Il Senato ha approvato in seconda lettura e con la maggioranza dei due terzi dei parlamentari (dunque senza richiedere un referendum confermativo) la legge che introduce nella nostra Costituzione l’obbligo del bilancio in pareggio. A distanza di meno di 24 ore il governo ha varato il Documento di Economia e Finanza (Def) che sancisce che l’obiettivo del pareggio di bilancio non verrà raggiunto nel 2013, come il nostro Paese si era impegnato a livello europeo, ma, nella migliore delle ipotesi nel 2015. Secondo il Fondo Monetario dovremo attendere addirittura fino al 2017 per centrare questo obiettivo. Abbiamo perciò introdotto nella nostra Costituzione un principio per violarlo fin dall’inizio? Non si rischia in questo modo di ulteriormente indebolire la Costituzione che dovrebbe invece racchiudere norme non facilmente derogabili e modificabili dal Parlamento? In realtà , la tabella sugli obiettivi di finanza pubblica contiene una nota che sostiene che non solo “l’obiettivo sarà raggiunto, ma anche ampiamente superato in termini strutturali (corsivo nostro)”. In altre parole, ci sarà un deficit ma solo perché il livello del Pil sarà molto basso a causa del ciclo economico sfavorevole. Il bilancio aggiustato per il ciclo sarà in attivo già nel 2013. Tutto bene, dunque? Il problema è che, come scriveva Martin Wolf sul Financial Times, nessuno sa cosa precisamente sia il bilancio aggiustato per il ciclo o il disavanzo strutturale. Ad esempio, nel 2007 il Fondo Monetario Internazionale accreditava la Spagna di un surplus strutturale consistente e l’Irlanda di un bilancio strutturalmente in pareggio. A quattro anni di distanza, il Fondo aveva rivisto le stime del bilancio strutturale per questi stessi paesi concludendo che entrambi i paesi nel 2007 erano in deficit di bilancio e l’Irlanda addirittura di più dell’8 per cento. Come è possibile dare forza di legge a stime che sono, per la loro stessa natura, fortemente aleatorie? E chi farà tali stime? Sarà il governo stesso a stabilire l’entità dello scostamento ciclico? O dovremo chiedere alla Corte Costituzionale di imparare l’econometria? A inizio agosto 2011, nel commentare l’intenzione del Governo Berlusconi di introdurre il bilancio in pareggio in Costituzione, citavamo un proverbio turco “Se stai annegando ti aggrappi anche a un serpente”. Per fortuna, grazie al Governo Monti, ci siamo un po’ allontanati dal rischio di annegamento. Proprio per questo pensiamo sarebbe meglio trovare modi più convincenti nel rendere credibile il nostro impegno di rientro del debito. Invece di imitare il Ministro Tremonti il quale, per stimolare la crescita, voleva cambiare l’articolo 41 della Costituzione, sarebbe meglio iniziare facendo sul serio la spending review, a partire dai capitoli di spesa che sono oggi sotto gli occhi di tutti gli italiani perché contornati di episodi di corruzione: la spesa sanitaria e i costi della politica, in primis rivedendo le norme sul finanziamento pubblico ai partiti. Parafrasando il Ministro Passera, crediamo possano venire maggiori benefici dall’attuazione di ideuzze concrete su come tagliare la spesa che dall’ideona del pareggio di bilancio in Costituzione.
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La riforma del lavoro in Italia dovrebbe rispondere anche al desiderio delle imprese di limitare la dimensione giudiziaria del contenzioso sul lavoro. Negli Stati Uniti molte aziende risolvono la questione stabilendo già al momento dell’assunzione che in caso di controversie il lavoratore ricorrerà all’arbitrato e non al giudice. Una soluzione che comporta alcuni benefici, come mostra uno studio sull’esperienza di una grande società . E, pur con le cautele del caso, suggerisce una riflessione più ampia sulla regolamentazione dell’arbitrato nel nostro diritto del lavoro.
Grazie ai lettori per gli utili commenti che mi permettono anche di meglio specificare la mia proposta.
Prima, però, alcune considerazioni  generali e la manifestazione di risoluto dissenso  su alcuni dei temi sollevati.
Come segnalavo nel mio articolo,  le tentazioni forcaiole soddisferanno forse qualche desiderio di sangue, ma non risolvono nessun problema, anzi ne creano di più.
Giusta una riduzione dei finanziamenti e una puntuale commisurazione a ciò che realmente si è speso, ma pensare di abolire il finanziamento pubblico in queste condizioni significa di fatto regalare i partiti ad occulti condizionamenti della finanza privata , peggiori di quelli che già ci sono.
E’ importante, naturalmente, una  disciplina che definisca tetti massimi  e presidi di assoluta trasparenza dei contributi privati, ma pensare che questi possano essere del tutto sostitutivi delle risorse pubbliche è pura ipocrisia (ed infatti in tutti i paesi europei questo assunto non viene messo in discussione).
Così come è pura ipocrisia pensare che  se si riducono i finanziamenti non siano più necessari i controlli. Ribadisco che gli ultimi scandali derivano dal fatto che nessuno si è preso la briga di verificare come i soldi erano spesi, dimostrando che un buon apparato di controllo  non fa certo miracoli, ma può servire.
Continuo ad avere perplessità sulla attribuzione di un ruolo in tal senso alla Corte dei conti, poichè siamo in presenza non di soggetti pubblici, ma pur sempre di associazioni private.
Per questo l’affidamento delle risorse ad un gestore esterno può rappresentare una soluzione più equilibrata. E’ chiaro poi che non spetta al gestore decidere sulle spese, dovendo agire  in base alle richieste del partito ,ma sicuramente quelle spese avranno chiara tracciabilità con una evidente distanza tra la fase decisoria e quella di erogazione.
Questa soluzione introduce alcuni elementi di rigidità e non rappresenta certo la panacea per tutti i mali, ma quantomeno rende più spessa la barriera tra la politica e la finanza.
Concordo pienamente con chi richiama la necessità di collegare il finanziamento pubblico ad una maggiore democraticità dei partiti, ma qui non ho niente da aggiungere perché i tanti progetti di legge presentati in Parlamento contengono già molte proposte. Si tratta adesso soltanto di attuarle.
Infine utilissime tutte le indicazioni per accentrare e semplificare tutte le forniture di beni e servizi ai partiti;  oltre che per controllare servirebbero anche per risparmiare.
In Italia, gli studenti universitari fuoricorso sono una quota pari al 40 per cento degli iscritti. È un fenomeno dovuto a diversi fattori: dal sistema di regole di accesso e di prosecuzione dell’università alle modalità di finanziamento degli atenei, ai rendimenti della laurea sul mercato del lavoro. Le soluzioni, allora, dovrebbero puntare a rafforzare le attività di orientamento già negli ultimi anni delle scuole superiori, a ripensare l’impianto delle tasse universitarie e a migliorare nettamente i collegamenti fra sistema d’istruzione e mercato del lavoro.
È arduo disegnare un’imposta basata sul valore degli immobili che sia contemporaneamente equa, di semplice applicazione e federalista. E infatti l’Imu è un’imposta abbastanza semplice. Ha però problemi di equità . Perché si parte dall’ipotesi, non sempre vera, che un contribuente possieda altri immobili solo in aggiunta all’abitazione principale. Si può rendere equa l’Imu adottando un’aliquota unica e prevedendo una detrazione fissa per tutti i contribuenti. Ma così si perde il carattere federalista. Che potrebbe essere recuperato, a patto di rendere tutto molto più complicato.
La proposta ABC (Alfano-Bersani-Casini) per un nuovo sistema di finanziamento della politica si limita ad aggiungere qualche regola di trasparenza. Non basta. Anzitutto bisogna capire qual è il livello adeguato di risorse necessarie, se è vero che i partiti hanno speso negli ultimi 15 anni circa un quarto dei finanziamenti ricevuti. Trattandosi di rimborso spese, tali spese vanno documentate e i fondi vanno ripartiti in base ai voti ricevuti dalle liste. Se non bastano, dovranno provvedere iscritti e simpatizzanti stabilendo però un tetto alle singole donazioni.
La sopravvivenza dell’euro è davvero condizionata alla realizzazione di un’unificazione politica, probabilmente prematura? Se l’unione politica stenta, non è detto che spezzare l’unità monetaria accresca il benessere dell’area. I problemi di competitività di alcuni paesi hanno cause che non dipendono dal cambio. Essenziale è invece l’unione della finanza e delle sue regole. E il sistema finanziario europeo dovrebbe essere meno banco-centrico. Mentre servirebbe una procedura comunitaria ufficiale per gestire eventuali ristrutturazioni ordinate dei debiti pubblici.
Mentre i dati congiunturali di fine 2011 e inizio 2012 certificano un peggioramento della congiuntura economica europea, il superindice Ocse suggerisce che le cose andranno meglio nel secondo semestre 2012. Non per tutti allo stesso modo. Per ora le prospettive di miglioramento riguardano Germania e Regno Unito, non Italia, Francia e Spagna. Ma le differenze di prospettive in Europa sono anche una sfida a cogliere le opportunità che la ripresa degli altri presenta anche a chi ancora non vede l’uscita dal tunnel.
Da mesi una campagna mediatica mette l’accento, in maniera quasi ossessiva, sui costi eccessivi per la bolletta elettrica degli italiani di sussidi troppo generosi all’energia rinnovabile. Sono tuttavia incentivi non solo opportuni, ma necessari perché finalizzati a sostenere l’introduzione, l’adozione e la diffusione di nuove tecnologie. I benefici che generano per i cittadini, le aziende e la società nel suo complesso superano di gran lunga il costo. E il governo dovrebbe affermare senza ambiguità che l’obiettivo ultimo è sostituire le fonti fossili di energia con quelle rinnovabili.