Le previsioni demografiche degli anni Ottanta indicavano come probabile un invecchiamento insostenibile e una rapida diminuzione della popolazione italiana, con conseguenti gravi problemi sociali ed economici. Non è accaduto, perché negli ultimi trent’anni sono entrati in Italia milioni di giovani cittadini stranieri. E tutto fa pensare che il meccanismo di rimpiazzo della popolazione continuerà . Perché neppure la crisi fermerà l’afflusso dei nuovi italiani.
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Il Ministro Gelmini è stata molto presente nel dibattito pubblico estivo, intervenendo ad esempio sui contrasti tra il Premier Berlusconi e il Presidente della Camera Fini, sui licenziamenti della Fiat o semplicemente parlando della sua vita privata.
Non ha neanche trascurato i suoi doveri di Ministro dell’Istruzione, rassicurando le scuole paritarie che i fondi a loro destinati non sarebbero stati toccati. Ma nulla ha detto e, soprattutto, fatto per l’edilizia scolastica.
L’articolo ha il merito di presentare quello che dal 1993 l’analisi econometrica evidenzia sulla relazione aiuti, ma anche flussi commerciali, povertà  e migrazioni (Faini Venturini, 1993).
In sintesi, se gli aiuti sono efficaci e aumentano il redito procapite allora finché questo reddito non raggiunge una certa soglia (stimata intorno ai 7000 dollari PPP- circa il reddito di Sud Africa, Tailandia, fonte: Berthelemy, 2006) i flussi emigratori dal paese continuano ad aumentare. Superato questo reddito-soglia, la continua crescita aumenta gli incentivi economici a restare. LÂ’’aumento dei flussi sarebbe perciò un effetto transitorio legato alla convergenza delle economie, tanto più breve quanto maggiore fosse la crescita del Paese dÂ’emigrazione. Un’Â’analisi recente (Berthelemy, 2006) conclude che i flussi di immigrati aumentano in un paese che aumenti i suoi aiuti bilaterali, sopratutto per quanto riguarda la forza lavoro qualificata.
EÂ’’ importante precisare che il rapporto aiuto/migrazione forse nasconde una causa più importante: il Pil procapite e la crescita di output del paese di immigrazione. Secondo la letteratura economica sulle migrazioni, questi sono le maggiori determinanti nella scelta della meta d’Â’immigrazione ma sono anche determinanti cruciali dei livelli di aiuto. Ossia, ad esempio, il Pil procapite alto della Svezia fa sì che questa sia meta ambita di immigrazione e che il livello di aiuti svedesi sia alto. Stabilire la causalità tra gli aiuti svedesi e l’emigrazione verso la Svezia può essere azzardato.
Anche il Pil procapite del Paese di emigrazione è tra le maggiori determinanti dellÂ’’emigrazione, in termini assoluti. Affermare che gli aiuti hanno causato questa crescita di reddito procapite, significa riconoscere che lÂ’’aiuto funziona. Purtroppo nessuno studio econometrico ha dimostrato una volta per tutte in maniera significativa questa correlazione tra aiuto e aumento del reddito/ crescita.
La crescita di reddito procapite in un Paese in via di sviluppo, o più semplicemente la sua crescita, è legata anche ad altri flussi finanziari e agli scambi commerciali. I Paesi Ocse potrebbero solo avere “selezionato” di investire maggiormente per lÂ’’aiuto in quei paesi con già migliori performance economiche.
Infine sulla questione del “brain drain”, un documento Ocse del febbraio 2010 analizza il caso delle emigrazioni del personale infermieristico dai Paesi in via di sviluppo concludendo che non è l’Â’emigrazione la causa della mancanza cronica di personale sanitario. Inoltre una studio della Banca Mondiale del 2009 ha messo in evidenza che in molto Paesi in via di sviluppo la possibilità di emigrare se qualificati in una certa professione costituisce un significativo incentivo per formarsi. Le Filippine sono il Paese che invia il maggior numero di infermiere all’Â’estero ma non soffre di una carenza di personale infermieristico. In molti casi l’Â’emigrazione è solo temporanea i sanitari con un rientro dei professionisti qualificati attorno ai 30 anni (World Bank, Microdeterminants of Migration, 2009).
Molto interessanti e appropriati gli spunti di Iacopo Viciani. Esiste certamente una relazione tra aiuti erogati e Pil del Paese donatore (che farebbe, nell’esempio citato, apparire la Svezia come forte donatore, in virtù del suo elevato Pil). Da un punto di vista  puramente tecnico, nelle nostre analisi, abbiamo tenuto conto di  questo problema esprimendo sempre l’ammontare di aiuti in percentuale del Pil del Paese donatore, in modo da “pesare” il volume di aiuti  erogati per la dimensione economica del Paese. Allo stesso modo, studiando i flussi migratori in uscita dai Paesi africani, abbiamo sempre pesato gli aiuti ricevuti dal singolo Paese beneficiario per il suo Pil.
Abbiamo anche cercato di trattare il volume di aiuti ricevuti come una variabile endogena (in funzione di alcune caratteristiche economiche del Paese beneficiario) proprio per tener conto della possibile “selezione” (da parte dei Paesi Ocse) dei Paesi verso cui dirigere più aiuti. Al di là di analisi aggregate, stiamo invece studiando quanto e come gli aiuti si traducano effettivamente in un aumento di reddito, attraverso lÂ’’uso di dati che consentano di analizzare le relazioni economiche bilaterali (e i loro effetti socio-economici) tra Paese donatore e Paese beneficiario.
Sulla questione cruciale del “brain drain”, concordiamo con Viciani: non sempre i Paesi esportatori di capitale umano soffrono di carenza di capitale umano. Questo punto esula, per il momento, dalle nostre analisi; tuttavia, un spunto interessante potrebbe essere questo: se da una parte i flussi emigratori privano in una certa misura il Paese d’Â’origine di forza lavoro, è anche vero (come afferma Viciani) che questo fenomeno può associarsi ad un incentivo allÂ’’ulteriore formazione da parte di chi resta. De Haas, in un lavoro del 2004, parla di “brain gain”: cioè del contro-flusso di rimesse, investimenti, conoscenza e capitale sociale che avvantaggia il Paese fonte di emigrazione, proprio in virtù di quanti, precedentemente emigrati, ritornano in patria o, attraverso reti economiche internazionali, partecipano dall’Â’estero allo sviluppo del proprio Paese. Va detto che tale dinamica, però, non ha sempre luogo, e molti Paesi sub-sahariani tendono ad impoverirsi, in senso economico e non, quando all’Â’emigrazione non segue nessun contro-flusso di capitale e conoscenza.
Ringraziamo per i numerosi commenti ricevuti, ai quali tentiamo di rispondere.
Innanzitutto è certamente vero che il nostro argomento prende solo spunto dalle richieste di Gheddafi, ma si applica più in generale alle politiche di aiuti ai paesi africani e non, di per sé, alle operazioni di vigilanza. E tuttavia, come ha rilevato Matthew Newman, portavoce del commissario Ue alla Giustizia, gli aiuti comunitari in questo contesto non sono meri trasferimenti per operazioni di vigilanza, ma accordi bilaterali quadro più ampi.
In secondo luogo, come rileva un commentatore, il fatto che gli aiuti siano anche rivolti ad azioni di polizia, potrebbe aggravare il quadro, specie se distoglie gli aiuti da altri sbocchi: i respingimenti sul fronte libico aprono altri fronti (la Grecia, ad esempio) e i contenimenti potrebbero produrre effetti non duraturi.
Infine, con riferimento al commento generale del Prof. Orsi, non possiamo –  anche qui – che concordare: quando si parla di numeri bisogna esser sempre rigorosi (anche se ciò non deve portarci alle estreme conseguenze di allegare i modelli agli editoriali o introdurre i referaggi). Siamo in particolare d’Â’accordo sul fatto che bisogna resistere alla tentazione del ‘contro-intuitivoÂ’ a tutti costi e che dietro una ipotesi posta a verifica empirica debba poter esserci una qualche ipotesi teorica (anche qui però senza esagerare, nel senso che molta parte delle teorie comportamentali recenti sono nate e progredite anche dai puzzle contro-intuitivi suggeriti dallÂ’’analisi dei dati). Proprio per questo, ci sentiamo di poter respingere la sua critica nel nostro caso, sul quale non vi è soltanto una ipotesi, ma addirittura una ricca letteratura teorica che, purtroppo, fino ad oggi ha ricevuto scarsa verifica empirica. Il nostro punto di partenza è stato proprio quello di tentare di fornire -– con tutti i caveat del caso –- una verifica empirica a tale letteratura, seguendo un approccio metodologico proprio nel senso suggerito da Orsi. L’Â’esistenza della dinamica cui facciamo riferimento è oggi sostenuta dalla maggioranza degli esperti di migrazione internazionale. Non è rimasto quasi nessuno, oramai, ad affermare che i flussi migratori siano il puro risultato di “push factors” (in primis la povertà assoluta), mentre la quasi totalità della letteratura sul tema oggi riconosce che la migrazione internazionale segua principalmente i canali aperti dalle relazioni economiche (sia commerciali sia di cooperazione allo sviluppo). Il nostro lavoro intende dunque essere un supporto empirico a modelli teorici consolidati e ad analisi socio-economiche condivise che da molti anni sono al centro della letteratura scientifica (per citarne qualcuno: Schiff, M., 1994 “How Trade, Aid and Remittances Affect International Migration“, Policy Research Working Paper 1376, World Bank; Martin, P., 1993 “Trade and Migration: NAFTA and Agriculture“, Institute for International Economics, Washington D.C.; Martin, P., 1998 “Economic Integration and Migration: The Case of NAFTA“, IGCC Working Paper; Martin, P. and Taylor, J.E., 1996 “The Anatomy of a Migration Hump“, in J. E. Taylor (eds.) Development Strategy, Employment, and Migration: Insights form Models, OECD, Paris, pp. 43-62; Vogler, M. and Rotte, R., 2000 “The Effects of Development on Migration: Theoretical Issues and New Empirical Evidence“, Journal of Population Economics, 2000(13): 485-508; Olesen, H., 2002 “Migration, return and Development: An Institutional Perspective“, International Migration, 40(5): 125-150; De Haas, H., 2004 “International Migration, remittances and Development: Myths and Facts“, Third World Quarterly, 26(8): 1269-1284.).
Per quanto riguarda la nostra affermazione (“tanto più un paese riceve aiuti economici internazionali, tanto più da quel paese si origineranno flussi di migrazione internazionale”) e alla base del titolo, certo ad effetto (ci siamo chiesti se un punto interrogativo fosse stato più appropriato), del nostro articolo, confermiamo che la nostra conclusione è il risultato di una stima econometrica eseguita con “severità ”.
Nello specifico, rispondendo a quanti ci chiedono dettagli sul modello statistico, abbiamo sviluppato un modello a due equazioni, stimate simultaneamente, benché consapevoli che le tecniche econometriche non consentono mai una esatta identificazione dei nessi causali. Con questo caveat, comunque, i risultati ottenuti superano con successo i tradizionali test diagnostici. La prima equazione descrive il tasso di emigrazione –dai paesi sub-sahariani verso i paesi OCSE – come funzione degli aiuti internazionali e di un set di variabili di controllo: le principali sono l’Â’indice di sviluppo umano (che include speranza di vita, istruzione, e reddito), lÂ’’indice di povertà (basato su un set di sottoindicatori per probabilità alla nascita di non sopravvivere sino ai 40 anni, tasso di alfabetizzazione, accesso ad acqua potabile, denutrizione infantile), lÂ’’esistenza di conflitti, l’Â’accesso e diffusione di internet, l’Â’accesso e diffusione della televisione, e un vettore di dummies per controllare per lÂ’’effetto delle relazioni coloniali tra paesi africani e paesi europei. La seconda equazioni invece serve a spiegare la variabilità (tra i paesi africani) degli aiuti internazionali ricevuti, in funzione di povertà , reddito nazionale lordo e apertura commerciale. In questo modo, teniamo conto, almeno parzialmente, della possibile endogeneità degli aiuti internazionali. Il modello è stimato attraverso un three-stage least square in cui i due ultimi stadi sono iterati fino ad avere convergenza nella stima dei parametri. L’Â’analisi diagnostica del modello, svolta attraverso il Sargan test sulle cosiddette overidentifying restrictions, ci permette di validare statisticamente la scelta delle variabili strumentali utilizzate nel modello; infine, il test di Wald su tutte le specificazioni del modello considerate, ci permette di rifiutare l’Â’ipotesi nulla di non significatività congiunta dei parametri. Nelle varie specificazioni non si presenta nessun problema di collinearità . La nostra analisi principale è di tipo cross-country, ma è stata replicata con successo sia (ove i dati lo hanno permesso possibile) su time series, opportunamente detrendizzate.
Detto questo, siamo convinti che il tema è troppo importante per le implicazioni di policy che ne derivano e per questa ragione ogni cautela suggerita è più che benvenuta. La nostra ricerca sul tema continua, in particolare nel tentativo di individuare se esista una soglia critica di aiuti che, a parità di altri fattori economici e istituzionali, possa determinare una inversione nella relazione che abbiamo osservato.
Un recente studio sugli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla salute in Italia conferma che un incremento delle polveri sospese provoca un aumento della mortalità e dei ricoveri per malattie respiratorie. Nuove evidenze emergono per quanto riguarda i danni alla salute dei bambini e le malattie cardiache negli adulti. I dati indicano anche che solo tre città su dieci rispettano i valori delle concentrazioni giornaliere di Pm10 e biossido di azoto. Le enormi responsabilità del traffico.
L’estate 2010 sarà ricordata per le tante parole spese sulla partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa. Ne hanno dibattuto ministri e banchieri, gli stessi che non hanno mai fatto niente per metterla in pratica. Ma non serve una legge perché già ora in Italia non c’è nessun impedimento a rendere i dipendenti partecipi dei profitti aziendali. Meglio sarebbe ridurre il carico fiscale che grava sul lavoro spostandolo sulle rendite, a partire da quelle finanziarie. Non farà piacere ai banchieri, ma farà aumentare la partecipazione al mercato del lavoro
L’Â’imposizione sull’Â’abitazione di residenza è la norma negli altri paesi. Il valore dell’Â’immobile di residenza è un ottimo indicatore di capacità contributiva, fortemente correlato con reddito e ricchezza.
L’esenzione da imposte sulla “prima casa” determina dunque iniquità orizzontale. Tale esenzione non si giustifica con il fatto che si tratta di un bene primario: molti altri beni primari (il cibo, il vestiario) sono tassati.
D’altra parte, l’Â’imposizione sulla casa di residenza non esclude la possibilità di applicare deduzioni o detrazioni in grado di modulare l’Â’onere impositivo tra le diverse famiglie (molto meglio che distinguere soltanto tra abitazioni di lusso e non di lusso).
Va anche detto che l’investimento immobiliare ha nel nostro sistema un trattamento di favore, visto che la rendita catastale sottostima fortemente la redditività effettiva dell’immobile. Ciò discrimina rispetto a investimenti alternativi ad esempio in attività produttive.
Non si dimentichi inoltre che lÂ’’imposta sugli immobili rappresenta uno dei pochi esempi di tributo effettivamente locale, in quanto caratterizzata da una base imponibile sufficientemente uniforme e stabile sul territorio nazionale e che ben si collega ai benefici che i cittadini ricevono dall’Â’attività pubblica. Anche da questo punto di vista, è chiaro che lÂ’’esenzione delle abitazioni principali non consente di ottenere un federalismo pienamente responsabile. Il punto sollevato nellÂ’’articolo riguardava proprio questo aspetto: chi prende le decisioni deve essere anche chi sopporta i costi di queste decisioni; dunque non si possono escludere i residenti nel disegno dell’autonomia tributaria.
Serve aumentare gli aiuti per fermare l’immigrazione dall’Africa verso l’Europa? L’analisi econometrica mostra che tanto più un paese riceve aiuti economici internazionali, tanto più da lì si origineranno flussi di migrazione e tanto più un paese eroga aiuti, tanto più riceverà immigrazione. Perché la scelta di emigrare sarebbe sempre più guidata dalla percezione della povertà relativa e non dalla povertà assoluta. Gli aiuti vanno dunque ancorati a progetti specifici e verificabili, volti a generare un flusso di reddito certo per i lavoratori residenti.
Il lavoro di Marcuzzo e Zacchia, e il dibattito conseguente, aiutano a verificare la “tenuta” dei criteri adottati e a individuare possibili linee di affinamento.
UN CONTRIBUTO AL “CONTORNO”
La definizione dei criteri per ciascuna delle 14 aree CUN è del dicembre 2008, in risposta ad una richiesta della Ministro.
La linea seguita dal Comitato Area 13 è stata quella di una soluzione di “equilibrio dinamico” fra:
– la specificità dei contenuti e metodi dell’Â’Area, la quale è la più differenziata fra le 14 Aree CUN, si pensi alla distanza fra econometria, statistica e matematica e l’Â’economia, lÂ’’economia aziendale, la storia economica, la storia del pensiero economico, lÂ’’organizzazione, la merceologia;
– lÂ’’articolazione delle proposte provenienti dalle altre Aree CUN per il necessario coordinamento “di sistema”;
– e il clima di “urgenza istituzionale” allÂ’’epoca incalzante perché si percepiva alto il rischio che altri soggetti-enti avrebbero potuto essere invitati a provvedere; ad es., a gennaio 2009, il Parlamento ha redatto e approvato “in diretta” l’Â’art. 4 della Legge n.1 in cui si dice che chi non ha pubblicazioni scientifiche non accede agli incrementi salariali, poi peraltro rimossi dalla manovra Tremonti, e non accede a Commissario di prove concorsuali.
Il Comitato ha quindi:
– lavorato in modo coordinato assieme a 14 Accademie e Società scientifiche dellÂ’’Area 13 con molteplici incontri su documenti scritti;
– inserito i criteri entro logiche differenziate di reclutamento dei ricercatori e di promozione ad associato e ordinario puntando, in una logica di supporto, ad “alzare lÂ’’asticella” complessiva lasciando spazio alle autonomie disciplinari o di sede;
– per questa via ha proposto un framework  ragionato cercando di evitare nei criteri estremismi di automatismo e/o di approssimazione e mettendo a disposizione uno strumento per le policy locali.
DUE DETTAGLI DA SOTTOLINEARE
In primo luogo, il dibattito sui criteri per i ricercatori ci ha visti spesso isolati entro il CUN. In molte altre aree CUN per i ricercatori si prevede un numero elevato di pubblicazioni, con implicita correlazione “molte pubblicazioni = alta anzianità ”. Noi abbiano sostenuto logiche di policy di reclutamento concorrenziali sul piano internazionale lasciando spazio al giudizio sul potenziale dei candidati, da reclutare da giovani (da ciò il requisito su una sola pubblicazione), e sollecitando un risveglio istituzionale sull’Â’efficace utilizzo dell’Â’istituto della “conferma in ruolo”.
Questa linea è stata condivisa con le Accademie e Società scientifiche dellÂ’’Area e con la Conferenza dei Presidi di Economia e di Scienze Statistiche, anche se poi i risultati dei giudizi di conferma in ruolo 2008-09 per i ricercatori nei 19 SSD dell’Â’Area hanno mostrato risultati assai differenziati per SSD e, in particolare, in solo due SSD (SECS-P/01 e SECS-P/07) si è riscontrato un tasso di rinvio ad una seconda scadenza di circa il 10%.
Il secondo punto da sottolineare riguarda il ruolo delle Accademie e Società scientifiche come “interlocutori esperti” fra il quadro di riferimento disponibile e le soluzioni analitiche da adottare nel tempo (anche a seconda degli stadi evolutivi delle discipline). Questa soluzione organizzativa ha rappresentato anche la chiave operativa adottata dal CUN per la precisazione dei criteri identificanti il carattere scientifico delle pubblicazioni nella costituenda “anagrafe nazionale dei docenti”, premessa tecnica necessaria per implementare lÂ’’art. 4 della L. n.1/2009 (si vedano i pareri nel sito CUN). In futuro, in sostanza, le Accademie e Società scientifiche saranno chiamate a farsi carico di contribuire ai processi di valutazione con liste di riviste scientifiche nazionali e internazionali (in proposito un esempio interessante per lo stadio avanzato della discussione al suo interno è quello dellÂ’’AIDEA) e con liste di editori accreditabili.
UN PERCORSO A OSTACOLI
E’Â’ un percorso particolarmente faticoso quello in cui versa la valutazione della ricerca in Italia, sempre sospeso tra “fiammate comunicative” di principio e di richiamo e prassi di implementazione lente, spesso contraddittorie e non sempre trasparenti, specie quando il processo decisionale si avvicina ai livelli della Politica. Qualche esempio: i criteri 2008 sono ancora una base di “moral suasion” e non un Decreto attuativo, pur citato nella L. n.1/2009; il Bando VQR 2004-08 del CIVR (che poteva consolidare il “discorso evolutivo” dei criteri) è fermo da mesi (forse in attesa del Consiglio Direttivo dellÂ’’ANVUR che però avrà bisogno di molti, troppi, mesi per essere operativo); il PRIN langue: i fondi 2008 sono arrivati solo recentemente e i Garanti 2009 ad oggi devono ancora essere scelti nellÂ’’ambito delle terne fornite da CUN, CRUI e CEPR ad aprile; il Decreto di distribuzione del Fondo di Finanziamento Ordinario 2010, col “Fondo premiale” che recupera i criteri sulla ricerca, a fine agosto 2010 non è ancora disponibile e così via.
Il CUN, organo istituzionale, cerca, anche col contributo dell’Â’Area 13, di tenere una linea di “responsabilità consapevole”, ma spesso mancano interlocutori davvero interessati a farsi carico con sistematicità e continuità dei problemi del Sistema Universitario.
Francesco Favotto, Alessandra Petrucci, Ezio Ritrovato
* Gli autori sono membri del Comitato Area 13 del CUN
Gli investimenti nel fotovoltaico, fiorenti grazie agli incentivi introdotti nel 2007, rappresentano un perdita secca per la collettività . Non riescono ad ammortizzarsi nemmeno in parte. Probabilmente si raggiungerà una potenza installata vicina ai duemila megawatt e l’onere annuale per il Gse salirà così ben oltre il miliardo. Fuorviante definirla una energia “rinnovabile”: finito il sussidio non resterà nulla, mentre si dovranno smaltire milioni di pannelli obsoleti.