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I FATTORI SCATENANTI DELLE RIVOLTE IN NORD AFRICA

Dalla fine del 2010 in molti paesi del Nord Africa e del Medio Oriente si sono succeduti dei movimenti di popolo, più o meno pacifici, da cui sono derivati dei forti cambiamenti geopolitici. Bottazzi ed Hamaui evidenziano come le condizioni sociali e politiche siano tra i fattori determinanti della rivoluzione egiziana.
È vero ciò anche negli altri paesi in cui le rivolte sono state particolarmente intense?

Tabella 1 – Indicatori economici dei paesi coinvolti dai movimenti popolari

  Pil procapite
(mgl dollari in PPP)*
Inflazione* Tasso di disoccupazione* Economic freedom index
2011

(score)**
Global competitiveness index
2010-2011
(score)***
Indice del livello di istruzione e formazione
2010-2011 (score)***
Indice dell’efficienza mercato del lavoro2010-2011
(score)***
Algeria 6.9 5.7% 10.2% 52.4 4.0 3.6 3.7
Arabia Saudita 23.2 5.1% 11.7% 66.2 4.9 4.5 4.4
Bahrein 27.1 2.8% 15.0% 77.7 4.5 4.6 4.8
Egitto 6.1 16.2% 9.4% 59.1 4.0 3.6 3.4
Giordania 5.6 -0.7% 12.9% 68.9 4.2 4.3 3.9
Iran 11.2 10.3% 11.8% 42.1 4.1 3.8 3.4
Libia 14.3 2.7% 30.0% 38.6 3.7 3.6 2.8
Marocco 4.6 1.0% 9.1% 59.6 4.1 3.5 3.5
Oman 25.1 3.5% 15.0% 69.8 4.6 4.2 4.7
Siria 4.9 2.5% 8.5% 51.3 3.8 3.3 3.4
Tunisia 8.3 3.7% 14.7% 58.5 4.7 4.9 4.3
Yemen 2.5 3.7% 35.0% 54.2 nd nd nd

* I dati si riferiscono all’ultimo anno disponibile.  ** Livello massimo pari a 100.  *** Livello massimo pari a 7.
Fonte: Heritage Foundation, World Economic Forum e CIA-World Factbook.

IL CONFRONTO TRA INDICATORI

Per rispondere a questa domanda abbiamo preso in considerazione i dati (1) riportati nella tabella 1.  Tra i paesi considerati notevole è la dispersione in termini di Pil procapite. Il Bahrein risulta avere il reddito procapite più elevato: è infatti circa il doppio di quello della Libia e 10 volte superiore a quello dello Yemen. Nonostante l’elevato reddito medio il Bahrein risulta comunque avere un alto tasso di disoccupazione (15 per cento), sugli stessi livelli di quello della Tunisia (2). Con l’8,5 per cento la Siria è invece il paese con la disoccupazione più contenuta. Anche in termini di inflazione le differenze sono notevoli. La maggior parte dei paesi si attesta intorno al 3-4 per cento, mentre in Egitto e Iran si registrano variazioni dei prezzi al consumo a due cifre. La Giordania è l’unico paese a trovarsi in un contesto di deflazione. Relativamente alla libertà economica si osserva che il Bahrein mostra un indice particolarmente elevato, mentre in fondo alla classifica si attesta la Libia. Sul fronte della competitività internazionale, sul grado di istruzione e formazione e sull’efficienza del mercato del lavoro primeggiano l’Arabia Saudita, la Tunisia, l’Oman e il Bahrein, mentre i restanti paesi si attestano su livelli sufficientemente vicini.
In sintesi, i dati riportati nella tabella 1 non sembrano segnalare che i paesi coinvolti dai conflitti civili abbiano molti aspetti di natura economica in comune.
Alcuni interessanti spunti di analisi emergono contestualizzando le caratteristiche economiche dei paesi in rivolta rispetto al resto del mondo. Dal ranking mondiale per ognuno degli indicatori considerati, si riscontra che l’unico indice per cui nei dodici paesi esaminati nessuno supera la metà della classifica internazionale è quello relativo alla disoccupazione. L’esistenza di mercati del lavoro non in grado di offrire livelli occupazionali adeguati, se paragonato ad altre realtà economiche, può essere quindi individuato come un fattore che accomuna tutti i paesi in cui si sono registrate rivolte popolari. Il problema della disoccupazione è ancor più sentito in questi paesi in quanto c’è un connubio tra l’alta incidenza della popolazione in età lavorativa e l’alto tasso di disoccupazione giovanile (in Tunisia il 70 per cento della popolazione è concentrato nella fascia di età 15-64, mentre il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 31 per cento).

LA PARTICOLARITÀ DELLA TUNISIA

Si può ulteriormente notare come la popolazione tunisina, che si caratterizza per l’elevato livello di istruzione e formazione (il relativo indicatore vede la Tunisia al 30° posto su quasi 140 paesi; l’Italia in questa classifica si attesta solo in 47° posizione.) sia stata proprio quella ad aver dato il via ai movimenti popolari nel finire del 2010. Tra i fattori che hanno permesso che ciò avvenisse c’è probabilmente la maggiore consapevolezza delle proprie condizioni socioeconomiche (in Tunisia circa il 50  per cento dei disoccupati ha un livello di istruzione medio-alto) e la più ampia diffusione degli strumenti di comunicazione. Con riferimento a quest’ultimo punto va rilevato come proprio in Tunisia l’utilizzo della telefonia mobile, di Internet e dei social network sia particolarmente diffuso (circa il 21 per cento della popolazione è iscritta a Facebook, contro una media mondiale di poco meno del 10 per cento – cfr. tabella 2). 

Tabella 2 – Livello di utilizzo dei mezzi di comunicazione e dei social network
dati in % della popolazione

  Utenti Internet
2009
Utenti Facebook
2011
Utenti telefonia mobile
2009
Data di inizio delle rivolte popolari
Tunisia 33,5 21,2 93,5 17/12/2010
Giordania 29,3 21,7 101,1 14/01/2011
Oman 43,5 7,7 139,5 17/01/2011
Yemen 1,8 1,1 16,3 18/01/2011
Egitto 20,0 7,4 66,7 25/01/2011
Bahrein 82,0 27,1 199,4 14/02/2011
Iran 38,3 nd 72,1 14/02/2011
Libia 5,5 4,8 77,9 16/02/2011
Marocco 32,2 9,5 79,1 20/02/2011
Algeria 13,5 4,7 93,8 22/02/2011
Arabia Saudita 38,6 13,6 176,7 23/02/2011
Siria 18,7 nd 46,0 26/03/2011
Media mondiale 27,1 9,5 69,0  

Fonte: nostre elaborazioni su dati Banca Mondiale e Facebook.

Si può poi notare come anche in Giordania e Oman, paesi che da un punto di vista cronologico hanno per primi seguito le vicende tunisine, ci sia un’ampia diffusione di Internet e della telefonia mobile, ad evidenziare come la maggiore circolazione delle informazioni sia tra le principali determinanti di quell’effetto domino che ha provocato l’estensione delle proteste in tutta l’area del Nord Africa e del Medio Oriente.    

QUALI INDICAZIONI PER LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE?

Prescindendo da considerazioni prettamente politiche, dalle informazioni fin qui descritte sembrerebbe emergere che se la comunità internazionale vuole affrontare in modo strutturale il problema delle popolazioni insorte deve intervenire in primo luogo sui relativi mercati del lavoro, favorendone l’efficienza e lo sviluppo. L’Europa, in particolare, potrebbe beneficiare di questa politica: da un lato, infatti, si ridurrebbero i flussi migratori provenienti dai paesi interessati dalle rivolte; dall’altro, la crescita di benessere delle popolazioni del Nord Africa e del Medio Oriente potrebbe far aumentare i mercati di sbocco per le merce europee, posto che in quelle aree vi vivono più di 300 milioni di persone. 

(1) La lista dei paesi considerati nell’analisi è stata definita sulla base di questa mappa.
(2) La presenza di una forte disoccupazione anche in paesi con elevati redditi procapite discende anche da scelte di natura politica. Come ben evidenziato da Laidi su questo sito. tutti i regimi autoritari hanno interesse a che la popolazione sia dipendente dal potere e dalle sue ricchezze. Si preferisce infatti governare una popolazione disoccupata in quanto è dipendente dallo Stato.

*Le opinioni espresse appartengono esclusivamente agli autori e non sono quindi attribuibili all’Istituto di appartenenza.

 

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringraziamo tutti per gli utili commenti ad una riflessione di due economisti che, lo ripetiamo, resta confinata all’ambito dell’analisi economica del diritto. Ad essa vanno certo affiancate altre considerazioni, di diversa natura.

Noi ci siamo limitati, come dice Giorgio Zanarone, ad una lettura neutra, a leggere cioé la norma e ad analizzarne gli effetti in termini di incentivi, indipendentemente da ogni pur meritevole considerazione di altro genere. Opportunamente, Federico Grillo Pasquarelli traduce per noi in cifre i processi eliminati dalla norma, una volta approvata, secondo i dati forniti dal Ministro Alfano: quel trascurabile 0,05% dei processi interessati dalla norma comporterebbe circa 6000 o 7000 processi che muoiono d’un tratto. Un numero impressionante, se pensiamo alle altrettante presunte vittime che aspettano giustizia. Qualche imputato ne avrà un beneficio, ma si tratta certamente di un “peggioramento paretiano”.

Il punto che invece abbiamo voluto sottolineare é che, secondo l’approccio di analisi economica del diritto, tra le motivazioni che spingono a commettere un illecito o un reato vi è il confronto tra benefici attuali privati e costi attesi privati. Questi ultimi derivano dal valore della sanzione (monetaria e/o non monetaria) moltiplicata per la probabilità di essere scoperti e condannati, se colpevoli. La prescrizione dei tempi processuali evidentemente riduce questa probabilità. Ci sono, in genere, ottime motivazioni sociali per questo e la letteratura che citiamo le evidenzia. Si contemperano due esigenze: quelle della vittima e quelle dell’imputato. Un cittadino che non ha commesso il reato, ad esempio, viene liberato da un peso ingiusto, a meno che non preferisca usare il processo per dimostrare compiutamente la propria innocenza. Ci rendiamo conto che è una visione particolare, quella appunto dell’analisi economica al diritto, e ha certamente ragione Federico Grillo Pasquarelli quando evidenzia che altre motivazioni possono manifestarsi.

Nel nostro schema, ciò che difficilmente trova una spiegazione razionale in termini di policy è il diverso trattamento dei tempi di prescrizione, tra incensurati e non, che la nuova norma introduce. La prescrizione viene cioè modulata non in funzione dei reati, ma dei rei. E’ qui il vulnus, anche economico. Perché è vero che tra gli incensurati vi possono essere innocenti (come evidenziato da Francesco Saverio Salonia), ma vi saranno anche i colpevoli, cioè persone che effettivamente hanno commesso l’illecito o il reato per il quale sono imputati. Al tempo stesso tra i recidivi sotto processo, vi potranno essere innocenti. Il punto che abbiamo voluto evidenziare è che trattare diversamente, ai fini della prescrizione, non già i diversi reati ma i diversi rei può generare effetti perversi. Perché la quota di coloro che hanno commesso reati e che non sono stati (ancora) condannati potrà aumentare in quanto per questi soggetti la sanzione attesa diminuirà. Per via di questo meccanismo, la norma novellata ridurrà la deterrenza. Non abbiamo assunto pertanto, come osservato da Francesco Saverio Salonia, che tutti gli imputati abbiano effettivamente commesso il reato, abbiamo solo convenuto che tra questi, coloro che sono colpevoli ma incensurati avranno ridotti incentivi a rispettare la legge. Non bisogna confondere il piano dell’errore giudiziario post-sentenza (innocenti giudicati colpevoli), con il piano dell’accertamento pre-sentenza (colpevoli prescritti in quanto incensurati).

E’ vero, come rilevato da Matteo Villa, che a seguito di questa norma si potranno generare nuovi (convergenti?) equilibri, ma il nostro ragionamento vale per ogni “nuova” generazione di rei e dunque è altamente probabile, nel nostro schema logico che i reati incrementino a seguito della riduzione di deterrenza generata da una riduzione della prescrizione, anche se per la sola popolazione di incensurati.

Nella nostra lettura abbiamo ovviamente “assunto”, come dice Raffaello Morelli, che a fronte di un processo vi sia un illecito o un reato. Cioè un fatto contrario alla legge. E che quindi qualcuno quel fatto lo abbia commesso, ovvero che vi “debba” essere un colpevole che possa o meno essere poi coinvolto in un processo. E’ certamente vero, come suggerisce Morelli, che questa prassi dell’approccio economico al diritto si possa scontrare con l’idea, giuridicamente vincolante, che è unicamente il processo a stabilire tanto l’esistenza di un reato quanto l’eventuale colpevolezza. Se questo è vero, a maggior ragione però occorrerebbe evitare di intervenire prima del processo, trattando diversamente rei e incensurati, in quanto si utilizzerebbe una verità non processuale “prima” che siano accertati fatti, reati e rei. Peraltro, il piano dell’analisi economica del diritto, per la parte che qui rileva, si basa sulla deterrenza ovvero sugli incentivi a commettere o meno un illecito o un reato in funzione delle regole previste. Dunque il modo in cui “funziona” un processo, nonché il sistema di controlli che lo attiva, influenzano gli incentivi a commettere o meno reati, ceteris paribus. Le conseguenze logiche dell’osservazione di Morelli ci paiono, invece, alquanto estreme, se non paradossali.

Marco Pierini e Giorgio Zanarone evidenziano come il problema della giustizia italiana sia dato da un lato dalla inefficiente macchina amministrativa e dall’altro dai lunghi tempi dei processi. E’ su quel piano che occorrerebbe intervenire. Non già eliminando il processo, con incentivi perversi ai rei. ma garantendone il suo svolgimento in tempi accettabili, con incentivi opportuni a tutti gli attori, giudici e avvocati. Magari depurando le opportune esigenze garantiste dal crescente opportunismo da “azzeccagarbugli” volto ad allungare i processi per ottenere la prescrizione dei reati.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Grazie per la diecina di commenti. Rispondo brevemente, in modo “collettivo”. Semplificando un po’ – ma non troppo, le questioni sollevate sono tre: (i) bisognerebbe saperne di più, sulle varie forme e caratteristiche del lavoro “precario”; (ii) serve un welfare diverso, improntato a criteri di universalismo e di equità – e per un intervenuto anche di flessibilità quanto a licenziamenti; (iii) occorre avere una prospettiva di medio-lungo periodo, per essere consapevoli dei problemi che si porranno e cominciare ad affrontarli sin da adesso.
Sulla sostanza dei commenti sono d’accordo. Faccio qualche precisazione.

BISOGNEREBBE SAPERNE DI PIÙ, SUL LAVORO “PRECARIO”

È vero. I dati amministrativi che ho presentato riguardano le assunzioni e cessazioni di rapporti di lavoro dipendente – a meno di quello domestico e di quello intermittente – e le collaborazioni di tipo subordinato – co.co.pro. e lavoro a chiamata. Mancano i lavoratori precari “camuffati” da partite IVA e da tirocini o stage (Maurilio M). I dati si riferiscono a movimenti – entrate e uscite dal lavoro dipendente e parasubordinato – e non alle “teste”, cioè al numero di lavoratori coinvolti (Paolo R). Servirebbero dati tempestivi anche su mansioni e salari (Luca V). Aggiungo che sappiamo molto poco sul lavoro nero, e per buoni motivi: è difficile  documentare la dinamica corrente di un fenomeno “nascosto” perché irregolare.
Ciò detto, il fuoco della nota era sulle opportunità che offre una nuove fonte: i dati amministrativi sulle comunicazioni obbligatorie elaborati in maniera omogenea da alcune Regioni. I motivi per i quali sono interessanti sono due: riguardano flussi – assunzioni e cessazioni – e sono quindi particolarmente utili per cogliere l’evoluzione della congiuntura; sono resi disponibili con notevole tempestività – hanno anticipato di qualche settimana le stime trimestrali dell’Istat sulle forze di lavoro.
Certo, c’è dell’altro da sapere. Il fatto è che, nonostante il profluvio di previsioni normative – dal pacchetto Treu del 1997alla  riforma Maroni del 2004, il ritardo nella compiuta attuazione di un “Sistema Informativo del Lavoro” è stupefacente. E l’entità del ritardo risalta con maggior evidenza se si ricorda che i primi infelici (e costosi) tentativi di realizzare un “Teleporto del Lavoro” risalgono a circa trent’anni fa.
Il problema, poi, non è solo nei dati. Partite IVA e tirocini o stage che “camuffano” occupazione dipendente precaria, e ancor più il lavoro nero, chiamano in causa una regolazione inadeguata dei rapporti di lavoro e, soprattutto, carenze nella vigilanza e nel controllo sull’applicazione di norme sul lavoro (Isabella N).

SERVE UN SISTEMA DI WELFARE PROFONDAMENTE DIVERSO

È risaputo che il nostro mercato del lavoro è segmentato e che l’impianto degli ammortizzatori sociali obbedisce a una logica categoriale, frammentata. Purtroppo, con  la crisi economico-finanziaria del 2008, e i suoi riflessi sull’occupazione, questi tratti si sono accentuati. L’indirizzo scelto dal Governo, infatti, può essere riassunto in due affermazioni:
(a)  questo non è il tempo delle riforme, ma degli interventi-tampone in attesa che “passi la nottata”. Detto altrimenti, si accantona  ogni ipotesi di riforma del welfare e ci si concentra su interventi puntuali;
(b)   vi è una forte concentrazione degli interventi in favore del mantenimentodell’occupazione, mirati cioè ai lavoratori sospesi – prevalentemente lavoratori con contratto a tempo indeterminato, e l’estensione di benefici a categorie di lavoratori precedentemente esclusi avviene secondo una logica derogatoria e particolaristica.

Pagano soprattutto i “precari”: in larga parte giovani, ma anche meno giovani – gli  “ultraquarantenni” (Giulio). La strada per uscire da questo cul de sac non può che essere una profonda riforma della regolazione dei rapporti di lavoro e del welfare. Quali i criteri ispiratori? Li riassumo in due parole-chiave: “universalismo selettivo” – un binomio solo apparentemente contraddittorio, che segnala la scelta per interventi generalizzati per chi si trovi in condizioni di bisogno; equità distributiva. Tutto da inventare? No. Ci sono gli esempi virtuosi di vari paesi, condensati in una parola: flexicuruty, insieme flessibilità nei rapporti di lavoro (Luca G) e sicurezza sociale,  realizzata quest’ultima con un sistema universalistico – largamente omogeneo, selettivo quanto a requisiti di ammissibilità, con “diritti e doveri” per i beneficiari (Vincesko).
Ma quanto tempo richiede? Non pochissimo – anche perché i vincoli della nostra finanza pubblica sono severi, ma neppure un’eternità. Abbiamo un esempio alle porte di casa: la Germania. Provata dalle conseguenze dell’unificazione, affronta il problema nel 2002: una Commissione nominata dal Governo federale lavora da febbraio ad agosto; Parlamento e Governo mettono in atto le riforme in tre tappe – a gennaio del 2003, del 2004 e del 2005; le riforme sono sistematicamente monitorate e valutate nei loro effetti, e progressivamente “aggiustate”. Certo, servono lungimiranza, determinazione e largo consenso: merci che, purtroppo, da noi non abbondano.

E’ NECESSARIA UNA PROSPETTIVA DI MEDIO-LUNGO PERIODO

Questo ci porta all’ultimo punto. Le questioni basilari con cui l’Italia deve confrontarsi sono strutturali: perdurante stagnazione, bassa crescita della produttività, in prospettiva rischio di squilibri previdenziali – nel senso, largo, dell’emergere di una massa di “pensionati poveri”, ai cui bisogni occorrerà comunque far fronte (Dino B, Roberto A).
La risposta è in due indirizzi di fondo, strettamente connessi:
(a)  riprendere un percorso di crescita – tra l’altro, la flexicurity è sostenibile soltanto in un quadro di sviluppo e di alta occupazione;
(b)  non limitarsi a tamponare alla bell’e meglio i problemi di oggi, ma guardare al futuro. «È [nella] “veduta corta”, in questa incapacità di andare oltre il calcolo di breve periodo e di guardare il futuro lungo che sta la radice più profonda della crisi in atto».(1)

(1) Tommaso Padoa-Schioppa, La veduta corta. Conversazione con Beda Romano sul Grande Crollo della finanza, Bologna, Il Mulino, 2009.

LA PARTITA È SOLO ALL’INIZIO

La caduta di Geronzi non significa un rinnovamento del capitalismo italiano perché i nuovi attori non hanno proposto un disegno alternativo, ma hanno semplicemente costruito nuovi intrecci che si sono avviluppati intorno a quelli vecchi. La novità invece è la sempre più attiva partecipazione dei fondi internazionali alle assemblee. Si profila dunque uno scontro duplice: da un lato quello fra protagonisti vecchi e nuovi del nostro capitalismo di relazioni e dall’altro quello fra la via italiana alla governance dei grandi gruppi e le prassi dei mercati internazionali.

 

PNR: PROPRIO NESSUNA RIFORMA

Sono quattordici le misure programmatiche elencate nel Piano nazionale delle riforme, presentato questa settimana dal Consiglio dei ministri. Alcune sono semplici piani, altre sono titoli vuoti, come la promozione delle energie rinnovabili. Oppure sono già in vigore, peraltro senza dimostrarsi risolutive. Altre ancora prevedono un iter lunghissimo. In realtà il governo potrebbe benissimo procedere subito su molti terreni, anche perché verso la fine della legislatura non avrà più la forza per varare alcuna riforma. L’eccezione, naturalmente, è la riforma della giustizia.

DEI DELITTI E DELLE PENE. E DELLE PRESCRIZIONI

La norma sulla prescrizione breve sposta la distinzione tra recidivi e chi viola la legge occasionalmente dal momento della decisione della pena a quello dell’accertamento dell’illecito, riducendo la possibilità di condanna per i criminali incensurati. Non serve a combattere il recidivismo né a introdurre un garantismo efficace. Se nel lungo periodo produrrà un numero inferiore di condannati, ciò non sarà la virtuosa conseguenza di una riduzione delle recidive, quanto il risultato di una minore probabilità di punire chi ha commesso un reato, ma non ha precedenti penali.

QUELLE PAROLE IN LIBERTÀ SUI MIGRANTI

Dal Nord Africa sono arrivate finora in Italia circa 30mila persone, non certo lo tsunami umano di cui parla il presidente del Consiglio. Dopo aver rifiutato di ratificare tre direttive europee sull’immigrazione, ora invochiamo, a sproposito, la libera circolazione per i migranti cui abbiamo concesso la più debole delle figure giuridiche della protezione internazionale. Tutti i paesi europei hanno irrigidito le procedure per l’ingresso, ma hanno accolto masse di rifugiati ben più consistenti. Invece di autoisolarci, dovremmo cercare di costruire soluzioni condivise a livello europeo.

INVESTIAMO IN RINNOVABILI E RISPARMIO ENERGETICO

All’inizio della legislatura è stato riproposto, non senza polemiche, il nucleare nel mix energetico del nostro paese. Gli avvenimenti in Giappone hanno ancora una volta posto in primo piano i rischi di questo tipo di tecnologia riportando alla mente quanto accaduto a Černobyl’ il 26 aprile del 1986 insieme alla pericolosità delle stesse centrali nucleari. Oggi, l’opinione pubblica italiana è fortemente contraria all’utilizzo dell’atomo per produrre energia. In un recente sondaggio del Sole 24Ore nel quale veniva chiesto agli intervistati se erano o meno favorevoli al ritorno al nucleare, il 61 per cento delle persone si è dichiarato contrario, mentre alla domanda su quale futuro energetico sia auspicabile per il paese, il 59 per cento ha risposto dicendosi favorevole alle fonti rinnovabili e solo l’11 per cento al nucleare.

REFERENDUM VECCHI E NUOVI

Qualche volta la memoria storica del nostro paese dimostra di essere piuttosto corta. Nel 1987 gli italiani furono chiamati a pronunciarsi su tre referendum in materia di nucleare: il primo per “l’abolizione della procedura per la localizzazione delle centrali elettronucleari”, il secondo per “l’abolizione dei contributi a Regioni e Comuni sedi di impianti elettronucleari” e il terzo per “l’abolizione della partecipazione dell’Enel alla realizzazione di impianti elettronucleari all’estero”. In tutti e tre i casi le percentuali di contrari furono schiaccianti: rispettivamente 80,6 per cento, 79,7 per cento e 71,9 per cento.
Come prevedibile il “nuovo” referendum sul nucleare, che si terrà il 12 e il 13 giugno prossimo, dovrebbe trasformarsi in un plebiscito di voti contrari e, se così fosse, sarebbe davvero opportuno mettere da parte una volta per tutte l’argomento e investire massicciamente su fonti pulite e inesauribili come sole e vento. Non possiamo più correre dietro a una tecnologia che le Regioni non vogliono e che l’opinione pubblica ha dato più volte mostra di rifiutare. Riguardo al prossimo referendum, Eugenio Scalfari, intervistato il 14 marzo da ‘La7’, ha forse riassunto meglio di altri le motivazioni che lo portano a essere contrario al nucleare. Scalfari ha detto che “il nucleare comporta molti rischi, se fosse fondamentale per i nostri approvvigionamenti di energia forse voterei a favore, ma è estremamente costoso e non è affatto fondamentale né come prezzo né come quantità e quindi, non essendo necessario, prevale la considerazione del rischio”.

LA CAUTELA DI MOLTI PAESI

Considerando i tempi, i costi e i rischi di nuovi impianti nucleari, viene da chiedersi quale sia stato il motivo che ha portato sotto i riflettori il rinnovato interesse per il nucleare: secondo l’economista Paolo Leon “a livello economico ci conviene importare l’energia dalla Francia”. A prescindere dalle possibili motivazioni, una cosa è certa: in Germania Angela Merkel, ha deciso di posticipare l’inizio dei lavori per prolungare la vita dei diciassette reattori nucleari del paese. La Svizzera ha sospeso le procedure in corso relative alle domande di autorizzazione per nuove centrali nucleari e la città di San Gallo ha deciso, con il 61,4 per cento dei voti, di abbandonare gradualmente l’energia nucleare entro il 2050 utilizzando le energie rinnovabili e promuovendo l’efficienza e il risparmio energetico. Il risultato del referendum fa ora parte del codice comunale cittadino.
In Belgio il ministro dell’Interno Turtleboom, esponente dei liberali fiamminghi da sempre favorevoli all’energia atomica, ha invitato a “incoraggiare le energie rinnovabili perché – si legge in una nota dell’Adnkronos – quello che succede in Giappone avrà un’influenza sulla nostra riflessione a proposito del prolungamento di vita delle centrali belghe”. La stessa Australia, che ha il 30 per cento delle miniere di uranio, ribadisce attraverso il premier Julia Gillard il suo ‘no’ alla costruzione di centrali. La posizione dei laburisti non lascia dubbi “non puntiamo allo sviluppo di un’industria nucleare in questo paese”.
In Canada lo scorso 16 marzo la Ontario Power Generation ha comunicato al Federal Nuclear Regulator canadese lo sversamento nel lago Ontario di circa 73mila litri di acqua demineralizzata dalla centrale nucleare di Pickering, a 35 chilometri a est di Toronto. La centrale è una delle cinque presenti in Canada e sembra che l’incidente sia stato causato dal guasto di una guarnizione. Nonostante le rassicurazioni della Canadian Nuclear Safety Commission, lo sversamento potrebbe essere in realtà molto preoccupante, perché il lago Ontario è la principale fonte di acqua potabile per milioni di persone che vivono nelle sue vicinanze.
Il nostro paese deve ridurre la propria dipendenza energetica dall’estero e investire in un mix di fonti energetiche. Nel corso degli ultimi decenni siamo sempre più diventati energivori, ormai non si può più attendere: bisogna investire in impianti per lo sfruttamento delle fonti energetiche rinnovabili (sole, vento, suolo, acqua, biomasse) e nel risparmio energetico. Basti considerare che in un appartamento, attraverso pareti e finestre, si disperde più della metà dell’energia prodotta dall’impianto di riscaldamento, mentre un buon isolamento può ridurre la dispersione anche del 50 per cento. In un interessante volume del 2009 edito da Feltrinelli, dal titolo La nuova ecologia politica. Economia e sviluppo umano, Jean-Paul Fitoussi e Éloi Laurent scrivono “noi crediamo che sia possibile proseguire sul cammino dello sviluppo umano senza sacrificare gli ecosistemi terrestri, ma a condizione di far crescere il nostro livello di esigenza democratica. L’eguaglianza ecologica è la chiave dello sviluppo durevole. Ma questa nuova ecologia politica ha bisogno, per cominciare, di un grande sforzo di revisione intellettuale” e forse, bisogna iniziare proprio da qui.

L’AUSTERITÀ VISTA DA SINISTRA

Il rigore di bilancio sembra essere una strada obbligata per paesi indebitati come il nostro. Ma nella gestione del bilancio pubblico si possono adottare strategie diverse, che portano comunque a un controllo della spesa. Per esempio, per garantire la sostenibilità dei sistemi pensionistici, si punta all’adeguamento dell’età pensionabile alle aspettative di vita. Che però è una misura regressiva: colpisce di più i più poveri. Si potrebbe invece pensare a un tetto per le pensioni più elevate. Insomma, le scelte tecniche o inevitabili non esistono.

IL 5 PER MILLE: FACCIAMONE BUON USO

 

Assieme alla dichiarazione Irpef è tornato il 5 per mille. È la terza volta, dal 2009, che l’Associazione La Voce compare nell’elenco degli enti a cui si può volontariamente destinare il 5 per mille della propria Irpef.  

IL 5 PER MILLE DEL 2009

Si sa che il 5 per mille va in larga parte a una ristretta cerchia di beneficiari grandi e famosi. Dai dati disponibili, del 2009, emerge che, nel settore dove è inclusa anche l’Associazione La Voce, nove enti ricevono, ciascuno, il 5 per mille dell’Irpef di più di 100 mila contribuenti e che 24 enti ricevono importi che vanno da 1 milione a 10 milioni di euro.
Vi è però anche grande frammentazione: gli enti che si contendono il 5 per mille sono complessivamente più di 40 mila, di cui più di 28 mila nello stesso settore dell’Associazione La Voce. Qui, l’80 per cento circa dei beneficiari è stato scelto da non più di 250 contribuenti e il 45 per cento da non più di cinquanta. Guardando agli importi ricevuti dagli enti, l’85 per cento per cento non supera i 10 mila euro e il 72 per cento riceve non più di 5 mila euro.
L’Associazione La Voce non è certo tra i pochi grandi enti che ricevono milioni, ma i risultati del primo anno sono incoraggianti. Ci hanno dato il 5 per mille della loro Irpef 375 contribuenti (grazie!), per un importo totale di più 26 mila euro. È una somma importante, sia nella distribuzione del 5 per mille, sia per il nostro bilancio. Assieme ai fondamentali contributi dei lettori, ci consente di continuare a vivere.
Noi de lavoce.info possiamo fare di più, anche per migliorare la qualità degli interventi e offrire nuovi servizi. Occorre però che un numero crescente di lettori, di collaboratori, di nostri amici e parenti si ricordi, pagando l’Irpef, di questo numero di codice fiscale: 97320670157.

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