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Programmazione italiana ed europea divise dai tempi

Il Consiglio europeo ha proposto che la presentazione dei patti di stabilità dei singoli paesi sia anticipata dal primo dicembre a metà aprile. Se l’obiettivo è il coordinamento delle politiche fiscali, serve infatti una conoscenza dettagliata delle misure di politica fiscale che gli Stati membri intendono attuare nel successivo esercizio finanziario. Ma il cosiddetto Semestre europeo non corrisponde alla tempistica di programmazione prevista dalla legge italiana di contabilità, con potenziali problemi di credibilità ed efficacia degli impegni presi.

La sostenibilità del nuovo patto

Il percorso di riduzione del debito pubblico delineato dal nuovo Patto di stabilità implica dinamiche delle entrate e delle spese credibili? Per l’Italia tutto sommato sì, almeno se l’economia riprenderà a crescere. Ma se si guarda all’insieme delle economie avanzate, c’è il rischio che la generalizzazione di politiche di bilancio fortemente restrittive produca una grave e persistente deflazione. Perché allora non esplorare strade alternative come quella di trasferire a organismi internazionali quote del debito sovrano dei vari paesi?

Riequilibri necessari

Per arrivare a ripresa mondiale forte, equilibrata e prolungata servono due complesse azioni di riequilibrio economico. Una rivolta all’interno dei paesi, per sostituire la spesa pubblica con la domanda del settore privato. Ma serve anche un riequilibrio esterno, per affrontare gli squilibri globali tra paesi esportatori e importatori. E’ nell’interesse di tutti, economie avanzate e paesi emergenti. Entrambe le azioni però procedono con troppa lentezza.

La risposta ai commenti

1.  Sembra chiaro ormai, anche se non sta scritto nella bozza di decreto, che i cosiddetti “costi standard” serviranno a ridurre il budget del SSN, a partire dal 2013. Il budget 2012, già approvato, è di 110 mld di euro, ma quello del 2013 – ottenuto applicando i “costi standard” delle 3 regioni virtuose –potrebbe rimanere inchiodato a 110 mld o persino scendere a 109 mld. Lo accetteranno le regioni? Non era forse chiaro dallÂ’’articolo, ma ben presente nel testo del decreto, che il fabbisogno nazionale è fissato a priori dal governo, compatibilmente con le variabili macroeconomiche e i vincoli comunitari
Per chi non avesse afferrato, lo scoop sta nel fatto che, secondo le numerose dichiarazioni ascoltate, –il costo standard dovrebbe guidare la distribuzione delle risorse tra le regioni –(e non è vero, come dimostrato nell’Â’articolo) mentre guida semmai la riduzione del fabbisogno nazionale, che è tutt’Â’altra cosa. La riduzione penalizzerà, in proporzione, tutte le regioni. Se si voleva ridurre la spesa delle regioni inefficienti, questo non succederà, perché continueranno a ricevere la stessa quota di oggi.
2.   C’’è un equivoco da chiarire, che è fonte di molte incomprensioni: quello secondo cui i costi standard bassi sono sinonimo di efficienza e quelli alti di inefficienza. I costi standard, invece, non sono altro che il fabbisogno finanziario medio per abitante (o quota capitaria pesata) – sta scritto nel decreto, art. 22 comma 5 –che è lÂ’’ammontare di risorse eque e necessarie per ogni regione, data la sua struttura demografica e i suoi bisogni sanitari. La quota capitaria è calcolata presupponendo un’Â’efficienza media eguale in tutte le regioni ed è crescente in funzione dellÂ’’età. Il decreto governativo afferma invece che sono efficienti solo le regioni che chiudono i bilanci in pareggio. Siccome, di fatto, solo 5-6 regioni del nord, con popolazione giovane e molta spesa privata, che alleggerisce la pressione sul pubblico, chiudono alla pari, si assumono come regioni efficienti e virtuose. Ma questo è un falso ideologico: sono efficienti, data la loro struttura demografica giovane. Efficiente potrebbe essere anche una regione anziana, come la Liguria, che ha la quota capitaria massima: allora dovremmo assumere questo valore come costo standard efficiente e aumentare il budget del SSN? Applicare il fabbisogno medio delle regioni benchmark  chiunque esse siano –è un’Â’operazione in ogni caso illegittima e distorsiva.
Non condivido quindi la posizione che questo metodo sia comunque un passo in avanti: è invece una regressione, non ha fondamento teorico e non è presente in nessun paese con sistema sanitario decentrato o federale. Vorrà dire qualcosa?
3.   Da alcuni commenti traspare una certa confusione tra i costi standard per prestazione, come molti pensano e la L 42/09 autorizza a pensare, e i costi standard per abitante, come invece fa il decreto attuativo. Ciò che tutti hanno in mente, salvo poi aggiungere che è inattuabile, è l’Â’idea di un costo standard per prestazione (un ricovero, una visita, una certa dose di farmaci). Questo metodo (analitico) porterebbe a risultati simili a quelli voluti dalla bozza di decreto. E sarebbe molto più trasparente per i rapporti tra Stato-Regioni e tra Regioni-cittadini. Aprirebbe però la strada a chiedersi anche quante prestazioni debba comprendere lo standard. EÂ’ unÂ’’operazione comunque fattibile, a dispetto dei molti scettici (ho effettuato una simulazione a questo proposito), anzi viene già compiuta con la ponderazione della popolazione e lo si può dimostrare facilmente. Vogliamo parlarne?

Una governance più forte per l’economia europea

A fine settembre la Commissione europea ha varato una proposta di riforma della governance economica dell’Unione. Rientra in una riforma più complessiva dell’organizzazione della politica europea, volta a prevenire l’instabilità economica. Si fondano su meccanismi di allarme precoci rispetto a una serie di variabili macroeconomiche. Ma la reale efficacia delle nuove regole dipenderà anche dalla capacità degli Stati membri di assumersi le proprie responsabilità. Nella consapevolezza che la credibilità si può riconquistare solo rispettando le regole concordate.

La Consob batte un colpo

La Consob ha presentato nei giorni scorsi delle proposte di revisione della regolamentazione sulle Opa. Alcune sono opinabili, ma l’impianto complessivo fa pensare che Consob sia tornata a preoccuparsi della tutela degli azionisti di minoranza, dopo gli sbandamenti dell’ultimo periodo della presidenza Cardia. Importante però che sia nominato al più presto un nuovo presidente. Con le competenze necessarie per il ruolo che dovrà ricoprire. L’ennesimo politico spacciato come tecnico sarebbe un boccone indigeribile.

Il nuovo fisco regionale? Quello di prima

Nel decreto omnibus sul federalismo fiscale approvato dal governo è delineato anche il sistema di finanziamento delle Regioni a statuto ordinario. I tributi disponibili restano quelli di oggi: Irap, addizionale Irpef, compartecipazione Iva, con qualche margine di manovra in più, seppure sotto il vincolo di non aumentare la pressione fiscale generale. Sul sistema perequativo delle Regioni, lo schema di decreto aggiunge poco a quanto detto dalla legge delega. Scioglie alcuni ma non tutti i dubbi e suscita però anche nuovi interrogativi.

I dati economici nella crisi

L’informazione economica è vitale in una democrazia. Tanto più in tempi di una lunga strisciante campagna elettorale, quando l’informazione si trasforma spesso in propaganda e viene utilizzata per orientare l’opinione pubblica. Per questo ribadiamo il nostro impegno nell’aiutare i cittadini a interpretare i dati e la situazione economica. Ma anche noi risentiamo della crisi. E chiediamo perciò ai nostri lettori un contributo che ci permetta di svolgere meglio il nostro lavoro.

Un Nobel alla ricerca di lavoro

Il premio Nobel in economia del 2010 è stato assegnato a Peter Diamond, Dale Mortensen e Christopher Pissarides per il loro contributo nella comprensione del processo di ricerca tra domanda e offerta. Che nel mercato del lavoro permette di spiegare la curva di Beveridge come un fenomeno di equilibrio. E i loro studi hanno fatto capire che è meglio studiare il mercato del lavoro guardando ai suoi flussi, fino a comprendere gli effetti del precariato. Perché la loro teoria è densa di implicazioni pratiche e di suggestioni per la politica economica.

La risposta ai commenti

Ringraziamo tutti i lettori per i loro commenti.
LÂ’’idea che ha ci ha spinto a scrivere l’Â’articolo era quella di spostare il dibattito dal potere dÂ’acquisto dei salari alla causa principale dei bassi salari e del loro potere dÂ’acquisto: la produttività del lavoro. Lo spunto ci è stato fornito dallo studio pubblicato da Ires-Cgil lo scorso 27 settembre. Non era, e non è, nostra intenzione quella di attaccare la Cgil per partito preso (come ipotizzato da qualche lettore), ma piuttosto volevamo mostrare che, utilizzando i dati Istat cioè quegli stessi dati utilizzati dallÂ’’Ires prima della loro correzione per i lavoratori irregolari, viene fuori un risultato diverso da quello dellÂ’’Ires, cioè che il salario dei lavoratori italiani era aumentato (e non diminuito) in termini reali tra il 2000 e il 2009.
LÂ’’Ires, nei suoi complessi calcoli, tiene in considerazione la componente irregolare di lavoro nel calcolare i salari. Noi non lo facciamo. In questo modo possiamo coerentemente parlare dei dati sulla produttività (che allo stesso modo escludono la componente irregolare) e soprattutto perché lÂ’’Istat non fornisce più la serie aggiornata dei dati corretti per la componente irregolare. Nei suoi calcoli, inoltre, l’Â’Ires calcola il drenaggio fiscale (noi non lo abbiamo fatto). Può valer la pena di ricordare che il drenaggio fiscale non misura l’Â’aumento delle imposte in generale, ma solo quell’Â’aumento delle tasse che deriva dall’Â’inflazione in un sistema di tassazione progressiva. L’Â’inflazione infatti “gonfia” i nostri redditi in euro (non abbastanza secondo alcuni dei nostri lettori, ma lo fa), il che ci fa scattare automaticamente su uno scaglione di reddito più alto senza che siamo diventati davvero più ricchi. L’Â’aumento delle entrate fiscali derivante da queste effetto “palloncino” è il drenaggio fiscale.
La produttività del lavoro in aggregato si calcola, in modo inevitabilmente un po’Â’ impreciso, dividendo un indicatore di prodotto in termini monetari (come il valore aggiunto, cioè la somma dei redditi da lavoro e di quelli da capitale d’Â’impresa) per un indicatore di impiego del lavoro, che può essere il numero delle ore lavorate, il numero degli addetti o il numero delle ULA. L’Â’utilizzo delle ULA (Unità di Lavorativa equivalente a tempo pieno) permette di prendere in considerazione una misura di lavoro standard depurandola per le componenti di lavoro atipico standardizzando il numero di ore lavorate. Si tratta quindi di un “addetto medio” che prende in considerazione la creazione di posti di lavoro precari negli ultimi anni uniformando lavoratori a tempo indeterminato a tempo pieno, part-time e atipici.
Molti lettori hanno criticato l’Â’utilizzo dell’Â’indice dei prezzi al consumo Istat per calcolare il salario reale. Qualche anno fa uno di noi (FD, in un commento su questo sito intitolato “Io sto con le casalinghe”) dichiarava di condividere la percezione dei lavoratori dipendenti medi e delle loro famiglie che, in corrispondenza dell’Â’avvento dellÂ’’euro, si erano sentiti più poveri. Ora siamo un po’Â’ più cauti. EÂ’ probabile e legittimo che molte delle famiglie – quando vanno al ristorante e a fare la spesa al supermercato – abbiano in questi anni percepito un aumento dei prezzi maggiore di quello rilevato dallÂ’’Istat. Ma è anche vero che i consumi su cui viene fatto questo ragionamento riguardano gli acquisti che lÂ’’Istat chiama “ad alta frequenza”. Ci sono però anche tanti beni che compriamo meno spesso (ad esempio, i prodotti dellÂ’’elettronica di consumo) i cui prezzi sono diminuiti notevolmente in questi anni e che lÂ’’Istat contabilizza correttamente nell’Â’indice dei prezzi del consumo. Quando pensiamo allÂ’’inflazione dovremmo guardare all’Â’intero paniere di beni, non solo a quelli che siamo più abituati a comprare. Il paniere Istat coglie questo fenomeno: rileva il prezzo di molte migliaia di beni, rivede frequentemente la composizione del paniere – anzi dei vari panieri – che usa per misurare le variazioni del costo della vita. E’ vero: fa fatica, come tutti gli uffici statistici di tutto il mondo, a stare dietro ai mutamenti di qualità dei beni e allÂ’’introduzione di nuovi beni e servizi; in più misura il costo delle abitazioni in termini di affitti e non di prezzi delle case. Ma tutto considerato il suo indice è una buona rappresentazione della spesa media degli Italiani.
Condividiamo le preoccupazioni di chi, replicando i nostri calcoli, vede la propria pensione in termini reali pressoché costante e di chi denuncia l’Â’importanza del fiscal drag e lÂ’’incidenza delle imposte locali. Nel nostro articolo non ci siamo dedicati a questi argomenti nello specifico, ma spesso su queste pagine si discute dei modi per ovviare a queste storture.

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