L’economia italiana ha prodotto risultati deludenti nell’ultimo decennio. Eppure, quelli che normalmente sono fattori di crescita sono migliorati. Sono aumentati gli investimenti in capitale umano e fisico e quelli in ricerca e sviluppo e si è intervenuti sulla regolamentazione del mercato del lavoro e dei prodotti. A peggiorare notevolmente sono stati invece gli indicatori di governance del paese: efficacia del governo, rispetto della legge e lotta alla corruzione. È questa la zavorra che impedisce all’Italia di crescere. Liberarsene non sarà facile.
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L’ingresso nella moneta unica ha permesso all’Italia di abbattere il costo medio del debito, con un notevole miglioramento del bilancio e una forte riduzione del rapporto debito/Pil, benché lo sforzo di aggiustamento si sia progressivamente affievolito. Dal 2008, il rapporto debito/Pil è ritornato ai livelli di partenza e l’avanzo primario è crollato. Non stupisce che i tassi siano aumentati. Semmai, sono aumentati poco. Perché finora i mercati hanno dato scarso peso ai fondamentali, considerando impensabili bancarotta e uscita dall’euro. Potrebbero ripensarci.
Le scelte di politica economica che il governo avrebbe dovuto prendere erano chiare fin da agosto. Priorità assoluta ai tagli alla spesa, in primo luogo quella previdenziale, e lotta seria all’evasione fiscale. Per la crescita, liberalizzazione dei servizi e delle professioni, per creare concorrenza dove oggi esistono situazioni di forte potere di mercato, e privatizzazioni. Ma la lettera inviata ai partner dell’Unione Europea parlava d’altro. Neanche l’opposizione sembra avere risposte adeguate. I mercati non hanno apprezzato per nulla e lo spread è arrivato a livelli record.
I mercati finanziari hanno accolto molto bene i risultati del vertice europeo del 26 ottobre. I governi sono stati capaci di evitare una rottura drammatica tra di loro e con le banche, dando l’impressione di avere preso misure importanti e promettenti. A ben vedere, però, il comunicato finale desta qualche perplessità . Sulla Grecia si è arrivati a una insolvenza mascherata, che potrà avere effetti destabilizzanti. L’intervento sulle banche potrebbe provocare una stretta creditizia. La riforma del Fondo europeo di stabilità è ancora avvolta nella nebbia.
Nel 2008 l’Islanda è stata travolta da un tracollo finanziario senza precedenti. Ma la crisi non era solo economica, era soprattutto politica. Una rivoluzione definita delle “pentole e padelle” ha ottenuto il cambio di governo e l’elezione di un’assemblea costituente con il compito di riscrivere la costituzione del paese. La proposta ora è pronta. Insiste su trasparenza, giustizia e lotta alla corruzione. Prevede anche la proprietà statale delle risorse naturali. Da sfruttare in modo responsabile, pensando alle generazioni future.
Nella lettera all’Europa il governo non ammette né gli errori fatti in questi anni né la necessità delle riforme indipendentemente dalla crisi in atto. Le misure indicate rimarranno solo vuote promesse? Se vogliamo che la Bce continui ad acquistare i nostri titoli di Stato, bisogna passare ai fatti. Tanto più se le proposte non mancano, come nel caso della riforma del mercato del lavoro. Gli interventi possibili contro la precarietà e l’evasione fiscale. E in una fase di debolezza del mercato interno, serve anche un sostegno ai redditi delle famiglie.
Il 26 ottobre 2011, in seguito alla richiesta delle autorità europee, il Governo italiano ha presentato a Bruxelles una lettera d’intenti con una di provvedimenti che dovrebbero servire a far ripartire l¹economia e a promuovere la crescita. Poco più di un elenco di titoli. Ma con precise scadenze entro le quali riempirli di contenuti ed attuarli. Pubblichiamo questa scheda con lo scadenzario degli impegni.
Renzo Moser sostiene che il “Fondo ferrovia” (450 milioni ad oggi) debba ritenersi di proprietà della società Autobrennero (“SAB”) in quanto accumulato a fronte di utili non distribuiti agli azionisti. Non essendo un giurista, mi limito ad osservazioni di tipo economico. L’obbligo ad effettuare accantonamenti annui minimi al fondo e l’esenzione da imposte farebbero propendere per ritenere che la proprietà sia dello Stato (che, rinunciando alle imposte, ha contribuito per oltre un terzo del fondo). Altrimenti, l’esenzione da imposte sarebbe davvero anomala e difficile da giustificare: esistono in Italia altri casi analoghi? La fattispecie va poi inquadrata nel contesto del rapporto concessorio. La concessione della SAB scadeva nel 2005, e l’autostrada già allora era stata interamente ammortizzata, pur dopo rivalutazioni monetarie e capitalizzazione di oneri (vedasi il mio libro citato nell’articolo). Ma la SAB ottenne, gratuitamente, una proroga della concessione di 8 anni e 4 mesi, sino all’aprile 2014, grazie anche all’impegno di accumulare il fondo ferrovia. Gli utili conseguiti dalla SAB in questi 8 anni sono di gran lunga superiori agli accantonamenti nel fondo. Anche se venisse deciso che la proprietà del Fondo è dello Stato, non mi pare che gli azionisti avrebbero di che dolersi.
Se lo Stato avesse ripreso la concessione nel 2005 e l’avesse gestita in proprio (es tramite Anas) avrebbe potuto accumulare ben più del doppio per destinarlo magari proprio alla ferrovia del Brennero. Un’ultima osservazione. Ai tanti che in questo come in altri casi di concessionarie si appellano indignati ai diritti degli azionisti suggerisco di rifare la storia di queste società e verificare quanto abbiano mai versato gli azionisti all’origine. Nel caso della Autobrennero, meno di 3 miliardi di lire di allora, cifra davvero risibile se confrontata con il flusso di dividendi percepiti e l’imponenza dei profitti accumulati.
L’articolo intende ricordare che la povertà relativa e la povertà assoluta rappresentano due indicatori concettualmente distinti. La “povertà relativa”, a dispetto di quanto suggerito dal termine, coglie la disuguaglianza della distribuzione piuttosto che la presenza di povertà . Se dunque si è interessati al fenomeno della povertà , conviene utilizzare altre misure, per esempio la povertà assoluta oppure la vulnerabilità alla povertà . Ciò non implica in alcun modo che l’andamento temporale e territoriale della disuguaglianza dei redditi sia un fenomeno privo d’interesse. In altre sedi abbiamo sostenuto esattamente il contrario (si vedano i capitoli “Disuguaglianza” e “Povertà ” in “In ricchezza e in povertà ” di G. Vecchi). Se l’oggetto di interesse è la disuguaglianza, esistono strumenti appositi per misurarne l’evoluzione e studiarne la struttura, per esempio l’indice di Gini, per citare l’indicatore forse più famoso (la letteratura è riassunta molto bene nel libro di Frank Cowell, Measuring Inequality, non ancora disponibile tuttavia in italiano).
Nell’articolo si ribadisce, inoltre, che la povertà assoluta non deve essere associata a una nozione di povertà estrema. La soglia di povertà assoluta dipende dal valore di ciò che si ritiene essenziale per un’esistenza dignitosa, adeguata alla società alla quale si riferisce. Alla definizione di povertà assoluta concorrono elementi e scelte che sono spesso l’esito di un processo politico tra le parti sociali di un paese. In tal senso, e in punta di teoria, la soglia di povertà assoluta può essere anche maggiore della soglia di povertà relativa.
La dinamica divergente della povertà assoluta tra il nord e il sud del paese segnala di certo il fallimento del processo d’integrazione economica tra le due aree, ma non ha alcuna implicazione normativa in favore di un modello dualistico di sviluppo; tutt’altro, saremmo tentati di dire.
Riguardo al grado di copertura delle stime presentate è certo che vi siano segmenti della popolazione che sfuggono alla rilevazione statistica. I limiti in questo caso, sono quelli imposti dallo schema di campionamento delle indagini campionarie che, com’è noto, in Italia come altrove, non raggiungono le persone senza fissa dimora. Le indagini sui consumi e sui redditi delle famiglie condotte da Istat e Banca d’Italia estraggono le famiglie da intervistare dalle anagrafi di ogni comune campione. In questo senso sembra ragionevole immaginare che le stime campionarie tendano a sottostimare il fenomeno della povertà , anche se non è dato sapere di quanto.