fax o per raccomandata con ricevuta di ritorno e l’’INPS dedicava al data entry dei certificati del settore privato oltre 500 persone. Nel 2008 la malattia è costata circa lo 0,5 per cento del Pil. Si stima ora un risparmio di carta di 100.000.000 euro e  un abbattimento dei costi di gestione di circa 500.000.000 euro l’’anno.

A chi ci chiede chiarimenti, come Ania, rispondiamo che gli spill-over del provvedimento sulle assenze in coppie in cui un partner lavora per il settore pubblico e uno nel privato non hanno a priori una direzione chiara. Da un lato si potrebbe assistere ad un aumento delle assenze del partner occupato nel privato come risposta all’’aumento del prezzo relativo delle assenze per malattia per il partner dipendente pubblico. Ciò determinerebbe un aumento nei tassi di assenza nel settore privato e una contemporanea diminuzione delle assenze nel settore pubblico. Allo stesso modo, se si ipotizza che ciascun individuo  insieme a comportamenti opportunistici come l’’assenteismo senta anche il costo psicologico che dipende dalla diffusione in un determinato gruppo di riferimento (il partner in questo caso), la riduzione del fenomeno nel gruppo direttamente interessato dal provvedimento può generare analoghe riduzioni anche altrove. Il lavoro di Francesco D’’Amuri mostra appunto che, durante il primo anno di applicazione della legge 133/2008, i lavoratori del settore privato (non direttamente interessati dal provvedimento) con un partner nel settore pubblico hanno ridotto le assenze per malattia rispetto a lavoratori, sempre occupati nel privato e con caratteristiche simili, che non hanno un partner dipendente pubblico. Questo risultato suggerisce che ci siano effetti indiretti della riforma, che hanno contribuito a moderare le assenze per malattia anche al di fuori del settore pubblico.
A chi dice, come Damiano Vezzosi, che il giorno di malattia costa troppo rispondiamo che in molte pubbliche istituzioni il costo è basso per chi ha basse retribuzioni, proprio colui che ha più alta probabilità di assenza. Le assenze però hanno registrato una immediata accelerazione quando nel 2009 sono state ristrette le fasce di reperibilità, a cui le assenze sono davvero sensibili: se costavano troppo, perché le assenze sono aumentate di colpo appena ridotti i controlli? In molte PA, dopo lo shock iniziale, la penalità viene percepita come un costo accettabile per un giorno di libertà. Ecco alcune cifre: il costo medio è 6.5 euro in un’’università, all’’INPS il costo medio è 16 euro al giorno: operai 9 euro, impiegati 16 euro, manager 48 euro. Per gli impiegati di Agenzia delle Entrate è 14 euro, per managers intermedi 18 euro, per i direttori 70 euro.
Ringraziamo Domenico Amato per avere sollevato il problema della giungla di differenze contrattuali all’’interno della PA, che rendono diversa anche la disciplina delle assenze. Non dimentichiamo che prima della legge 133, bastava aver superato il 15° giorno di assenza per evitare ogni decurtazione, esisteva quindi un incentivo forte a protrarla.
Nella PA, per tradizione secolare non solo italiana, una specie di contratto implicito ha scambiato la sicurezza totale con una retribuzione bassa e una tacita accondiscendenza alla flessibilità: la 133/2008, con i disincentivi all’’assenza per malattia, ha reso più esplicito il contratto pubblico e ha cercato di ridurre le molte differenze contrattuali.

Quella globalizzazione che passa da Pomigliano

La discussione sulla vicenda della Fiat di Pomigliano ha fatto emergere una visione statica e troppo semplificata della globalizzazione. Che non lascia spazi all’iniziativa politica, se non per l’eventuale chiusura protezionistica. E così di fronte alla corsa al peggio nelle condizioni di lavoro non resterebbe altro che la rassegnazione. Invece l’alternativa esiste. E sono proprio i paesi emergenti a offrire esempi di buone politiche orientate al futuro con i massicci investimenti nell’educazione. Su questo, un paese in ripiegamento come l’Italia, farebbe bene a riflettere.

Una crisi pagata dai giovani

La disoccupazione giovanile è al 20 per cento in Europa. Si tratta anche di una conseguenza di riforme del mercato del lavoro rimaste incomplete. Per rendere politicamente accettabili quelle intraprese a partire dalla fine degli anni Ottanta, si è lasciato che influissero solo sulle nuove assunzioni. Si è così creato un dualismo nel mercato del lavoro, tra contratti a tempo indeterminato e contratti a tempo determinato. Che è iniquo e fortemente distorsivo. Si può risolverlo ricorrendo a forme di tutela progressiva del lavoro.

Assenteismo? Il calo è reale*

A due anni dall’introduzione della legge 133, nella pubblica amministrazione le assenze si sono ridotte significativamente. Riflessi indiretti si sono avuti anche nel settore privato, riducendo la tendenza a comportamenti opportunistici. Nel privato le assenze sono contenute dalla necessità di confrontarsi con il mercato. Nel pubblico, la nuova norma ha dato un prezzo al giorno di assenza, introducendo una regola chiara in un sistema frammentato per qualifiche e settori. I risultati del lavoro di una commissione indipendente di valutazione.

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