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MANAGER ACCADEMICO CERCASI

L’assetto della governance delle università è la vera chiave di volta per qualsiasi riforma complessiva ed efficace del sistema. Il disegno di legge Gelmini fa importanti passi avanti verso la modernizzazione. Ma non risolve la questione delle nomine del consiglio di amministrazione e dell’elezione di rettore, presidi e direttori di dipartimento. Mantenendo sostanzialmente intatti i conflitti d’interesse, individuali o di gruppo, che oggi distorcono molti dei processi decisionali. E continua a mancare la figura essenziale del manager accademico.

Il governo ha recentemente approvato un disegno di legge per una riforma organica del sistema universitario italiano. Si tratta di un testo ampio, che tocca quasi tutti gli aspetti nevralgici del funzionamento delle università, motivato da una autentica intenzione riformatrice. Mi concentro qui sulla prima parte del Ddl, relativa all’assetto di governo interno degli atenei, la cosiddetta “governance”: a mio parere, ne rappresenta lo snodo cruciale, la vera chiave di volta per far funzionare qualsiasi riforma complessiva del sistema universitario che si voglia essere realmente efficace.
 
LUCI E OMBRE DEL DDL
 
Il disegno di legge contiene alcuni importanti passi avanti verso la modernizzazione e l’allineamento con i modelli più funzionali che si riscontrano in molti altri paesi (e anche nel nostro, per alcune realtà specifiche). Tra questi, vanno citati in particolare: (i) la rimozione di quel “bicameralismo quasi perfetto”, tra senato accademico e consiglio d’amministrazione, che oggi caratterizza la maggioranza dei nostri atenei pubblici, a favore di una più chiara responsabilizzazione dell’organo individuato come unico vertice strategico dell’organizzazione, ossia il cda; (ii) il primo tentativo di introdurre anche in Italia il concetto, di derivazione anglosassone, di una scelta dei membri dell’organo di governo (il cda) basata sulle loro qualità individuali e non sulla loro rappresentatività di interessi costituiti; (iii) la spinta a una maggiore apertura degli atenei all’esterno mediante l’introduzione di una quota consistente di membri esterni nel cda (nella misura minima del 40 per cento); (iv) la riunificazione della gestione della ricerca e della didattica nei dipartimenti, eliminando così la peculiare schizofrenia tutta italiana della divisione di tali competenze tra facoltà e dipartimenti.
Tuttavia, il Ddl resta purtroppo fortemente insoddisfacente per altri importanti aspetti, per i quali si differenzia nettamente dai modelli esteri e si pone su una linea di sostanziale conservazione dello status quo. (1)
Primo, malgrado gli esterni in cda, l’assetto di governo degli atenei prefigurato resta in sostanza del tutto auto-referenziale. Ad esempio, i meccanismi di nomina dei membri del consiglio di amministrazione, demandati alle autonome determinazioni statutarie degli atenei, saranno plausibilmente basati ancora in larga prevalenza su una nomina interna (per esempio affidata al senato accademico o al rettore), compresa quella dei membri esterni. Inoltre il rettore, vertice esecutivo dell’ateneo, verrà ancora eletto, come oggi, direttamente dai docenti e, in quote minori, da altre categorie interne agli atenei (studenti, personale non docente). Analogamente i “dirigenti intermedi”, presidi di facoltà e direttori di dipartimento, saranno eletti dalle strutture da essi amministrate (indirettamente nel caso dei presidi). Questo assetto manterrà quindi sostanzialmente intatti i conflitti d’interesse, individuali o di gruppo, che oggi distorcono molti dei processi decisionali negli atenei. È davvero difficile immaginare che un codice etico, la cui adozione è imposta dal Ddl a tutti gli atenei, possa bastare a contrastare tali problemi.
Secondo, il rettore eletto, anziché nominato dal cda come avviene in tutti i modelli universitari che funzionano, di fatto renderà conto solo ai suoi elettori e non al consiglio di amministrazione, riproponendo così l’attuale confusione delle responsabilità di governo. Se un ateneo sarà governato male, di chi sarà la responsabilità? Del cda, le cui delibere dovrebbero essere applicate da un rettore che non necessariamente godrà della sua fiducia e che non gli risponderà direttamente? O del rettore, che formalmente non avrà comunque quasi nessun potere decisionale finale (pur continuando ad avere, come oggi, un forte potere “di fatto”)? O forse di tutti i docenti dell’ateneo, visto che sono loro che eleggono il rettore e gran parte del senato, e quindi indirettamente anche il cda?
 
MIGLIORAMENTI INDISPENSABILI
 
A tutti i livelli negli atenei, poi, continuerà a mancare la figura del “manager accademico”, che è invece un ingrediente essenziale dei modelli funzionanti di università, all’estero come in Italia. Il rettore, i presidi di facoltà e, in parte, anche i direttori dei dipartimenti oggi sono nelle università più moderne di altri paesi dei veri e propri manager professionisti, di estrazione quasi sempre accademica (cioè sono ex professori o ricercatori), ma di fatto transitati più o meno definitivamente a una carriera di tipo dirigenziale. Questo implica che i loro incentivi individuali di fatto sono cambiati rispetto a quelli di un normale docente. Un dirigente che dimostra di saper far funzionare l’organizzazione di cui è responsabile potrà essere “premiato” con promozioni (ad esempio da direttore a preside, da preside a rettore, da rettore di università minori a rettore di università maggiori o di grandi strutture scientifiche nazionali), retribuzioni migliorate, e così via. Per converso, un dirigente la cui struttura va male potrà essere “punito” con la perdita del posto di responsabilità, con annessa retribuzione, status, eccetera. In altre parole, il manager accademico è una figura fortemente responsabilizzata, che rende conto ai dirigenti superiori o al cda e non ai colleghi docenti, e che presenta incentivi individuali allineabili agli scopi istituzionali dell’organismo che dirige, senza che ci sia bisogno di far ricorso ad occasionali “eroismi individuali”, come oggi avviene in Italia. Nel disegno di legge Gelmini, purtroppo, non si introduce nessuna azione che vada nella direzione di una “professionalizzazione” dei dirigenti accademici, dal rettore ai direttori di dipartimento: tutte queste figure continueranno a essere docenti eletti dalle loro stesse strutture, con mandati limitati nel tempo, al termine dei quali torneranno generalmente a fare i “semplici docenti”.
Si potrebbe pensare che il meglio sia nemico del bene e che ci si debba accontentare di una riforma che, seppur parziale, va comunque nella direzione giusta. Tuttavia, nel valutare si deve mettere nel conto anche tutto il tempo e gli sforzi che dovranno essere impiegati nella messa in atto di una riforma di tale entità. Ed è concreto il rischio che malgrado tanti sforzi, la riforma non raggiunga neanche lontanamente gli obiettivi che si pone, almeno sul tema cruciale di far funzionare i processi decisionali interni degli atenei. D’altra parte, nei molti paesi europei dove sono state approvate negli ultimi dieci-quindici anni importanti leggi di riforma delle università, i cambiamenti introdotti sono stati molto più netti e radicali (a volte con riforme bipartisan), pur partendo nella maggioranza dei casi da una situazione non dissimile da quella italiana.
In conclusione, non ci resta che affidarci ai membri (di maggioranza e di opposizione) delle commissioni parlamentari che dovranno discutere ed eventualmente approvare disegno di legge: avranno l’opportunità di intervenire per migliorarlo, per farlo diventare davvero efficace nel rilanciare finalmente le nostre martoriate università, e forse aiutare a interrompere l’esodo di un’intera generazione dei nostri giovani più brillanti. Speriamo che sappiano cogliere questa occasione. Potrebbe essere anche l’ultima.
 
 
(1) Si vedano ad esempio Lorenzo Marrucci, Lezioni dall’estero, lavoce.info (2004). E Lorenzo Marrucci, “Come si governano le università degli altri: una prospettiva comparata”, in La crisi del potere accademico in Italia. Proposte per il governo delle università, a cura di Giliberto Capano e Giuseppe Tognon, edito dalla Arel-Il Mulino (2008).

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MA LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE NON È UN OPTIONAL

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UNA NUOVA GOVERNANCE PER GLI ATENEI. MA QUALE?

  1. rosario nicoletti

    Come mi è capitato in altre occasioni, sono completamente d’accordo con l’autore dell’articolo. Per fare un po’ di dietrologia, penso che il pasticcio sulla governance del DDL sia il prodotto di suggerimenti da parte della CRUI. La figura del Rettore ne esce rafforzata, mentre il ruolo del Senato viene avvilito: le scelte che contano sono rinviate ai nuovi statuti, i quali subiranno solo un controllo da parte degli attuali vertici accademici. Non è difficile prevedere che i gruppi di potere che gestiscono oggi le università continueranno a farlo anche più sfacciatamente.

  2. Alessandro Figà Talamanca

    Come sarà usata l’opportunità di nominare "membri esterni" del Consiglio di Amministrazione? Se chi decide avrà a cuore gli interessi dell’università cercherà di nominare persone che garantiscano all’università maggiori entrate o la difendano da tagli nei finanziamenti. In mancanza di una tradizione di mecenatismo (e di condizioni fiscali che lo promuovano), la scelta non potrà che ricadere su persone indicate da chi può influenzare il livello dei finanziamenti pubblici, cioè da chi detiene il potere politico. Sto parlando di di scelte fatte nell’interesse dell’università. Sono possibili anche scelte dettate da interessi personali o di gruppo. E’ interessante però che sono le scelte virtuose che possono portare a risultati non virtuosi.

  3. Giuseppe Esposito

    Per interrompere la "fuga dei cervelli" bastava la riforma del reclutamento. Ma di questa, paradossalmente, non faremo in tempo a vedere gli effetti, con un disegno di legge che minaccia di stravolgere nuovamente le regole, così che tutti preferiscono stare alla finestra e nessuno bandisce. Non sarebbe il caso di stralciare dal ddl la parte sul reclutamento, conseguendo il duplice obiettivo di dedicare alla governance il tempo e l’attenzione che essa richiede, e di verificare se le tante energie profuse nella riforma del reclutamento producono risultati positivi?

  4. rosario nicoletti

    L’intervento di un lettore, che identifica nel reclutamento il cuore di ogni riforma, mi spinge a riaffermare al contrario la centralità della governance. Il reclutamento nelle università è ovunque una cooptazione: i “concorsi” resi più o meno complicati saranno sempre delle finzioni. La cooptazione è virtuosa quando pesa la responsabilità delle scelte su chi le esercita: questo può essere ottenuto con un governo diverso dall’attuale. Il sistema italiano di governo degli atenei autoreferenziale, una parodia di democrazia, che si serve dell’orpello del “concorso” per il reclutamento, rende irresponsabili gli attori delle scelte. Il DDL riporta in buona sostanza il reclutamento ad i (vituperati) concorsi locali; la lista nazionale aperta non opererà una seria selezione, e tutto ritornerà nelle mani degli atenei, con i risultati che tutti conoscono.

  5. Dario Quintavalle

    “Manager di estrazione accademica”? Semmai gli esempi stranieri dovrebbero suggerire che la strada vincente è lo sdoppiamento della figura di vertice, lasciando il management a chi fa questo per professione e vocazione. In Italia ci sono già abbastanza esempi (negativi) di professionisti che si riciclano dirigenti: insegnanti che diventano dirigenti scolastici, militari che fanno i dirigenti alla Difesa, magistrati che fanno i dirigenti al ministero della Giustizia, prefetti che fanno i dirigenti al Ministero dell’Interno, e diplomatici agli Esteri, per non parlare dei “dirigenti medici” negli ospedali, che non si capisce bene cosa dirigano, ma ormai l’etichetta dirigente fa chic. Ma lo vogliamo capire che il management è una professione autonoma e specializzata, cui si perviene con studi appositi, e che non ci si improvvisa dirigenti dalla sera alla mattina? Meglio dunque un buon dirigente amministrativo, che lasci al rettore solo compiti scientifici e di rappresentanza. La filosofia del “fasso tuto mi” ha già prodotto abbastanza guasti.

  6. Oliviero Carugo

    A me viene il dubbio che i "membri esterni" dei consigli di amministrazione saranno semplicemente dei politici trombati o dei portaborse. Basta vedere che cose sono i "manager" della sanita’. Alla faccia della tanto discussa "governance" e della altrettanto glorificata "meritocrazia".

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