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TAV O NO-TAV: È ANCORA QUESTO IL DILEMMA?

In queste ultime settimane la questione della Tav Torino-Lione è andata di nuovo fuori binario. È tornata a essere luogo privilegiato di contrapposizioni ideologiche, di violenze fisiche e verbali, di atti sconsiderati e inaccettabili, di mezze verità e, soprattutto, di parole in libertà.
Noi abbiamo sempre cercato di riportare la discussione sui numeri: dalle previsioni di traffico (in genere ottimisticamente esagerate dai pro-Tav) all’impatto ambientale (in genere pessimisticamente esagerato dai no-Tav). Soprattutto, abbiamo insistentemente richiamato l’attenzione sull’esigenza di valutare i costi sociali e i benefici sociali (vedi la scheda “Analisi costi-benefici: ecco di cosa si parla“) complessivi di questo progetto e di confrontare i risultati con quelli relativi ad altri progetti, data la cronica scarsità delle risorse pubbliche. Siamo perfettamente coscienti che i nostri richiami alla razionalità della decisione possano essere stati strumentalizzati da chi a quest’opera si oppone senza se e senza ma e, soprattutto, senza troppo ragionare.
Recentemente abbiamo mostrato come le successive revisioni del progetto (detta “fasizzazione”) abbiano consentito di ridurne consistentemente i costi e solo marginalmente i benefici (vedi l’articolo “La Torino-Lione si fa low cost: perché solo ora?“). Così, se i conti sembrano indicare che i costi siano ancora superiori ai benefici, la differenza si è molto ridotta; tanto che ora è probabilmente inferiore a quella che si otterrebbe per altri progetti ferroviari (tipo Terzo valico o Napoli-Bari) che pure non suscitano tutta l’opposizione che suscita la Torino-Lione. Viene da chiedersi perché sia così scarsa l’attenzione su questi fatti e perché poco ci si interroghi su cosa abbia spinto a discutere per anni intorno a un progetto faraonico, mentre un’alternativa più economica (anche se non proprio low cost) era a portata di mano. Viene anche da chiedersi cosa spinga il movimento no-Tav a credere che compiendo reiterati atti illegali – compreso il blocco di strade e autostrade che colpisce il diritto di tutti alla mobilità – si possa ottenere qualcosa di diverso dal convincere tutti gli italiani che sono solo degli estremisti senza ragioni, che odiano qualsiasi grande opera pubblica “a prescindere”.
Senza per forza dar credito a identità propagandistiche (tipo: Tav = Modernità, oppure Tav = rimanere attaccati all’Europa) o ad affermazioni molto dubbie (“tanto i soldi ce li mette l’Europa”), sarebbe il caso di accantonare il confronto di piazza, ragionare seriamente e in tempi brevi su quali ulteriori “fasizzazioni” potrebbero contribuire a ridurre ulteriormente i costi e poi lasciar finalmente partire i lavori per la realizzazione di un’opera su cui ben sette governi diversi hanno messo (a torto o a ragione) la faccia. Semmai si dovrebbero concentrare gli sforzi a controllare che i lavori finiscano nei tempi previsti e senza lievitazione dei costi rispetto alle previsioni. Allo stesso tempo, bisognerebbe pretendere che anche per altre opere si arrivi a un ragionevole down-sizing dei progetti e che questi (e non quelli “grandiosi”) vengano sottoposti subito al confronto con gli interessi locali, per poi passare il vaglio di un’accurata valutazione dei costi e dei benefici effettuata da qualche serio e indipendente organismo internazionale.

CALA LA NEBBIA SULL’IMU DEGLI ENTI ECCLESIASTICI

La tassazione Imu degli enti non commerciali, compresi quelli ecclesiastici, è una questione molto delicata. Il governo ha cercato di risolverla con un articolo inserito nel decreto liberalizzazioni. La norma non brilla né per chiarezza né per rigore, oltre a contenere l’ennesimo rinvio a un futuro regolamento ministeriale per aspetti di dettaglio. Se la previgente disciplina Ici era in potenziale contrasto con il divieto comunitario di aiuti di Stato, resta ancora lunga la strada per portare il mondo del non profit italiano nell’alveo della piena compatibilità comunitaria.

ADOZIONI INTERNAZIONALI, UNA FORMA DI COOPERAZIONE

Positiva la nomina del ministro per la Cooperazione a presidente della Commissione adozioni internazionali. L’istituto è un tassello importante di una politica estera orientata allo sviluppo di relazioni di cooperazione con i diversi paesi. Va perciò rafforzato il sostegno delle rappresentanze italiane all’estero a favore degli enti autorizzati, che spesso sono impegnati anche in iniziative di solidarietà destinate all’infanzia e all’adolescenza. Per i genitori adottivi il percorso è caratterizzato da ostacoli burocratici e normativi. E da costi crescenti.

ANALISI COSTI-BENEFICI: ECCO DI COSA SI PARLA

Obiettivo dell’analisi costi-benefici è quello di vedere se alla società (nazionale, regionale, locale, eccetera) conviene fare un investimento piuttosto che un altro, oppure nessun investimento.

LA NOZIONE DI PROFITTO SOCIALE

Per capire, bisogna partire delle aziende private: anche loro investono e devono valutare se  conviene. Hanno come obiettivo il profitto: l’investimento conviene se verosimilmente rende all’azienda di più che mettere i soldi in banca. La comunità sociale ha come obiettivo qualcosa di più “sfumato” del profitto, il benessere collettivo o “profitto sociale”.
Il “profitto sociale” corrisponde alla variazione (che ovviamente dovrebbe essere positiva, ma non sempre, in realtà, lo è) di benessere della società, cioè quanto la società migliora la propria condizione grazie al nuovo investimento rispetto alla condizione di “non-intervento”. Le alternative sono due: non intervenire e lasciare le risorse nelle “tasche dei cittadini” che pagano le tasse, oppure destinare quelle stesse risorse a interventi alternativi: per esempio, costruire un ospedale o una scuola, fare manutenzione del territorio o altri obiettivi che si caratterizzano comunque per il loro contenuto “sociale”.
La società sta meglio se può godere di un maggior reddito, qualsiasi uso poi ne faccia, ma anche se migliora le condizioni ambientali (per esempio favorendo un mezzo di trasporto meno inquinante rispetto a un altro), oppure se l’investimento contribuisce a migliorare il livello di sicurezza, ad esempio, della mobilità delle persone (meno incidenti, grazie all’utilizzo di un mezzo di trasporto più sicuro rispetto a un altro).
L’analisi costi-benefici contribuisce anche a misurare gli effetti di un progetto sulla distribuzione del reddito fra “ricchi e poveri”. Ad esempio, l’investimento in una metropolitana che attraversa i quartieri del centro storico di una città, considerati zone di pregio e abitate da “ricchi” o sedi di banche, centri di ricerca, uffici di grandi multinazionali, contribuisce ad aumentare il valore degli immobili dei proprietari e a trasportare a basso prezzo una quota rilevante di utenti “ricchi”, mentre i lavoratori a basso e medio reddito che abitano e lavorano nei quartieri periferici della città sono comunque costretti nella maggior parte dei casi a utilizzare il mezzo privato, molto più costoso. In questo caso, tramite l’imposizione fiscale, i lavoratori finiscono con il pagare una quota rilevante di un investimento di cui in realtà usufruiscono in misura proporzionalmente minore rispetto alle classi più agiate. Conviene allora costruire una metropolitana con queste caratteristiche o migliorare la rete degli autobus o di altri mezzi su ferro in periferia? Esempio tipico, il metrò vis a vis l’Sfm a Bologna.

COME SI FA

Dal punto di vista metodologico, per decidere se realizzare un investimento piuttosto che un altro o non intervenire affatto, occorre che i diversi beni – “costi” dell’investimento da una parte e suoi “benefici” dall’altra – siano resi confrontabili tra loro, per evitare il rischio di sommare “pere e patate”. Per confrontare cose diverse, si usa misurarle in termini monetari: lo facciamo tutti i giorni, per esempio quando scambiamo il nostro stipendio, frutto del nostro lavoro, acquistando beni di consumo o beni di investimento,  o scegliendo di viaggiare in macchina piuttosto che in treno, o in generale scegliendo un trasporto più veloce e più comodo, ma più costoso, e così via.
Per prima cosa, quindi, si esprimono tutti i costi e tutti i benefici di un progetto in termini monetari. I costi di solito sono quelli di realizzazione dell’investimento e quelli necessari per la sua gestione. I benefici sono misurabili nella riduzione dei costi sociali che quell’investimento consente di ottenere, come il risparmio di tempo di viaggio, i minori rischi per la sicurezza (minori incidenti), il minore inquinamento, i minori consumi di carburante, a volte la minore manutenzione. In molti casi, i minori costi contribuiscono ad aumentare il numero di utenti che utilizzano il nuovo servizio e anche i nuovi utenti si assommano ai precedenti nel godere dei benefici.
Perché un investimento sia conveniente per la società, la somma dei benefici sociali deve superare la somma dei costi, come ovvio.
Quale differenza c’è fra l’investitore privato e quello pubblico? Anche per il privato i benefici, che in questo caso coincidono con i ricavi monetari, devono superare i costi. Però l’investitore privato, investendo risorse proprie e in tal modo “congelandole” per un determinato periodo, pretende anche un “premio” che lo compensi della mancata disponibilità di quelle risorse: avendole disponibili infatti avrebbe potuto investirle in altre cose, o spenderle per sé. Il misuratore del “ premio” si chiama saggio di interesse privato; il suo livello dipende dalla durata dell’investimento e dal rischio che si corre che vada male.
Lo stesso concetto vale anche per gli investimenti pubblici, anche se a seguito di un ragionamento un po’ diverso: la società può spendere soldi per servizi sociali oggi, o investirli in progetti che consentano di avere più servizi sociali e di migliore qualità domani. Ma la preferenza tra spenderli oggi e investirli per averne di più domani dipende a sua volta da quanto siano più urgenti i bisogni sociali oggi rispetto a domani. Se siamo in un paese ricco, la differenza tende a essere non molto grande, perché la possibilità di migliorare ulteriormente un livello di benessere già elevato è, come si dice, marginale; se siamo in un paese in via di sviluppo, tende a essere molto maggiore. Un paese “povero” che costruisce una ferrovia in una regione dove prima ci si muoveva soltanto con il carro a cavalli per strade non asfaltate contribuisce ad aumentare il benessere collettivo in una misura molto maggiore di un paese che costruisce una linea ferroviaria veloce (di solito molto più costosa di quella tradizionale) per ridurre di qualche minuto il tempo di percorrenza fra due città servite da una ferrovia già esistente. Il “misuratore” di questa preferenza si chiama saggio di interesse pubblico, viene definito dallo Stato, e si applica nel fare i conti.
Il saggio di interesse privato, per gli investimenti privati, e quello di interesse pubblico o “sociale”, per quelli pubblici, servono a confrontare investimenti con orizzonti temporali diversi, e logicamente fanno prevalere quelli che consentono di ottenere prima i risultati attesi, a parità del valore assoluto dei costi e dei benefici.
Naturalmente, si può decidere di realizzare un progetto anche se il risultato dell’analisi costi-benefici è negativo o vicino allo zero, sulla base di valutazioni extra-economiche di tipo politico o sociale. L’importante è giustificare le decisioni di fronte alla comunità, assumendosene pienamente la responsabilità.

LA ROULETTE RUSSA DELL’ARTICOLO 18

La protezione di un diritto fondamentale della persona è affidata alla roulette russa che si attiva con l’assegnazione casuale dei processi per cause di lavoro a giudici molto diversi tra loro per tempi e orientamento della decisione. È quanto emerge da una ricerca sulle cause tra lavoratori e datori di lavoro nei tre maggiori tribunali italiani: Milano, Roma e Torino. Gli esiti di ogni azione sono affidati, in ultima istanza, al caso.

IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE GIOVANILE E TOTALE

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TRA LIBERALIZZAZIONI (PARZIALI) E DIRIGISMO

Il decreto “cresci Italia” doveva essere rafforzato nel passaggio parlamentare, estendendo e approfondendo le liberalizzazioni in modo da irrobustire gli effetti di sinergia tra le varie misure e dare così  un contributo sostanziale alla crescita dell’Italia. Stabilendo tempi brevi per la separazione fra Eni e Snam, cambiando la governance degli ordini professionali (separando il sindacato degli iscritti dalla tutela dei consumatori), intervenendo con più decisione su ferrovie, porti e aeroporti, nonché sulle banche e le assicurazioni con stimoli alla concorrenza anziché interventi dirigistici (come il divieto della discriminazione di prezzo o i conti correnti gratuiti per i pensionati). Ancora, bisognava togliere l’esclusiva alle farmacie nella vendita dei farmaci tipo C e abolire del tutto i vincoli al numero di farmacie e di notai. Ma forse era difficile aspettarsi che un parlamento con 341 fra avvocati, medici, ingegneri, commercialisti, architetti, notai, giornalisti e farmacisti (più di un terzo del numero totale di deputati e senatori) avrebbe liberalizzato di più del decreto.
C’è stata invece la diluizione del provvedimento: a leggere il testo del Maxi-emendamento presentato ieri e su cui il governo chiederà la fiducia al Senato, la X Commissione ha imposto alcune marce indietro significative. Il fatto più grave è la data fissata per la separazione fra Eni e Snam: settembre 2013, quando questo Governo non ci sarà più. Sappiamo bene che i provvedimenti lasciati a metà fra due legislature finiscono quasi sempre nel nulla. Perché non fissare allora come data limite il marzo 2013 che avrebbe comunque dato tempo sufficiente per completare l’operazione? Le altre diluizioni sono meno gravi. È stato varato l’incremento nel numero di farmacie ma in misura minore di quanto previsto dal decreto originario del governo, tolto l’obbligo di preventivo per gli avvocati e lasciato che siano i Comuni a decidere sul numero di licenze di taxi (previo parere, non vincolante, della nuova Autorità dei trasporti).  Sulle banche si rafforza ancora di più il dirigismo, abolendo qualsiasi commissione per la pratica del credito. La ratio è che, dato che ci sono tetti sui tassi di interesse, si vuole evitare che le banche per rifarsi aumentino le commissioni. Ma in questo modo si rischia solo di restringere ancora di più l’accesso al credito in un momento in cui il credit squeeze è marcato. Siamo all’antitesi delle liberalizzazioni. Di questo passo dovremmo tornare alle Bin, banche di interesse nazionale. La vera novità positiva è la decisione di istituire subito l’Autorità sui Trasporti (non rinviando a un futuro disegno di legge) e anzi di renderla operativa in breve tempo. Da essa ci si attende una regolazione più razionale e nuova propulsione alla concorrenza in un settore che ne ha molto bisogno.

LETTERA DALL’UNIVERSITÀ DELL’INSUBRIA

Troviamo giusto che i mezzi di informazione si occupino delle vicende dell’Università, anche quando queste non sono le più esaltanti. Niente da dire, quindi, a proposito dell’attenzione che alcuni giornali,siti ecc. hanno recentemente dedicato a un concorso svoltosi presso la Facoltà di Economia dell’Università dell’Insubria (dove lavoriamo in qualità di ricercatori e professori) se non un generale apprezzamento per il ruolo positivo che spesso l’informazione svolge appunto nel portare alla luce situazioni davvero imbarazzanti.
Formalmente – veniamo adesso al concorso in questione e al commento che gli ha dedicato Fausto Panunzi – la Facoltà non c’entra con gli esiti della valutazione : c’è una commissione che valuta e c’è un rettore che sancisce  la legittimità della procedura. La Facoltà non può che prenderne atto. Tuttavia c’è un obiettivo di trasparenza e di massima correttezza che la Facoltà di Economia dell’Insubria vuole perseguire.

Crediamo che vada letta in tal senso   la sua probabile decisione di non chiedere (in questo caso) l’anticipazione della presa di servizio del vincitore della valutazione comparativa in oggetto, in modo da lasciare il tempo adeguato perché ogni ombra sia dissipata. Se così sarà, avremmo da parte della Facoltà un modo per schierarsi concretamente , e non solo a parole (più o meno facili), a favore di quegli obiettivi di trasparenza e correttezza  che prima richiamavamo.


Gianluca Colombo
Patrizia Gazzola
Angelo Guerraggio

TOBIN TAX: ALLA FINE NON SI FARÀ

Nonostante le buone intenzioni, l’introduzione di una Tobin Tax a livello europeo secondo la proposta avanzata dalla Commissione Europea non è auspicabile, sia per i suoi obiettivi sia per i problemi economici e legali che comporterebbe. La soluzione finale potrebbe essere un compromesso politico con l’introduzione di un’imposta di bollo aggiuntiva su azioni e obbligazioni in alcune nazioni come Francia, Germania e Italia. Certo, è un’ipotesi che finirebbe per non accontentare né i fautori né i detrattori della tassa sulle transazioni finanziarie.

BANCHIERI AL TEATRO DELL’ASSURDO

Si sapeva che il decreto privatizzazioni avrebbe portato tensioni con le parti in causa. Era da mettere in conto che le categorie più protette, dai tassisti ai farmacisti passando per gli avvocati avrebbero protestato, anche in forme molto aspre. Ma che l’’Associazione bancaria italiana arrivasse al gesto plateale delle dimissioni in massa dell’’organo di vertice per protesta contro le misure prese da un governo che comprende colui che è stato fino ad ieri amministratore delegato della più grande banca italiana, sfiora il sublime del surreale, degno delle migliori commedie di Ionesco. Il problema non è tanto l’’oggetto del contendere, quello delle misure in materia di commissioni bancarie,  quanto nella guerra di religione che è stata scatenata. In gioco ci sarebbe la libertà di impresa, il posto di lavoro di 300 mila bancari (apprendiamo che tutti si occupano solo di commissioni) e  via elencando in un mulinare di draghinasse. Il fatto è che questa presidenza dell’’Abi, in netta discontinuità con tutte quelle precedenti, ha scelto fin da subito la linea dello scontro frontale. Nei mesi passati, la parte del cattivo è stata assegnata alle autorità di vigilanza che chiedevano alle banche di aumentare il capitale e poiché con la Banca d’’Italia non ci si può mettere in urto, non è sembrato vero sferrare attacchi feroci contro quella europea, l’’Eba, colpevole di aver seguito le indicazioni del Consiglio europeo e di aver condotto un nuovo stress test che ha messo in evidenza un deficit di capitale per 119 miliardi complessivi. Si badi che solo due mesi prima il Fondo monetario internazionale aveva detto che il fabbisogno di capitale delle banche europee era di 200 miliardi. Ma la tesi secondo cui le banche stanno benissimo, sprizzano dalla voglia di concedere prestiti alle imprese, ma non possono farlo solo per l’’ottusità di un regolatore europeo, era troppo facile da cavalcare ed è stata anche amorevolmente assecondata da una parte non piccola della stampa.
Una strategia, al di là di ogni giudizio sullo stile, che non porta lontano, anche perché l’’ultima clamorosa decisione mette in evidenza un dilemma drammatico. Delle due l’’una: o le banche si rifiutano di fare la loro parte, nel momento in cui si chiedono sacrifici a tutti. Oppure sono in condizioni così fragili che non si possono permettere il lusso di un ritocco, piccolo o grande che sia, ai loro ricavi. In ogni caso, sarà bene che qualcuno si affretti ad accettare le dimissioni.

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