E’ durata lo spazio di un mattino la favola bella della riforma tributaria, subito scambiata, in forza delle dichiarazioni del Presidente Berlusconi, per una riduzione del carico fiscale. Il Ministro Tremonti è dovuto precipitosamente intervenire per rinviare a data da destinarsi ogni ipotesi di sgravi, scatenando una mezza rivolta allÂ’interno del suo partito.Â
A questo punto, ringrazio degli stimolanti commenti ricevuti , ma conviene rinviare ogni approfondimento a quando verranno formulate dal Governo proposte serie. Solo un’osservazione. Meglio se non ci fossero state confusioni fin dall’inizio, resta tuttavia il fatto che gli equivoci risultano ora eliminati. Ci si può quindi dedicare a elaborare analisi e proposte nel contesto corretto, quello che configura  una nuova struttura del sistema tributario a parità di pressione complessiva. E tra le varie analisi  e proposte, ci possono ben essere quelle che riguardano le riduzioni del prelievo quando si riterrà possibile conceder e che se da una parte le.
Personalmente ribadisco la mia duplice convinzione: che non è il caso di alimentare attese di riforme radicali; e che conviene partire dalla questione della imposizione immobiliare, intimamente legata a quella della finanza comunale, dove è urgente pensare a come rimediare al misfatto dell’abolizione dell’ICI sulla prima casa.
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Il ministro per i beni e le attività culturali, l’onorevole Sandro Bondi, nella puntata di Porta a Porta del 11.1.2010, ha sostenuto che la riforma fiscale proposta dal governo, tesa a spostare il carico fiscale dalle imposte dirette a quelle indirette, dai redditi ai consumi, è una misura di equità sociale, perché "significa imporre maggiori tasse sulle classi sociali più elevate, più ricche, che consumano di più". Ma ministro, avrebbe replicato qualunque prof delle medie, ciò significa confondere una variazione assoluta con una relativa, è un errore da quattro in pagella! I ricchi possono ben consumare di più dei poveri, ma se si sposta il carico fiscale da un’imposta progressiva ad una proporzionale la cui aliquota media è inferiore a quella che ora pagano i ricchi, l’effetto è regressivo, non progressivo. E’ per l’appunto il caso nostro, visto che l’aliquota più elevata Irpef è al 43 per cento (dopo i 75.000 euro di imponibile) mentre l’aliquota dell’Iva è al massimo e per la maggior parte dei beni al 20 per cento. Non solo, ma se i ricchi risparmiano più dei poveri, i risparmi non sono tassati o sono tassati meno dei consumi (di nuovo il caso nostro) allora un’imposta su consumi ad aliquota uniforme è per forza regressiva. Esempio. Prendiamo un tizio A che guadagna 1000 euro al mese; verosimilmente spenderà tutto il suo reddito, e se l’aliquota media sui consumi è al 20 per cento, pagherà dunque 200 euro al mese di imposte. Prendiamone ora un altro B che ne guadagna 5000, e supponiamo che ne spenda 4000 e ne risparmi 1000. Questo pagherà dunque di imposte 800 euro al mese. Ma se i risparmi non sono tassati, l’aliquota media sul reddito del primo è del 20 per cento mentre quella del secondo è del 16 per cento; l’imposta è regressiva, l’aliquota media decresce al crescere del reddito. Certo, questo non è necessario, dipende anche da cosa consumano ricchi e poveri e da come sono tassati i diversi panieri di consumo. Per dire, se i 1000 euro di A vanno tutti in beni alimentari, mentre i 4000 di B vanno per 1500 in beni alimentari e per 2500 in beni di lusso, potremmo ottenere un’imposta progressiva tassando, per esempio, al 6 per cento i beni alimentari e al 34 per cento i beni di lusso; il gettito per lo stato sarebbe lo stesso che con un’aliquota uniforme del 20 per cento, ma il povero avrebbe un’aliquota media sul reddito del 6 per cento e il ricco del 19 per cento. Occorre però ricordare che l’Iva ha dei vincoli comunitari: vi è un’aliquota normale (in Italia il 20 per cento), una o due aliquote ridotte (in Italia 4 per cento e 10 per cento) su un paniere definito e non modificabile di beni primari, non vi sono aliquote maggiorate sui beni di lusso. Dunque, tralasciando altre considerazioni, inclusi i problemi di evasione e incentivo, un passaggio dall’Irpef all’Iva per forza ridurrebbe la progressività del sistema tributario.
Ringrazio i lettori che hanno commentato il mio articolo. Il tema è molto delicato: lo spettro di classi ghetto, gli echi di Rosarno, l’insoddisfazione verso la scuola pubblica, la fuga dei ricchi verso le scuole private: ce n’è a sufficienza per alimentare commenti molto accesi Riassumo sinteticamente. Bisogna distinguere tra obiettivi e strumenti. Evitare classi ghetto e ripartire gli studenti con difficoltà linguistiche tra le scuole (oltre che, ovviamente, tra le classi) è un obiettivo al contempo “equo” (perché garantisce lo stesso trattamento ai cittadini-studenti) ed “efficiente” (al fine di favorire l’integrazione e l’apprendimento degli stessi). L’imposizione di quote è invece uno dei possibili strumenti per realizzare l’obiettivo: una politica scolastica seria deve indicane i costi e le modalità di applicazione. In particolare, a) con quale criterio si vuole discriminare tra chi ha diritto ad iscriversi alla scuola più vicina e chi no? b) Quanto costa trasferire studenti tra le scuole e chi sostiene tali spese? Senza dettagli a riguardo, è molto difficile valutare se lo strumento delle quote sia il più idoneo, o non vi siano mezzi sostitutivi o complementari (più insegnanti di sostegno o fondi per le scuole con più stranieri) preferibili.
Sono dÂ’accordo con i lettori Marco Dore e Adriano Stabile (parte 2) che sottolineano come si debba partire dal garantire omogeneità nella composizione delle classi allÂ’interno di ciascuna scuola, e come la quota stranieri vada nella direzione giusta, contribuendo anche a ridurre le disparità tra istituti. Circa la proposta di avere classi differenziate allÂ’interno delle scuole, per intelligenti e meno intelligenti (lettore Dore, parte 3), ricordo che stiamo parlando della scuola dellÂ’obbligo, e che Albert Einstein da piccolo era notoriamente un somaro…
Alcuni lettori rilevano altre difficoltà d’applicazione della “quota per stranieri”. Il provvedimento, chiede il lettore Iansolo, deve essere applicato solo alle classi di nuova formazione (le “prime” elementari, medie)? O richiederà invece di smembrare e ricostituire classi esistenti (e legami affettivi tra i ragazzi)? E cosa accadrebbe se eventuali bocciature comportassero la violazione delle quote? Come osserva il lettore Franco M, se il problema è quello della lingua, esso va affrontato valutando le capacità degli alunni (bambini “stranieri” potrebbero avere maggiore padronanza della lingua di bambini italiani, si pensi ad esempio al caso di bambini adottati). Ma quanto costeranno le task-force richieste per tali valutazioni? Altri lettori sottolineano il problema della ripartizione dei costi: saranno gli immigrati a pagare (lettore Roberto Simone)? I piccoli comuni, che con difficoltà riescono a pagare uno scuolabus (lettore Mauro Vecchietti)? Le scuole, dove già gli insegnanti non hanno la formazione per aiutare gli studenti che non capiscono la nostra lingua (lettore Mario)? Concordo con queste perplessità .
Altri lettori invece sembrano più ottimisti di me. Antonio Cianci, ad esempio, confida in una specie di “mano invisibile del mercato scolastico”: i genitori , votando con piedi, renderebbero omogenea la qualità dell’offerta scolastica tra gli istituti. Temo ciò non accada, e dunque penso che le quote possano, insieme ad altri strumenti, essere utili. Come ho detto, ritengo giusta l’esigenza di distribuire tra le classi i ragazzi con difficoltà linguistiche (lettore Rinaldi). Infine, non è vero quanto sostiene il lettore Bruno Stucchi: il mio esempio numerico non richiede l’uso di Excel, ma di sole carta e penna!
In Italia abbiamo il più alto numero assoluto di cause e i tempi della giustizia più lunghi d’Europa. Anche il numero degli avvocati è letteralmente esploso negli ultimi venti anni. E se non c’è competizione sulle tariffe, alcuni di loro possono pensare di sfruttare il vantaggio informativo nei confronti del cliente, inducendolo a ricorrere al tribunale anche nei casi in cui non sarebbe necessario né efficace. Per questo preoccupa che nel progetto di riordino della professione forense compaia la reintroduzione delle tariffe minime
In Italia oggi non c’è una forte constituency a favore di riforme che favoriscano la crescita anche perché le pensioni sono una variabile indipendente, la cui dinamica prescinde completamente dall’andamento dell’economia. Quando l’economia va bene, i pensionati non partecipano ai guadagni di produttività e, dunque, le pensioni perdono valore rispetto ai salari, dando origine al fenomeno delle cosiddette “pensioni d’annata”. Quando le cose vanno male, invece, la spesa previdenziale aumenta ulteriormente la sua quota sul prodotto interno lordo, sottraendo risorse a politiche di contrasto alla povertà e alla disoccupazione. Nel 2009, ad esempio, la quota delle pensioni sul pil è aumentata di quasi un punto. Era già la più alta quota in Europa. Lo sarà ancora di più.
Eppure il benessere degli anziani dipende molto dalla crescita dell’economia. La mancata crescita comporta, ad esempio, un progressivo ridimensionamento dei servizi sanitari. Quindi senza crescita anche i pensionati finiranno per stare peggio. Bene che ne siano consapevoli fin da subito.
E’ fondamentale che questa crescente fascia di popolazione partecipi in modo ancora più evidente ai vantaggi della crescita economica e sostenga quelle politiche che servono a migliorare la qualità e quantità dell’assistenza sanitaria pubblica e a permettere che pensioni relativamente generose possano essere pagate nonostante i cambiamenti demografici in atto.
Un modo per far lo è indicizzare le quiescenze in essere alla crescita economica. In Svezia, che ha adottato un regime pensionistico molto simile al nostro, le quiescenze in essere crescono di anno in anno in base al tasso di inflazione più la differenza fra il tasso di crescita potenziale dell’economia (che viene utilizzato nel calcolare il livello iniziale delle pensioni quando ci si ritira dalla vita attiva) e il tasso di crescita effettivo. Da noi si potrebbe prendere come riferimento la crescita del monte salari contributivo, la base con cui si finanziano le pensioni. E’ un modo al contempo per rendere il sistema sostenibile, quindi equo dal punto di vista intergenerazionale, e di favorire politiche che ci facciano tornare a crescere.
Ringrazio dei commenti, anche dissenzienti, che mostrano quanto il tema sia sentito.
Osservo in generale che il tema dellÂ’immigrazione mette in moto emozioni e sentimenti, che poi cercano delle conferme razionali in dati che spesso sono parziali, interpretati male o decisamente sbagliati.
C’è per esempio chi sostiene che gli altri paesi sono più restrittivi di noi sulla cittadinanza. Qui i dati sono oggettivi: l’Italia, insieme alla Grecia, ha la legislazione più restrittiva dell’Unione Europea, ma la Grecia la sta modificando nel senso dell’apertura. In Francia, Regno Unito, Olanda, come negli USA, bastano cinque anni di residenza. La Germania ha riformato nel ’99 in senso liberalizzante. E’ vero che si tende a dare più importanza all’accertamento di conoscenze linguistiche e di cultura civica (cosa su cui sono d’accordo), ma una democrazia non può discriminare né su basi religiose, né per altri motivi di opinione. E avere una popolazione numerosa di non cittadini che risiedono stabilmente, lavorano e pagano le tasse, è dannoso per il funzionamento della democrazia stessa. Sono queste chiusure che preparano un futuro di tensioni e di conflitto. Gli immigrati tenuti ai margini e sfruttati, non ricevono certo un incoraggiamento  a integrarsi lealmente nella nostra società . Un giorno potrebbero ribellarsi, come a Rosarno.
Citerei in proposito  il card. Martini: “E’ difficile sentirsi figli nella casa dei doveri se si è orfani nella casa dei diritti”.
Se paesi come la Francia e la Gran Bretagna oggi hanno apparentemente una popolazione immigrata non molto superiore alla nostra, è perché molti stranieri sono transitati nella categoria dei cittadini a pieno titolo. In altri casi, come in Germania, si ricorre molto al lavoro stagionale, che non rientra nelle statistiche sull’immigrazione. Anche il Giappone ha numerosi immigrati, ma fatica ad ammetterlo e ad aprire le porte della cittadinanza. Se vogliamo andare su quella strada, ci sono i paesi del Golfo che sono ancora  più brutali. Ma quelle non sono democrazie.  Anch’io sono d’accordo invece, e l’ho scritto, nel premiare i comportamenti meritevoli, non il solo dato dell’anzianità di soggiorno: è un’altra tendenza che si profila a livello europeo.
Le nostre frontiere sono troppo aperte? Per chiuderle di più, dovremmo per esempio bloccare gli ingressi per turismo dallÂ’Est Europa, o i pellegrinaggi a Roma dal Santo Padre. Che ne pensano gli operatori del settore? Segnalo che allÂ’estero gli ingressi per turismo sono anche più incoraggiati che da noi, e già si compete per il turismo indiano, cinese, brasiliano… Se poi gli immigrati entrati con visto turismo a volte si fermano, in genere è perché qualcuno offre loro un lavoro. La maggior parte dei lavoratori immigrati oggi regolari sono stati irregolari per un certo periodo. Evidentemente qualcuno ha dato loro da lavorare.
Strano poi che i miei arcigni contraddittori non abbiano una parola di apertura neppure sulle seconde generazioni, nate e cresciute qui: che ne facciamo? Non sono ormai italiane di fatto?
Altri obiettano sul mercato del lavoro, che non avrebbe più bisogno oggi di immigrati. Propongo ai lettori, soprattutto ai dissenzienti, di fare una piccola indagine nella loro rete parentale, nei condomini dove abitano, nel vicinato, ponendo questa domanda: chi assiste gli anziani? Scopriremmo, credo, che di immigrati c’è ancora e ci sarà bisogno. Tra l’altro il bisogno assistenziale in genere esplode all’improvviso e non può aspettare i decreti-flussi, che da due anni non escono (ma si è fatta appunto una sanatoria, perché molte migliaia di italiani hanno dato lavoro a colf e assistenti domiciliari immigrate: anche questo è un dato incontrovertibile).  Inoltre, trattandosi di un lavoro logorante, non si regge di solito più di qualche anno: servono sempre nuove forze. Potrei aggiungere che nelle casse edili di Milano, Roma e altre città , la metà degli iscritti è immigrata. E che dire delle cucine di ristoranti e pizzerie? Non si vedono in giro, in realtà , molti italiani pronti a riprendersi questi lavori.
Che succede all’estero? Secondo un’indagine dell’ICMPD di Vienna, in base ad una stima prudenziale in Europa sono stati sanati da 5 a 6 milioni di immigrati negli ultimi dieci anni. Siamo quindi in buona compagnia. Se il fenomeno dell’irregolarità  è ultimamente diminuito, lo si deve, oltre alle sanatorie, all’apertura dell’UE verso Est, che ha trasformato rumeni, polacchi e bulgari in concittadini europei. Ricorderei anche che il nostro mercato del lavoro, come quello spagnolo, greco, portoghese, richiede molta manodopera a bassa qualificazione e non ha ancora alle spalle decenni di immigrazione.
L’argomento più inquietante mi pare comunque quello demografico, ultimo cavallo di battaglia di alcune forze politiche. Il problema non è tanto il numero di abitanti dell’Italia, ma l’equilibrio tra persone attive, che lavorano e pagano imposte e contributi, e persone a carico. Gli immigrati ci stanno dando una mano a salvaguardare un certo equilibrio. Per scendere a 40 milioni di abitanti dovremmo passare attraverso anni di spaventoso deficit previdenziale.
Il ministero dell’Istruzione ha stabilito che il numero di alunni stranieri per classe non dovrà superare il tetto del 30 per cento. Vanno comunque esclusi dal computo i ragazzi che non hanno cittadinanza italiana, ma sono nati in Italia. Un provvedimento anche condivisibile, ma che segue la solita logica dell’annuncio perché la sua applicazione sembra piuttosto complicata. Non sarebbe meglio allora accrescere il numero di insegnanti nelle scuole in difficoltà invece di spendere risorse per trasportare avanti e indietro gli studenti?
Se i dati sui capitali rientrati in Italia grazie allo scudo fiscale saranno confermati, le ingenti risorse supplementari potrebbero servire a incrementare i benefici per le Pmi che aumentano la loro capitalizzazione. L’entità media delle ricchezze scudate è però bassa. Si tratta dunque di patrimoni statici, accumulati con evasione fiscale passata. Per colpire quelli che restano ancora nascosti è necessario rafforzare la capacità investigativa dell’amministrazione finanziaria, anche in coordinamento con altri paesi, a cominciare dalla Svizzera.
Le mancate riforme del percorso di ingresso nel mercato del lavoro possono costare ai giovani fino al 30% della loro pensione futura. Secondo il presidente del Consiglio, il 2010 sarà l’anno delle riforme. Bene che cominci subito a varare quella del percorso di ingresso nel mercato del lavoro, il modo migliore per difendere le pensioni dei giovani. E se non ha il coraggio di farlo, almeno li informi su quanto varrà la loro pensione fra 40 anni.
Nell’Italia di oggi riforma tributaria non significa riduzione del prelievo fiscale. Significa, a parità di pressione, cambiare la distribuzione dell’onere tra tipologie di cespiti e contribuenti nonché le modalità tecniche del rapporto tributario per ottenere un sistema più equo, più efficiente dal punto di vista dell’impatto sull’economia e sul piano strettamente tributario. Conviene quindi non alimentare aspettative di riforme radicali, che in genere esaltano gli atteggiamenti emotivi e le proposte fantasiose, poi difficili da governare.