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Categoria: Moneta e inflazione Pagina 33 di 36

DOLLARO, ANATOMIA DI UN DEPREZZAMENTO*

Il dollaro debole è la conseguenza della lunga serie di deficit di bilancia dei pagamenti accumulata dagli Stati Uniti negli ultimi anni. E infatti dal 2002 a oggi la moneta americana ha perso il 25 per cento del suo valore in termini reali. L’analisi economica classica dice che il dollaro deve cadere ancora e di molto. Ma alcune nuove simulazioni suggeriscono che il commercio Usa potrebbe rispondere in modo inaspettato, favorendo le esportazioni di merci statunitensi. Allora il dollaro si sarebbe già deprezzato abbastanza.

L’EUROPA ALLA GUERRA DEL RENMINBI*

La Cina avrebbe molto da guadagnare da una rivalutazione della sua moneta perché finirebbe per favorire una crescita più equilibrata. Ma una terapia d’urto non rientra nella strategia del paese e d’altra parte la lobby degli esportatori è molto influente. Dagli Stati Uniti arriva uno scenario ad alto rischio, soprattutto perché punta al coinvolgimento nella disputa delle organizzazioni internazionali. E per permettere a queste di svolgere il loro ruolo di arbitri legittimi, gli europei dovrebbero cedere seggi e voti a beneficio delle nuove potenze.

UNIONE MONETARIA E CORSE AL RIBASSO*

Gli studi empirici mostrano che l’Unione monetaria migliora l’andamento economico dei paesi che ne fanno parte. Ma è anche associata a una maggiore disuguaglianza e una minore spesa sociale. Tutto ciò solleva dubbi sulla sostenibilità politica dell’Unione monetaria senza una integrazione politico-sociale e un più ampio sviluppo del mercato finanziario. E guardando al futuro, sarebbe sbagliato e pericoloso non prendere in considerazione le implicazioni dell’integrazione economica sulle cause e i rimedi della disuguaglianza di reddito.

La via stretta di Bernanke

La Federal Reserve abbassa i tassi di ben cinquanta punti base. Una sorpresa? Non proprio. La decisione è ampiamente giustificata, e non per ragioni di moderazione dei mercati monetari o del presunto panico di borsa. Ma perché ci sono segnali di rallentamento dell’economia Usa. Tuttavia, i tassi a lungo termine salgono. I mercati infatti si aspettano che le mosse attuali, unite a un forte rialzo del prezzo del petrolio, alimentino pressioni inflazionistiche. E quindi costringano presto la Fed a rivedere la propria strategia.

Una crisi estensiva, ma benigna

Sembrano eccessive le reazioni alla crisi dei mercati finanziari. La crescita dei cosiddetti mutui subprime è un fenomeno fisiologico in mercati finanziari ad alta capacità di diversificazione del rischio. Stati Uniti ed Europa potranno anche registrare un raffreddamento dei tassi di crescita di consumi e produzione nel prossimo futuro, ma la dimensione del fenomeno sarà probabilmente contenuta grazie ai benefici del risk-sharing internazionale. Diversa e più importante è la questione delle ricadute sull’economia reale. Ma se dovessero esserci, la Fed saprà senz’altro anticiparle con un taglio dei tassi di interesse.

Una politica per l’euro

L’euro continua ad apprezzarsi nei confronti del dollaro, sia a causa di fattori ciclici, che di fattori strutturali. Poco senso ha la proposta di Sarkozy di chiedere alla Bce una politica di indebolimento del tasso di cambio. Sarebbe piuttosto utile che la Cina accettasse di abbandonare il suo legame “esclusivo” con il dollaro e altrettanto utile rafforzare la sorveglianza multilaterale sui tassi di cambio per evitare un’eccessiva svalutazione della valuta americana. Nel frattempo un rappresentante unico dell’eurozona nelle istituzioni internazionali sarebbe un buon primo passo per raggiungere questi obiettivi…

Casa con vista sull’inflazione*

Gli indici dei prezzi al consumo servono a svariati usi. Per esempio, a stabilire programmi statali di tasse e spesa. O a offrire una guida per l’aggiustamento di stipendi e salari. Per questo è importante capire come sono composti. E in particolare come sono considerati gli immobili abitati dai proprietari. Perché diversi sistemi danno ben diversi risultati in termini di inflazione. Tutto sommato, il metodo migliore è quello Usa, con la categoria dei proprietari affitto-equivalenti. Migliore anche rispetto alle scelte della Bce.

Come essere una colomba agendo da falco

Il recente rialzo dei tassi di interesse da parte della Banca centrale europea è stato molto criticato, soprattutto dai politici. Ma l’aspetto cruciale è capire come la banca centrale gestisce le aspettative di inflazione. Se la Bce avesse affrontato lo shock petrolifero annunciando già nel dicembre 2005 che da lì in poi si sarebbero rialzati i tassi per un certo periodo di tempo, i vantaggi sotto questo profilo sarebbero stati significativi. E non avrebbe finito per danneggiare di fatto le prospettive di crescita. Il confronto con la Fed.

I due Bernanke

Si dice che il nuovo governatore della Fed, Bernanke, abbia difetti di comunicazione e che sia poco sensibile all’ inflazione. Ma ad ogni cambio di regime di politica monetaria la reattività dei mercati aumenta fisiologicamente. Le reali “ambiguità” di Bernanke sono altre: La Fed transiterà ad un regime di inflation targeting? E come gestirà la Fed la fase critica di rallentamento del mercato immobiliare americano?

Qualche verità sul cambio lira-euro

1.   Chi predica che il prezzo di 1 Euro avrebbe dovuto essere fissato a 1500 lire dimentica che ciò avrebbe comportato una rivalutazione della lira di proporzioni insostenibili. Pur assumendo che partners commerciali importanti come Germania e Francia avessero fissato lo stesso cambio ora in vigore, le nostre esportazioni verso quei mercati sarebbero crollate in modo vertiginoso. E’ quasi superfluo aggiungere che cosa questo avrebbe comportato per la già comunque asfittica dinamica del Pil italiano.

2.       Si aggiunga, che dopo la svalutazione della Lira del 1992, e l’uscita dallo SME, entrare nella moneta unica era già stato un mezzo miracolo per l’Italia. Si dimentica spesso che uno dei requisiti per l’ingresso nell’Euro era che il cambio della valuta (rispetto al paniere di riferimento europeo denominato Ecu) fosse rimasto, negli ultimi due anni precedenti l’ingresso, stabile entro le bande di fluttuazione previste dallo SME (e riviste dopo il reingresso della lira per riflettere la svalutazione del 1992). Perciò la lira arrivava alla prova di Maastricht con una parità di riferimento sancita dai mercati, ed è questa che è valsa per la fissazione della parità con l’euro. Fissare una parità largamente diversa avrebbe comportato una fortissima pressione all’ apprezzamento delle nostre ragioni di scambio verso i partners commerciali.

3.       In generale, però, sfugge quale sia il legame tra parità iniziale euro-lira e dinamica dell’inflazione in Italia nella fase post-euro. La confusione del dibattito corrente dimentica una serie di fatti sull’inflazione italiana. Vale la pena chiarirli:

(i)  Tipicamente si tende a confondere aumenti una tantum del livello dei prezzi con aumenti generalizzati dell’inflazione, cioè del loro tasso di crescita. Per chiarire, supponiamo che il livello dei prezzi sia stabile e pari a 100 prima dell’euro. In tal caso l’inflazione è zero. Se a cavallo del changeover il livello dei prezzi sale a 102 e poi rimane stabile, l’inflazione ha solo una fiammata temporanea del due per cento, e poi torna a zero, come prima. Non a caso, in Italia, l’Istat ha più volte ripetuto che l’inflazione è rimasta abbastanza stabile dopo il Gennaio 2002.

(ii) Analizzando meglio le statistiche si scopre che l’aumento dei prezzi in Italia si è osservato soprattutto in alcuni settori (i servizi) e molto poco in altri (computer e software, per esempio, in cui i prezzi sono persino diminuiti). Tra i piccoli servizi spiccano i ristoranti, per i quali certamente la percezione della gente non sbaglia. In Italia, rincari si sono avuti anche in servizi di tipo più tradizionale, come le lavanderie e i piccoli alimentari, e soprattutto nelle aree geografiche con meno concorrenza.

(iii) Tutto ciò si spiega solo per la volontà speculativa di molti commercianti? In realtà le spiegazioni esistono. Le attività sopra citate si distinguono per tre caratteristiche. Primo, hanno cosiddetti menu costs. Cambiare la denominazione dei prezzi nei menu dei ristoranti è un costo fisso. Se un ristorante pensava già da qualche mese prima del Gennaio 2002 di aumentare i prezzi, avrà probabilmente atteso la data del changeover per farlo. Secondo, lavanderie e ristoranti usano molto di più il denaro liquido rispetto ad altri esercizi. Perciò, con il passaggio all’Euro, hanno fronteggiato costi di transazione più alti rispetto a settori che usano principalmente le transazioni elettroniche. Terzo, lavanderie e ristoranti basano molto la loro attività su relazioni personali e stabili con la clientela. Perciò, variazioni troppo frequenti dei prezzi sono mal percepite e soprattutto facilmente individuate dalla clientela affezionata. Il passaggio all’Euro ha funzionato così da "scusa" per giustificare gli aumenti agli occhi dei clienti più frequenti. Ma si tratta di aumenti che probabilmente volevano essere introdotti da tempo. Per chiarirci, la stessa cosa sarebbe avvenuta se si fosse chiesto a tutte le lavanderie in Italia di riportare il nome di ogni capo in inglese invece che in italiano. In quel caso avremmo dovuto considerare l’ "Inglese" responsabile del maggior costo della vita?

I rialzi dei prezzi si sono quindi osservati principalmente in alcuni servizi poco (o per nulla) esposti alla concorrenza internazionale e legati ad un contatto diretto e quotidiano con la clientela. Prendiamo una lavanderia: se il cambio euro lira fosse stato fissato a 1500 lire, e quindi il costo in euro di importare dalla Germania fosse stato più basso, quanto di questo avrebbe inciso sulla dinamica dei costi della lavanderia stessa? Presumo molto poco.

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