Con una crescita rallentata e deboli segnali di ripresa, i mercati europei hanno bisogno di ancorare le proprie aspettative di stabilità dei prezzi a un riferimento numerico che assegni la stessa importanza al rischio di inflazione e a quello di deflazione. Per la Bce, così legata alle politiche anti-inflazionistiche, è una nuova sfida.
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Tutti i contribuenti devono essere informati sull’ammontare delle prestazioni che potrebbero ricevere a seconda di quando andranno in pensione e di come andrà l’economia. Servirebbe anche ad incoraggiare investimenti in previdenza integrativa e la scelta di lavorare più a lungo. Come informarli? Ecco la lettera che un qualsiasi contribuente svedese — Johanna, una figlia di due anni — riceve dagli enti previdenziali pubblici. Perchè non fare la stessa cosa anche da noi? Potremmo quasi copiarla dato che la Svezia ha attuato una riforma molto simile a quella varata in Italia nel 1995.
Si chiude il Forum sulla “Maastricht delle pensioni” con unÂ’intervista a Platon Tinios, economista esperto di sistemi pensionistici membro per la Grecia della Social Protection Committee dellÂ’ Unione europea, un intervento di Tito Boeri “I pensionati italiani non sono un problema dellÂ’Europa” e un contributo di Benedetto della Vedova, parlamentare europeo, con Stefano Mazzocchi (Un problema ineludibile).
Il 28 settembre 2000, il Bureau of Labor Statistics, uno degli istituti federali di statistica degli Stati Uniti incaricato della raccolta e dell’elaborazione degli indici dei prezzi al consumo, ha annunciato con un comunicato stampa di aver rilevato un errore nella procedura di elaborazione dei dati campionari per la misura dell’inflazione. Si trattava di uno scambio di segno algebrico nel codice del software costruito e usato per valutare i prezzi degli affitti residenziali o le imputazioni degli stessi per i proprietari degli alloggi. Un errore, tutto sommato, banale: per rendere i confronti intertemporali plausibili, nella determinazione dei prezzi operata su scala campionaria sono necessari aggiustamenti alle differenze di qualità dei prodotti e dei servizi. Nel caso in questione, il cambiamento dell’impianto di aria condizionata usato nell’alloggio (da centralizzato a non, e viceversa), dichiarato dalla famiglia inclusa nel campione, comportava un aggiustamento al prezzo dell’affitto (nel primo caso positivo, nel secondo negativo). Ebbene nel programma di calcolo, probabilmente per un “copia e incolla” di righe di codice, si imponeva un aggiustamento negativo in entrambi i casi (si noti che la responsabilità è stata asetticamente attribuita al software, non al programmatore).
Scoperto l’errore, i dati di otto mesi (da gennaio ad agosto 2000) sono stati rivisti con un impatto sull’inflazione (per le aree urbane) che coincidenza vuole sia dello 0,1 per cento.
Come ci si è accorti dell’errore? In maniera altrettanto banale: un number-cruncher, un analista del Bls addetto al processo, si è accorto che una famiglia del campione aveva dichiarato due cambiamenti diversi nell’impianto di aria condizionata utilizzato e che in entrambi i casi era stata apportata una correzione negativa al prezzo dell’affitto. Fin qui, appunto, un evento di scarsa importanza. E invece, nei tre mesi trascorsi dalla scoperta dell’errore alla piena valutazione dei suoi effetti, si è notato che da un mese all’altro le famiglie del campione molto spesso cambiavano dichiarazione sulla natura dell’impianto di condizionamento usato e che quindi i dati a essa relativi erano inattendibili. La vicenda ha almeno tre insegnamenti: gli errori sono possibili anche negli Stati Uniti, il paese nel quale le statistiche ufficiali hanno la maggiore tradizione di affidabilità , tempestività e trasparenza; le informazioni raccolte sono campionarie e possono essere non accurate; gli errori, quando si trovano, si riconoscono e si cerca di migliorare il servizio.
Nel suo comunicato, infatti, Bls riconosceva, scusandosi, di aver fallito nel raggiungimento degli standard a cui l’agenzia aspira, ma aggiungeva anche una lunga lista di miglioramenti implementati e da implementare, con ulteriori controlli per assicurare accuratezza.
La reazione del pubblico? Accanto alle preoccupazioni sulle conseguenze di un aumento espresse da diversi giornali , il Los Angeles Times commentava che forse l’incidente era avvenuto perché il Bls, istituto di così vitale importanza, non aveva fondi a sufficienza per svolgere in maniera adeguata il proprio lavoro.
In Italia, sarebbe forse l’ora di riconoscere l’importanza del ruolo dell’Istat e la necessità di fornire fondi congrui alla ricerca per il continuo miglioramento delle tecniche di costruzione degli indicatori economici e sociali. Sfiduciare le statistiche ufficiali è un boomerang per tutti, a destra e a sinistra.
Per saperne di più
Il comunicato del Bureau of Labour Statistics
Polemiche pretestuose
Ritorna puntuale la polemica sull’inflazione. A provocarla questa volta è stato un errore commesso dall’Istituto centrale di statistica nel calcolo dell’indice dei prezzi al consumo relativo a gennaio: un calo nei prezzi dei farmaci – prezzi regolamentati – è stato inizialmente imputato a questo mese anziché a febbraio. Convenzionalmente, si attribuiscono al mese di riferimento tutte le variazioni intercorse tra il 15 di quel mese e il 15 del mese precedente. Nel caso in questione, il decreto che delibera la riduzione è dell’inizio di gennaio, ma la variazione è diventata effettiva dal 16 di gennaio e pertanto deve essere attribuita all’indice di febbraio. Una associazione di consumatori ha notato l’errore, l’Istat lo ha riconosciuto e ha immediatamente modificato la statistica. Così aggiustato, il tasso di inflazione di gennaio è rimasto costante al 2.8 per cento anziché flettere al 2.7. La differenza, di per sé, non modifica la sostanza di fondo dell’inflazione italiana. L’indice errato, però, segnalava una svolta (ancorché dovuta a una riduzione di un prezzo amministrato) nella dinamica dei prezzi, che si è invece avuta in febbraio sulla base dei dati preliminari. Ma tutto ciò è stato sufficiente a riproporre critiche severe nei confronti dell’Istat e polemiche pretestuose da parte di produttori di statistiche alternative sui prezzi al consumo di dubbia qualità ( vedi Trivellato).
Rilievi sbagliati
Produrre un dato errato sull’indice dei prezzi al consumo è senz’altro un fatto grave: questo indicatore è diventato una statistica molto sensibile, non solo perché a esso sono legati numerosi contratti, ma perché alle “news” del tasso di inflazione reagiscono i mercati finanziari. Per di più, assenti le indicizzazioni, le famiglie sono diventate molto più attente all’inflazione. La sua affidabilità è pertanto essenziale. Ancor più grave sarebbe se dietro l’errore ci fosse del dolo, come alcune letture della stampa sembravano lasciare intendere. Ma non è chiaro chi in questo caso possa guadagnare dall’anticipare il punto di svolta della dinamica dei prezzi da febbraio a gennaio. È molto probabile, quindi, che si sia trattato di una svista, tanto più che gennaio, per una serie di ragioni tecniche, è un mese gravoso per il calcolo dell’indice. Più preoccupante è la critica di incompetenza rivolta all’Istituto. Avanzata anche in questa occasione, segue le critiche dei mesi precedenti sulla pretesa incapacità dell’Istat di misurare il “vero” tasso di inflazione, che sarebbe poi quello “percepito” dai consumatori. Tra i vari rilievi mossi, uno di Massimo Riva su “la Repubblica”, merita attenzione. Riva evidenzia come l’Istat rilevi i prezzi dei beni amministrati sulla Gazzetta ufficiale, anziché sul mercato come fa con gli altri beni. Questo fatto segnalerebbe la scarsa competenza dell’Istituto e la poca credibilità dell’indice che esso produce. Le cose stanno diversamente. I prezzi amministrati vengono rilevati sulla Gazzetta ufficiale, come Massimo Riva riporta. Ma è una scelta dettata dalla metodologia di calcolo dell’indice ed è inoltre motivata: sul mercato vengono rilevati i prezzi liberi, che si formano senza vincoli nel luogo dove domanda e offerta interagiscono. Sulla Gazzetta ufficiale i prezzi dei beni amministrati, che – per definizione – non rispondono a stimoli di mercato ma vengono fissati d’imperio. L’Istat li rileva, per così dire, alla fonte, perché in questo modo si ha certezza del prezzo, non si introducono inevitabili errori di misura e, fatto non trascurabile, si economizza in costi di rilevazione. Non avrebbe alcun senso, ma sarebbe molto costoso, andare in giro per le farmacie di mezza Italia a rilevare il prezzo di un farmaco soggetto a controllo pubblico. Si troverebbe che (salvo aberrazioni o errori di rilevazione) è uguale ovunque. Lo stesso vale per le sigarette, i biglietti dei treni etc.
Conclusione. La metodologia del calcolo dell’indice dei prezzi al consumo è chiaramente criticabile come qualunque convenzione su cui si fondano numerose statistiche. Ma chi lo fa deve farlo in modo serio e competente. Si finisce altrimenti per gettare discredito su una istituzione e su una statistica che dovrebbe al contrario godere della massima fiducia. Ad oggi non vi è nessuna ragione seria per pensare che l’indice dei prezzi al consumo fornisca una visione distorta della dinamica dell’indice medio del costo della vita.
“
Una marcata variabilitÃ
Innanzitutto, tornano utili due osservazioni.
- Il recente, vistoso infortunio in cui è incorso l‘Istat nel calcolo dell‘indice di gennaio 2003, con l‘errata collocazione appunto a gennaio – invece che a febbraio – di una riduzione dei prezzi di vendita di farmaci e con la pronta rilevazione dell‘errore da parte di utilizzatori esterni, è, non paradossalmente, la migliore riprova di queste caratteristiche di rigore metodologico e di trasparenza (vedi Guiso).
Ma come dare conto del(l
‘asserito) divario fra l‘inflazione misurata dall‘Istat e quella percepita dai consumatori? Vi è un punto che, a mio avviso, non è stato messo bene in luce. Sottostante a una dinamica media dell‘inflazione che negli ultimi mesi si è attestata attorno al 2,8 per cento (in termini di variazione rispetto ai corrispondenti mesi dell‘anno precedente), vi è una marcata variabilità .- Essa risalta nitidamente anche se ci si limita al livello nazionale (e si prescinde quindi dalle differenze territoriali), e si guarda alle differenze nella dinamica dei prezzi per grandi capitoli di spesa e, con un maggiore dettaglio, per alcune voci di prodotto nel comparto alimentare. Il prospetto che segue è significativo, e non necessita di particolari commenti.
Non c
‘è dunque motivo di sorprendersi se, per uno specifico bene in uno certo punto di vendita di un certo Comune, si registrano incrementi di prezzo anche molto alti. Data la marcata variabilità appena evidenziata, essi sono del tutto compatibili con la dinamica media registrata dall‘indice dei prezzi al consumo.Per falsificare l
‘affermazione “Tutti i cigni sono bianchi“, basta un cigno nero (dato che, con certezza, sia un cigno e sia nero). Ma possiamo ragionare in maniera analoga in tema di inflazione? La vecchina che esclama: “Dal mio pescivendolo, sottocasa, le vongole sono cresciute del 40 per cento. Che cosa ci vengono a raccontare? Altro che aumenti del 2-3 per cento! Qui tutto costa una volta e mezza quel che costava prima!“: ebbene, fa riferimento a un dato di fatto vero, ma dice una cosa falsa. Questo modo di argomentare – guardare a un solo bene, comprato in uno specifico negozio, in un dato giorno –, se applicato all‘indice dei prezzi al consumo, è palesemente privo di senso.Questi i dati di fatto. Ad essi va aggiunto che la percezione dell
‘inflazione è un processo sociale, che da un lato sconta asimmetrie e imperfezioni percettive (siamo sensibili allo stesso modo a variazioni dei prezzi in aumento e in diminuzione? e a variazioni nei prezzi di beni acquistati di frequente e raramente?) e dall‘altro è influenzato dai ‘media‘ e dagli opinion makers. Quel che è accaduto, e in parte continua ad accadere, nel dibattito nostrano sull‘inflazione rimanda proprio a fattori di questo tipo: in particolare, a ‘media‘ e opinion makers che, invece di favorire una divulgazione obiettiva e una discussione argomentata, hanno aperto il vaso di Pandora delle percezioni e degli umori irrazionali.L
‘indagine EurispesA dare corpo all
‘opinione di un‘inflazione vistosamente più alta di quella misurata dall‘indice dei prezzi al consumo, è stata sovente invocata l‘indagine “Caro Â…cibo“ condotta dall‘Eurispes nel dicembre 2002. Lodevolmente, l‘Eurispes ha messo a disposizione, nel proprio sito Internet, una nota di presentazione sull‘indagine (chiunque può scaricarla versando il simbolico obolo di un Euro) che da sola inficia l‘attendibilità dei risultati. Restando agli aspetti salienti, e affiancando le citazioni con qualche scarno commento, risulta quanto segue.- Circa la dimensione dell‘indagine: “Numero di rivendite contattate: 304. Numero interviste valide: 182“. Commenti: Il 40 per cento delle rivendite contattate si è rifiutato di rispondere: che tipo di selezione vi è stato? I punti di vendita sono 182, a fronte degli oltre 4.800 dell‘Istat.
Un
‘ultima notazione. L‘attendibile stima di un tasso d‘inflazione tendenziale dell‘ordine del 2,8 per cento non è motivo di ottimismo. Da parecchi mesi l‘inflazione italiane è tornata ad essere più alta della media europea, con uno differenziale di 0,4-0,6 punti percentuali (cioè, dell‘ordine del 20 per cento), che per di più tende a dilatarsi. Il segnale è chiaro: vi è il rischio di ulteriore, progressiva perdita di competitività del paese.
Per saperne di più
In allegato la presentazione di Ugo Trivellato al seminario tenutosi a Padova il 24 febbraio.
Informazioni sull’indagine Eurispes sono scaricabili dal sito http://www.eurispes.it/sitoeurispes/default.htm al costo di un Euro.
In allegato, la composizione del consiglio direttivo dell’Istituto.
“Nella complessità insita nei processi di preparazione delle politiche e degli strumenti e di esecuzione dei programmi, come è il caso della programmazione partecipata, esiste una molteplicità di attori ciascuno dei quali può essere responsabile di una certa fase. Esiste quindi una” matrice degli attori” che agisce secondo canoni di sussidiarietà verticale ed orizzontale; esiste, in definitiva, una “matrice di sussidiarietà ”, dove sussidiarietà significa che ciascun attore partecipa a creare le condizioni ottimali per l’intervento dell’attore responsabile.”
(da “Il Libro Bianco sul Welfare”, p. 30, corsivo nell’ originale)
Questo Governo – non diversamente da quelli precedenti — ha fatto sapere da lungo tempo che di riforma del welfare si può e si deve parlare a volontà , ma che di soldi a disposizione non ce ne sono. Quelli disponibili sono già stati dirottati a proteggere le categorie con maggiore potere contrattuale e, purtroppo per loro, i poveri, gli emarginati, i disabili, gli immigrati, raramente sono membri influenti di Confindustria o sindacati. Date queste premesse, l’unico risultato possibile dei vari piani, programmi e proclami che si succedono da anni è, nel migliore dei casi, un elenco di buone intenzioni; nel peggiore, è un insieme di parole altisonanti e di pensieri contorti. La citazione di cui sopra dovrebbe offrire un’idea abbastanza precisa della categoria cui appartiene il Libro Bianco. Il fatto è che si alimentano alcuni pericolosi equivoci. Vediamo i più gravi.
Politiche sociali e riforma fiscale
A più riprese, il Libro Bianco cerca di “vendere” la riforma fiscale varata con la Finanziaria 2003 come un’efficace politica sociale. Si sostiene che la Finanziaria aumenterà il reddito delle fasce più povere della popolazione, e che i suoi effetti sull’offerta genereranno crescita economica a vantaggio soprattutto di queste ultime. Ma qualsiasi simulazione seria degli effetti della riforma ha mostrato che i benefici per i meno abbienti saranno minimi; nè potrebbe essere altrimenti, visto che i meno abbienti non pagano tasse e, quindi, non sono toccati dalla riduzione delle imposte. Quanto agli effetti sulla crescita, neanche Ronald Reagan o Arthur Laffer avrebbero mai sostenuto che una manovra praticamente a costo zero avrebbe potuto generare degli effetti così importanti sull’offerta.
Ma il problema è più fondamentale ancora: il welfare state esiste – o dovrebbe esistere – per prendersi cura di chi “cade attraverso le crepe” della società ; queste persone esistono ed esisteranno sempre sia in periodi di crescita sostenuta, che, a maggior ragione, in fasi recessive. Un Governo non dovrebbe mai abdicare all’obbligo di fornire un welfare state decente, appellandosi a proclami propagandistici e senza alcun supporto empirico sulla propria capacità di generare crescita nell’economia.
La famiglia come ammortizzatore sociale
Per molti aspetti, l’enfasi di principio riposta dal Libro Bianco sul ruolo della famiglia è condivisibile. Non lo è invece il tentativo di far passare la famiglia come un secondo surrogato – in aggiunta al presunto rilancio dell’economia — di un efficiente sistema di ammortizzatori sociali. In Italia la famiglia ha per decenni parzialmente ovviato all’inesistenza di una rete di assistenza sociale di ultima istanza. Ora lo sta facendo sempre meno, sia perché le famiglie diventano più piccole (vedi Ranci), sia perché cresce la disoccupazione in età adulta e, con essa, aumentano le famiglie in cui nessuno lavora.
Ma soprattutto, la redistribuzione intrafamigliare comporta costi in termini di efficienza; presuppone, ad esempio, la condivisione dell’abitazione, il che ostacola la mobilità della forza lavoro. Un altro costo rilevante della “famiglia come ammortizzatore sociale” è legato alla bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro, perche’ la redistribuzione famigliare assegna alle “mogli” funzioni importanti nella produzione e allocazione dei benefici in natura.
Fertilità e detrazioni fiscali
Il Libro Bianco intende incoraggiare la fertilità con detrazioni fiscali per le famiglie più numerose. Tuttavia, non c’è alcuna evidenza empirica robusta che la fertilità risponda in modo significativo agli incentivi fiscali – peraltro anche in questo caso di entità modestissima — di cui parla il Libro Bianco. Inoltre, le famiglie oggi potenzialmente più prolifiche sono quelle degli immigrati che, spesso, non pagano le tasse e che, dunque, non beneficeranno di questo trattamento.
L’assistenza sociale a livello regionale
Dopo la sospensione della sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento (decretata in Finanziaria), il Governo prevede l‘istituzione di un “Reddito di Ultima Istanza”, un istituto completamente decentralizzato a livello regionale. Ma la nozione di strumento di assistenza sociale di ultima istanza finanziata a livello locale è una contraddizione in termini, soprattutto in Italia. Il 70 per cento degli individui più poveri in Italia è concentrato nelle regioni meridionali, che hanno una bassa capacità contributiva ed hanno dimostrato, durante l’ esperimento del Reddito Minimo di Inserimento, di non avere la capacità amministrativa per gestire questo strumento.
La cultura dei programmi e delle commissioni
In sostanza il Libro Bianco finisce per ingenerare la convinzione che si possano compiere grandi riforme senza sostenerne i costi e senza affrontare scelte dolorose sul loro finanziamento. E’ il trionfo della “cultura dei programmi e delle commissioni”, secondo cui affrontare un problema consiste nel mettere i soliti “attori sociali” intorno a un tavolo e scrivere un “programma straordinario”(1). Per questi motivi il Libro Bianco non è soltanto un’occasione perduta: è un documento che può ritardare per l’ennesima volta una discussione seria ed informata sugli aspetti concreti della riforma del welfare state in Italia.
(1) Ecco un elenco – che non ha la pretesa di essere esaustivo – di piani e tavoli concertativi che dovrebbero scaturire dal Libro Bianco. Si propone un “Piano straordinario per riconoscere il diritto al minore di vivere in famiglia” (ovviamente dopo estese consultazioni con Regioni e rappresentanti del privato sociale e dell’associazionismo familiare); un “tavolo di consultazione nazionale per la Gioventù”; un “piano programmatico di corsi di lingua italiana per minori ed adulti immigrati”; “un programma complessivo di intervento finalizzato all’integrazione dei soggetti deboli”, beninteso “in stretto raccordo con le Regioni” e con l’obiettivo di “incrementare la quota percentuale delle politiche rivolte all’ inclusione sociale nell’ambito della riprogrammazione di medio termine del fondo sociale europeo”; un “Piano nazionale per la non-autosufficienza” da far partire entro il 2003 in via sperimentale in alcune regioni; e, infine, un “Programma straordinario per la disabilita’”, da far partire nel 2004.
é sempre difficile far approvare un bilancio quando l’economia ha lÂ’’encefalogramma piatto. Non stentiamo perciò a credere al Ministro Tremonti quando lamenta che “c’è stato un poÂ’ di nervosismo di troppo” nellÂ’’iter di questa Legge Finanziaria…..
Passerà alla storia come “la grande sanatoria del 2002”. Ed è un dramma, quello dellÂ’’immigrazione clandestina, di cui proprio non ci si può dimenticare: troppo spesso capita di leggere di navi di disperati alla deriva al largo delle nostre coste …..