Lavoce.info

Categoria: Argomenti Pagina 759 di 1099

Se Marchionne va al talk show

Tanto clamore, ma nessuna novità nelle parole di Sergio Marchionne in televisione. L’amministratore delegato Fiat continua a chiedere che il nodo della riorganizzazione dei siti produttivi italiani sia affrontato fino in fondo. I presupposti perché la multinazionale dell’auto rimanga in Italia e contribuisca al rilancio del paese ci sarebbero, ma è un errore prendere la sua presenza per garantita se la competitività del paese si deteriora senza che si faccia niente per invertire la tendenza.

 

Ma l’inquinamento a Milano non è in calo*

L’’articolo di Boitani e Ramella dà ragione ai commentatori che lamentano l’’uso disinvolto che si fa dei dati riguardanti l’’inquinamento atmosferico. Un ripasso della situazione dell’”’evoluzione negli anni “a Milano sul sito di Arpa (1)  fornisce un’’immagine d’’insieme che è meno rosea di quella in esso prospettata.
A Milano gli unici valori che hanno subito diminuzioni stabili, effettive e consistenti dagli anni ‘90 sono quelli del biossido di zolfo e benzene, grazie alla conversione degli impianti di riscaldamento a metano e alla riduzione del tasso di benzene nei carburanti. Viceversa, i citati valori del particolato del 1990 non possono essere evidentemente paragonati a quelli odierni: sino al 1998 veniva misurato il cosiddetto Particolato Totale Sospeso, ovvero l’’insieme del particolato sospeso ricomprendente la frazione del particolato più grossolana ed avente effetti meno nocivi.  Dal 1998 viene utilizzato come riferimento per il particolato unicamente il PM¹⁰ ovvero una frazione di particolato di dimensioni molto inferiori a quella del PTS. Le due misure non possono dunque essere sovrapposte.

Sta di fatto che un grafico -– sempre di ARPA Lombardia – più aggiornato di quello da voi prodotto (fermo invece al 2005) evidenzia bene come, a Milano, dagli anni 90 ad oggi non sia affatto in corso una diminuzione dei livelli del particolato. Anzi, dal 2005 pare esservi stata un’’ulteriore crescita dei livelli dello stesso.
L’’evoluzione che invece l’’articolo omette di riportare riguarda ciò che oggi è noto del particolato che respiriamo nelle aree urbane,  ovvero che esso ha dimensioni minime, ha in parte rilevante origine secondaria (ovvero deriva da reazioni chimiche degli inquinanti in atmosfera) e, diversamente da quello di origine industriale di molti anni fa, è inalabile, come un vero e proprio areosol entrando appunto in circolo nel sangue.
Nel suo studio “Collaborative Research Project for Air Pollution Reduction in Lombardy Region” 2006-2010 (lo si veda per intero sul sito www.genitoriantismog.it) il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea ha effettuato un’’estensiva opera di campionamento del particolato lombardo, sulla base dell’’analisi di più di 1000 campioni prelevati ed analizzati in Lombardia,  giungendo alla conclusione che, in area urbana, mediamente l’’80% del PM¹⁰ è costituito da PM²̇⁵, e circa il 90% del PM²̇̇⁵ è costituto da PM¹ (si veda in proposito il 7° rapporto, parte I).
Il PM¹ ,anche detto ”ultrafine,” è la frazione del particolato studiata che possiede il più elevato potenziale infiammatorio: penetra nelle cellule e negli alveoli e, superate le barriere endoteliali ed epiteliali, entra  in circolo nel sangue. Invito gli autori a leggere il recente “Inquinamento atmosferico e salute umana” su Epidemiologia e Prevenzione del novembre 2009 per una carrellata degli ormai numerosissimi studi scientifici che hanno accertato la riconducibilità di conseguenze davvero gravi, sia in termini di mortalità che di morbilità, a breve e a lungo termine, all,’esposizione agli inquinanti presenti nell’’aria.
Non è dunque vero che vi sarebbe un trend di miglioramento nelle città italiane; certamente non a Milano. Migliorano davvero le città del nord Europa dove si è investito nella riduzione delle emissioni da traffico che, come accertato in un recente Rapporto Tecnico dell’’agenzia Europea dell’’Ambiente, rappresenta la più importante fonte di inquinamento dell’’aria in Europa (“Annual European Community LRTAP Inventory EEA Technical Report 7/2008”). Lo dimostra l’’ultima mappa dell’’Europa realizzata dall’’Agenzia Europea per l’’Ambiente (Technical paper 1/2009 “Assessment of health impacts of  exposure  to PM 2.5 in Europe” ) che indica “a colori” lo stato della nostra aria e dei morti che ne discendono e che, rispetto a quella precedente realizzata sulla base dei dati nel 2000, ha decisamente “schiarito” la zona dell’’Europa del nord ma non la nostra.

Mortalità prematura (per 10 000, all’’anno) riconducibile all’’esposizione al PM2.5 (anno 2005).

Mortalità prematura (per 10 000, all’’anno) riconducibile all’’esposizione al PM2.5 (anno 2000) tratto dalla Valutazione di impatto (settembre 2005 – SEC2005 1133) redatta dalla Commissione Europea in funzione a fini della formulazione e adozione della nuova Direttiva sull’’Aria.
In conclusione, incrociando il dato – raccolto dagli scienziati della Commissione Europea – inerente la natura “ultrafine” del nostro particolato urbano, la sua prevalente origine da traffico, con la stabilità dei livelli soprattutto nelle nostre aree urbane, ci si avvede che la diagnosi degli autori sul miglioramento della situazione nelle nostre aree urbane è decisamente errata.
Aggiungo che la notizia riportata circa il presunto miglioramento dell’’aria di Milano solleva il problema della qualità delle misurazioni. L’’art. 3 della Direttiva 2008/50 relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa, come già faceva la precedente direttiva 96/62/CE, prescrive ai paesi membri dell’’Unione di designare organi competenti e responsabili del controllo della qualità delle misurazioni dell’’aria. Ad oggi in Italia tale sistema di controllo della qualità dei dati è carente se non addirittura assente. Ciò è stato dimostrato dai risultati delle misurazioni effettuate in Lombardia, dal 2006 in poi, dal Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea in parallelo ed in collaborazione con ARPA Lombardia: i dati raccolti dall’’organismo di ricerca europeo hanno in più occasioni evidenziato gravi sottostime delle misurazioni effettuata dall’’agenzia regionale per l’’ambiente.
Fino a quando non sarà stato messo in atto il sistema di  garanzia di “accuratezza” delle misurazioni prescritto dalla normativa europea, ogni trionfalismo su pretese vittorie o miglioramenti della nostra aria suonerà necessariamente più un giudizio con basi traballanti che altro.
Ciò detto, l’’accanimento circa un peggioramento o miglioramento dell’’aria pare davvero sterile. Come poco trasparente pare la tesi dell’’irrilevanza dei danni derivanti dall’’inquinamento allorché gli autori sono costretti, per corroborarla, a ricorrere ad uno studio datato e poco noto del “Presidente onorario dell’’Istituto Francese del Petrolio” (2).
Perché i nostri autori non hanno letto i rapporti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dell’’Agenzia Europea dell’’Ambiente, o degli scienziati internazionalmente accreditati che da anni hanno accertato una diretta riconducibilità all’’inquinamento atmosferico  di asma, allergie, BPCO, edemi polmonari, infarti, ictus, ridotta funzionalità polmonare, morti anticipate a breve e a lungo termine laddove non addirittura, nei più recenti studi, una riduzione della capacità cognitiva dei bambini cresciuti in aree con alti livelli di inquinamento atmosferico  (Suglia, Gryparis et al. “Association of Black Carbon with Cognition among children in a Prospective Birth Cohort Study”, American Journal of Epidemiology, 15 nov. 2007)?
Che si lamenti la congestione delle aree urbane proponendo sistemi di tariffazione è più giusto anche alla luce della rilevanza dell’”’effetto congestione” sulle emissioni (3). Ma che si semplifichi l’’analisi ricavata da dati inerenti Torino e la sua metropolitana per sostenere  che il potenziamento del trasporto pubblico non sarebbe, per le aree urbane, una, e forse la principale, delle soluzioni per la riduzione dell’’inquinamento atmosferico, rappresenta non un punto di vista diverso, ma, non ce ne vogliano gli autori, davvero cattiva informazione.
Se il traffico è responsabile mediamente, per esempio a Milano, di una porzione pari ad almeno il 60 per cento (4) di ciascuno dei principali inquinanti atmosferici (Nox-Co-PM10 e O3 ) pare davvero improbabile che l’’effetto della mera decongestione conseguente all’’istituzione di tariffe di ingresso, e quello presunto dato dalla creazione di tunnel sotterranei e parcheggi, possano avere qualche effetto senza una politica seria di potenziamento dei trasporti pubblici. E, da ultimo, ci dicano gli autori, per cortesia, come andranno a lavorare quelli bloccati dall’’effetto decongestionante del pur sacrosanto road pricing?

* Anna Gerometta è Avvocato e membro del comitato direttivo dell’associazione Genitori Antismog

(1)   http://ita.arpalombardia.it/ITA/qaria/doc_EvoluzioneAnni.asp
(2)   http://www.academie-sciences.fr/publications/rapports/rapports_html/rapport12_AsC_gb.htm
(3)   (il Centro Comune di Ricerca della Commissione Europea ha misurato le emissioni di NOX – precursore di ozono e pm secondario – di un furgone su un circuito a Milano ed ha evidenziato emissioni di NOX più che doppie rispetto a quelle previste dal limite prescritto dal circuito di omologazione NEDC, V Rapporto p. 210 e ss.)
(4) Dati Inemar inventario Regionale Emissioni Arpa http://ita.arpalombardia.it/ITA/inemar/inemarhome.htm)

Libere professioni in libertà vigilata

Due anni fa, nel novembre 2008, il ministro Alfano, al Congresso nazionale forense di Bologna, fece agli avvocati un discorso che suonava sostanzialmente così: “se mi portate un disegno di riforma sul quale concordino tutte le componenti e le voci dell’avvocatura, io mi impegno a farlo passare in Parlamento”. Questo discorso avrebbe avuto un senso nel contesto dell’ordinamento corporativo. Dopo la sua abrogazione, la disciplina della professione forense deve intendersi come posta esclusivamente nell’interesse dell’amministrazione della giustizia e della collettività degli utenti del servizio. Sulle linee e sui contenuti della riforma, dunque, non poteva certo bastare un accordo limitato alle componenti interne dell’avvocatura.

LA BOTTEGA DELL’AVVOCATO

Questo è sicuramente uno dei motivi per cui il disegno di legge, in un primo tempo affrettatamente licenziato dalla Commissione Giustizia del Senato, ha visto poi il proprio iter procedere con grande difficoltà, incagliandosi più volte, avversato fortemente dall’antitrust, dalle associazioni imprenditoriali, da quelle dei consumatori e persino da quelle dei giovani avvocati. A tutte queste voci il ministro ha preferito non dare ascolto, mantenendo il proprio appoggio al  progetto approvato dal Consiglio Nazionale Forense, che segna un netto ritorno all’indietro rispetto al decreto Bersani del 2006.
Contro un principio preciso dell’ordinamento europeo e del nostro ordinamento nazionale, il progetto si propone di reintrodurre l’inderogabilità delle tariffe minime (mercoledì scorso, al termine di un dibattito lungo e molto teso, il Senato ha approvato in prima lettura questa norma, che ribalta la regola posta dal decreto Bersani nel 2006); di reintrodurre il divieto della pubblicità commerciale per gli studi professionali; di reintrodurre la necessità (da tempo superata) dell’iscrizione all’albo anche per poter svolgere attività di consulenza stragiudiziale; di ribadire e rafforzare il divieto di costituzione degli studi legali in forma di società per azioni (consentita invece, sia pure con qualche opportuna limitazione, nella maggior parte dei Paesi occidentali); di rafforzare le barriere che devono essere superate dai giovani per accedere alla libera professione; di sfoltire drasticamente gli albi escludendone tutti coloro che esercitano la professione secondo un modello diverso da quello tradizionale (a tempo pieno, in modo esclusivo e continuativo per tutta la vita); di tornare ad attribuire esplicitamente all’Ordine una funzione di sostanziale rappresentanza degli interessi economici e professionali della categoria. Il modello di studio legale a cui si ispira questo progetto di riforma è quello tradizionale dello studio-bottega artigiana, nel quale il professionista opera a tempo pieno in modo continuativo ed esclusivo, in collaborazione con un numero limitato di colleghi e di collaboratori: ogni altra forma di esercizio della professione, secondo questo disegno, deve considerarsi sostanzialmente vietata.

DA CERNOBBIO AL SENATO

Soltanto poche settimane fa il ministro Tremonti proponeva di sancire esplicitamente nella Costituzione il principio per cui “tutto ciò che non è vietato è permesso”. In questo disegno di legge si dice sostanzialmente il contrario: “tutto ciò che non corrisponde al modello tradizionale di esercizio della professione forense è vietato”.
Deve aver provato qualche imbarazzo per questo progetto anche lo stesso ministro della Giustizia Alfano quando, meno di due mesi fa, al seminario Ambrosetti di Cernobbio, di fronte ai protagonisti dell’economia e della finanza globale e alla stampa internazionale, lo ha in parte sconfessato dichiarando pubblicamente che non era intenzione del Governo reintrodurre l’inderogabilità delle tariffe minime. Ma mercoledì scorso in Senato il Governo è tornato a difendere il progetto nella sua interezza, comprese le tariffe minime inderogabili e tutti gli altri divieti mirati a perpetuare, rendendolo esclusivo, il modello tradizionale dello studio legale-bottega artigiana che piace tanto al Consiglio Nazionale Forense
L’imposizione di quel modello tradizionale come unico modo possibile di esercizio della professione da parte degli avvocati italiani, oltretutto, impedisce loro di competere ad armi pari con i colleghi stranieri, all’estero e persino sullo stesso nostro territorio nazionale. Ve lo immaginate uno studio legale italiano che prova a offrire i propri servizi sulla piazza di Londra o di Chicago dovendo rispettare questa legge, quindi non potendo raccogliere nel mercato azionario i capitali per gli investimenti necessari, non potendo di fatto promuovere una class action perché il divieto del patto di quota-lite non lo consente, non potendo neppure informare i potenziali clienti della propria esistenza per via del divieto della pubblicità? Gli studi di Londra e di Chicago, però, sono già venuti da noi, stanno già incominciando a prendersi il meglio del nostro mercato dei servizi legali, senza certo render conto al nostro Consiglio nazionale forense sul come hanno reperito i capitali necessari, quali tariffe applicano ai loro clienti, con quale tipo di contratto ingaggiano i collaboratori e così via.
La verità è che con questo disegno di legge si sta facendo un’’operazione regressiva, che non va nell’’interesse del Paese, ma non va neppure nell’’interesse particolare della stessa avvocatura italiana.

La maternità all’europea responsabilizza i padri

Il Parlamento europeo ha approvato una proposta sui congedi di maternità. Tre gli obiettivi: portare a 20 settimane il congedo pienamente retribuito; proteggere le donne dal licenziamento e garantire anche ai padri almeno due settimane di congedo. L’Italia riconosce già i primi due punti, con scarsi effetti sulle scelte di lavoro e fecondità. Perché contano di più un adeguato sistema di servizi e agevolazioni fiscali alle famiglie con figli. Il congedo obbligatorio per i padri invece può rappresentare un segnale per smuovere una cultura di disuguaglianza nella distribuzione delle responsabilità familiari e sul posto di lavoro.

 

Quelle banche ancora troppo fragili

Negli Stati Uniti la crisi finanziaria sembra ormai archiviata. Non si può dire lo stesso per l’Europa, che ha affrontato il problema affidandosi a una serie di false speranze. Mentre gli stress test sulle banche americane sono serviti a riconquistare subito la fiducia degli investitori, quelli condotti sugli istituti europei hanno prodotto risultati deludenti perché è mancata la necessaria trasparenza. Ma soprattutto perché il processo non ha innescato la ricapitalizzazione e ristrutturazione delle banche più deboli. Mantenendo così la fragilità del sistema.

 

Le fondazioni bancarie: una risposta a mucchetti

Lettera al Corriere della Sera

Caro direttore,

Massimo Mucchetti nel suo articolo di sabato 23 ottobre ci arruola al “partito di Geronzi”. La ragione? Un nostro intervento su lavoce.info sarebbe ripreso dal Foglio a sostegno di tesi dell’attuale Presidente di Generali. In questo intervento, coerentemente con quanto pensiamo e scriviamo liberamente da tanto tempo, sosteniamo che: 1) le fondazioni bancarie farebbero bene a diversificare il loro portafoglio per meglio svolgere le loro funzioni sociali; 2) avendo vertici di nomina politica, non dovrebbero nominare a loro volta i consiglieri delle banche, evitando ancor di più di sceglierli tra le proprie fila. Quanto alla nostra vicinanza a Geronzi, invitiamo a leggere su questo sito cosa abbiamo scritto sul curriculum dell’ex banchiere. Non ci risulta che Mucchetti abbia mai dato queste informazioni ai suoi lettori.

Come vengono utilizzati i soldi rimasti della legge 488/92?

Come noto, le risorse per finanziare gli “storici” strumenti di incentivo alle imprese (legge n. 488, legge “Sabatini”, crediti d’imposta per occupazione e investimenti, ecc.) sono da tempo finite. Rimangono solo quelle derivanti dalle revoche dei vecchi incentivi già accordati, per rinuncia o decadenza dal diritto dei destinatari. Fino a pochi anni fa, nessuno sapeva nemmeno a quanto ammontasse questo “tesoretto”. Una norma della Finanziaria 2008 (governo Prodi), aveva disposto l’accertamento annuale di tali risorse e la loro destinazione ad un apposito fondo destinato a finanziare una pluralità di interventi soprattutto nel Mezzogiorno.(1)
Il governo Prodi è caduto prima di poter dare attuazione alla norma, avendo avuto solo il tempo di accertare – con il previsto decreto ministeriale annuale – l’ammontare delle risorse liberate per il 2008 (785 milioni di euro). Il governo successivo (Berlusconi), prima ancora di adottare il decreto annuale di accertamento delle economie per il 2009, con il decreto-legge n. 5 del 10 febbraio 2009 ha dirottato quelle risorse – valutate in ben 933 milioni di euro – a copertura dei nuovi incentivi alla rottamazione e a correzione dei saldi. Il decreto annuale di accertamento delle economie per lo stesso anno è stato poi adottato solo il 28 febbraio, segnalando l’importo di 375 milioni di euro per il 2009. Nel luglio 2009, con la legge n. 99 il governo ha poi prescritto nuovi vincoli di utilizzo, soprattutto legati a interventi nel Centro-Nord.(2) Tutte scelte legittime, comunque, che riflettono cambiamenti di priorità in gran parte dal Sud al Nord.
Il 4 maggio 2010 si è però prodotto un fatto grave sul quale non ci risulta sia sin qui intervenuto il sistema istituzionale dei controlli, a presidio della legittimità e legalità dell’azione del Governo, a partire dalla Corte dei conti e dal Parlamento.

Il quasi-dimissionario ministro Scajola con un decreto pubblicato in Gazzetta ufficiale oltre quattro mesi dopo, il 17 settembre 2010 a ministero ancora “decapitato”, ha destinato le risorse disponibili a due finalità estranee a qualunque prescrizione vigente di legge. Dei 152 milioni di euro accertati, infatti, 48 milioni di euro sono stati attribuiti alla programmazione negoziata nelle aree del Centro-Nord e 50 milioni sono stati addirittura destinati all’industria bellica degli armamenti, attraverso il rifinanziamento di una legge del 1993 (legge n. 237/93) per la quale il legislatore aveva previsto una copertura finanziaria solo fino al 2001. Dei restanti 54 milioni di euro non si fa menzione esplicita, ma a questo punto è facile supporre che siano andati ai soli interventi – tra tutti quelli contenuti nei lunghi e vani elenchi compilati dal legislatore – che erano associati a precisi importi: 50 milioni all’emittenza televisiva locale, 2 milioni ai sistemi di illuminazione del Veneto e 2 milioni ai “sistemi delle armi” di Brescia (forse raggiunti anche dall’altro finanziamento).

CHIEDIAMO PERTANTO AL NUOVO MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO PAOLO ROMANI:

Può darci un rendiconto completo di come sono stati utilizzati i risparmi della legge 488 in questa legislatura? Ed è possibile che un decreto ministeriale rifinanzi una legge statale, in carenza assoluta di fondamento normativo?

 

(1) Programma nazionale per l’inserimento lavorativo dei giovani laureati meridionali; la riduzione del costo del lavoro per tecnici e ricercatori in favore delle imprese innovatrici in start up; il sostegno alla ricerca nel settore energetico; il riutilizzo di aree industriali nel Mezzogiorno; la costruzione di centri destinati a Poli di innovazione.
(2) Tra questi compaiono obiettivi generici – quali il sostegno all’internazionalizzazione e al Made in Italy, la “valorizzazione dello stile e della produzione italiana”, gli incentivi ai distretti industriali, ecc. – assieme a interventi puntualmente specificati, come il sostegno ai “sistemi produttivi locali delle armi di Brescia” e ai “sistemi di illuminazione del Veneto”, per i quali la legge indica addirittura gli importi (2 milioni di euro per ciascuno).

Cala il sipario sul diritto allo studio

Il fondo che finanzia le borse di studio per gli studenti universitari scenderà nel 2011 a 70 milioni di euro dagli attuali 96 milioni, tornando più o meno sui livelli del 1998. In Francia e in Germania la spesa annua per il sostegno agli studenti è di 1 miliardo e 400 milioni. E mentre in altri paesi il pacchetto di aiuti è uniforme su tutto il territorio nazionale, per gli universitari giovani i criteri di ammissione alle borse variano di Regione in Regione e talvolta anche all’interno di una stessa Regione. Perché nessuna voce si leva in difesa del diritto allo studio?

Se la locomotiva va nella direzione sbagliata*

L’avanzo della Germania è in gran parte verso la zona euro. E’ stato originato da un boom di produttività specifico alla manifattura tedesca. Il riequilibrio avrebbe richiesto l’apprezzamento del cambio reale della Germania: è avvenuto il contrario. La governance europea comporta ora che l’aggiustamento spetti ai paesi partner, senza compiti per i tedeschi. Ciò provoca effetti depressivi e distorsioni per la zona euro. Le strategie per la crescita dovrebbero accantonare la retorica manifatturiera e rimettere all’ordine del giorno la questione dell’efficienza dei servizi.

Ma la formazione continua paga

Se la formazione professionale per lavoratori disoccupati è poco efficace, le cose vanno meglio con la formazione continua degli occupati. Chi vi partecipa ottiene retribuzioni notevolmente più elevate, in particolare nelle piccole e medie imprese. Perché l’incentivo a finanziare corsi inutili e fittizi è minore e soprattutto perché è un tipo di formazione che avviene spesso in azienda. I sussidi pubblici sono gestiti dalle Regioni. Così nel periodo 1994-2005 la spesa per abitante varia dai 22,6 euro della Regione Calabria ai 286,7 euro del Trentino Alto Adige.

 

Pagina 759 di 1099

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén