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COMMENTO A “UNA POLITICA FISCALE CONTRO LA CRISI”

LÂ’interessante nota del Fondo Monetario Internazionale (Link), sullÂ’uso della politica fiscale per combattere la crisi finanziaria, spinge ad alcune riflessioni e a domande che possono aiutare i lettori a meglio comprendere il merito della politica fiscale che il Fondo sta proponendo.
La prima domanda è: C’è qualche esperienza convincente che dimostra che una politica fiscale del tipo proposto abbia dato i risultati che il Fondo spera di ottenere? Se c’è, sarebbe utile per i lettori conoscerla.
La seconda è una riflessione che riguarda un’osservazione della nota: siccome è difficile identificare precisamente la medicina di cui ha bisogno il malato (cioè l’economia), è meglio utilizzare tutte le medicine a disposizione sperando che ce ne sia qualcuna che dia l’effetto desiderato. Bisogna riconoscere che in certi casi ci possono essere effetti negativi nell’uso di medicine sbagliate.
Una terza osservazione su cui sarebbe interessante soffermarsi è quella secondo cui i pacchetti di stimolo dovrebbero includere più che in passato aumenti della spesa pubblica in beni e servizi. L’acquisto di beni e sevizi, nella maggior parte dei paesi, consiste principalmente in tre categorie: salari per gli impiegati pubblici, investimenti pubblici e spese militari; ciò vuol dire che il Fondo Monetario sta proponendo aumenti salariali, più investimenti e spese militari. Allo stesso tempo la nota afferma che l’aumento di spesa non dovrebbe ”comportare un aumento permanente del deficit (e del debito?) pubblico”. Alcune domande: è una buona idea aumentare gli stipendi pubblici e le spese militari? L’aumento di stipendi non è equivalente nel suo effetto ad una diminuzione di imposte che la nota respinge? Sarà possibile ridurre in futuro gli aumenti di stipendi per non far peggiorare permanentemente la situazione dei conti pubblici? E’ possibile aumentare immediatamente la spesa per gli investimenti senza causare sprechi? Cosa possiamo imparare dall’esperienza giapponese degli anni novanta a riguardo?
Sarebbe utile avere risposte precise a queste domande per meglio conoscere il merito della proposta del Fondo Monetario ed eliminare qualche dubbio.

UNA POLITICA FISCALE CONTRO LA CRISI: RISPOSTA AL COMMENTO DI VITO TANZI

Vito Tanzi, nel suo commento al nostro contributo sul ruolo della politica fiscale nella attuale congiuntura, solleva domande importanti. Le risposte sono in buona parte contenute nella versione completa della nostra nota: che inviteremmo i lettori interessati a consultare per ulteriori dettagli.
Vito Tanzi osserva che è inappropriato somministrare al malato “tutte le medicine a disposizione sperando che ce ne sarà qualcuna che avrà l’effetto desiderato”. Siamo naturalmente d’accordo. Infatti, la nostra nota identifica chiaramente una serie di medicine che non debbono essere usate (si veda anche la prima appendice alla nota). Tra queste si citano per esempio i condoni fiscali o i sussidi generalizzati. Sconsigliamo anche l’uso di  un aumento indiscriminato dei salari dei dipendenti pubblici e proprio per le ragioni spiegate da Vito Tanzi (che causano aumenti permanenti della spesa e che hanno effetti simili a tagli di tasse non adeguatamente mirati). La nostra nota conclude, sì, che è opportuno dare al paziente un cocktail di medicine, ma queste vanno scelte, ovviamente, tra quelle “buone” (sia sul lato della spesa che su quello della tassazione) ed evitando quelle che si sono dimostrate nocive in passato.
Vito Tanzi si chiede anche se aumenti della spesa pubblica siano appropriati. Di nuovo, la nostra nota non sostiene che sia appropriato aumentare indiscriminatamente la spesa pubblica (inclusi i salari). Tuttavia, in molti paesi, anche paesi avanzati, la spesa per investimenti pubblici è stata negli anni passati insufficiente a garantire un ammodernamento delle infrastrutture: accelerare lavori in corso, o l’iniziazione di buoni progetti già allo studio sembra un modo utile non soltanto a sostenere la domanda aggregata, ma anche a soddisfare esigenze di crescita di lungo periodo.
Quanto efficace sarà in pratica un’espansione fiscale? Qual è l’evidenza empirica in proposito? Esistono varie stime dei moltiplicatori fiscali in presenza di fluttuazioni cicliche “normali”. Il problema, peró é che la crisi attuale non è di proporzioni “normali” (in termini di intensità e, soprattutto, globalità) ed è quindi difficile trovare un confronto adeguato. L’unico paragone è quello della Grande Depressione, che viene discusso in una delle appendici alla nota. In particolare, l’insistenza ad applicare in quella occasione politiche fiscali “ortodosse” durante la presidenza Hoover è stata una delle cause dell’inasprimento della Grande Depressione. E, almeno secondo alcuni studi, l’espansione fiscale nella seconda parte degli anni ‘30 contribuì in modo decisivo alla ripresa.

LA PENSIONE? A 65 ANNI PER TUTTI

Gli italiani sono uno dei popoli più longevi del vecchio continente. Paradossalmente, però, siamo anche un paese con un’età di pensionamento tra le più basse. E che meno incentiva la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Esistono dunque ottimi motivi per portare l’età pensionabile, per tutti e subito, a 65 anni, agganciandola poi davvero all’evoluzione dell’aspettativa di vita. La riduzione di spesa ottenuta consentirebbe di alleviare la pressione fiscale e di finanziare nuovi strumenti di protezione sociale. Esigenze ancor più importanti in periodo di crisi.

REDDITO MINIMO ALLA FRANCESE

L’estate prossima entrerà in vigore in Francia il Revenu de Solidarité Active, un nuovo sussidio pubblico ideato per semplificare la giungla delle misure di sostegno, lottare in modo efficace contro la povertà ed evitare fenomeni di disincentivazione al lavoro. Anche in Italia da tempo circolano proposte di reddito minimo garantito. La riforma francese può essere un esempio anche per noi? Due i problemi: i costi per le esangui casse statali e l’imponente tasso di lavoro sommerso e di evasione fiscale, che potrebbero mettere in dubbio l’efficacia di un simile strumento.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

 È importante sottolineare fin dall’inizio che avevo tentato di fare un discorso sui bilanci a rischio degli atenei Italiani. Specialmente quelli che avevano sforato il tetto del 90 percento del FFO per spese di personale di ruolo. E avevo – sia pur brevissimamente – individuato la fragilità di tali bilanci nell’espansione, senza piano di lungo periodo, del personale di ruolo. Data la rigidità dei bilanci e i tagli previsti del FFO mi sono concentrato su questo tipo di personale accademico.
Alcuni commenti fanno una questione di dati, altri di classificazione più dettagliata e di omogeneità, altri infine di stipendi. Non entro, tuttavia, nel dettaglio di ciascun commento che, seppur interessante, mi porterebbe lontano dal punto che volevo sottolineare. Questa volta, la "carenza di dati" si riferisce alla California. Voglio dire che, per fortuna, in California non esiste un Ministero dell’Università e dellaRicerca. Per questo motivo non esiste una banca dati centralizzata come quella del MIUR da cui si possono attingere in breve tempo e con grande dettaglio le informazioni sull’Università italiana nel suo complesso, pubblica e privata.
Per la California, dunque, occorre fare un lavoro certosino (dipartimento per dipartimento) e può darsi che abbia commesso un errore di sottostima, errore che mi ero proposto di evitare includendo tra il personale di ruolo in California anche i professori assistenti, che di ruolo non sono.
So bene che nei dipartimenti delle università in California ruotano (cioè sono impiegate) categorie come visiting professors, lecturers(molti non di ruolo), professori emeriti (pensionati, non a carico del bilancio dell’università ma del fondo pensione), post-doctoral fellows e graduate students.
Queste categorie permettono flessibilità nell’organizzazione della didattica. Tali categorie sono state escluse nel mio conteggio, così come descritto nell’articolo.

CONTI SEPARATI TRA EURIBOR E MUTUI

Con l’entrata in vigore dell’euro, l’Euribor è diventato il tasso al quale le banche primarie scambiano tra loro i depositi interbancari a termine denominati in euro. Ma ha anche un’influenza immediata sui tassi variabili dei mutui. E un parametro così importante per la vita dei cittadini europei viene calcolato non in base a dati oggettivi ripresi direttamente dal mercato e con procedure a esso integrate, ma in base a contributi volontari delle stesse banche. Il dubbio è che possa essersi stabilizzato un sistema di calcolo inadeguato e inefficiente.

CREDITO FAMILIARE: ISTRUZIONI PER L’USO *

A fine novembre il governo ha presentato due nuovi strumenti di sostegno ai redditi delle famiglie: la social card e un bonus una tantum di importo variabile. Considerando l’inconsistenza delle politiche anti-povertà delle due passate legislature, si spera che queste misure costituiscano il primo passo sperimentale di un percorso di riforma del welfare. Restano però provvedimenti che per l’esiguità dell’importo e per l imprecisione del disegno tecnico, rifletterono più il desiderio di cogliere un successo di immagine che l’intenzione di alleviare significativamente le condizioni dei poveri.

ALITALIA, LES JEUX SONT FAITS

Si è conclusa finalmente la questione Alitalia Air France. Come pronosticato più volte negli ultimi mesi, Alitalia è finita nell’orbita di Air France, quindi finalmente la partita è chiusa. E’ una buona compagnia aerea senza grandissime ambizioni che però avrà un suo futuro, un futuro dato proprio da questo partner straniero perché dà solidità alla compagine azionaria, dà garanzie ai clienti, dà garanzie ai lavoratori. Ci si può chiedere perché è stata così lunga la strada per arrivare a questa soluzione, che era già stata prefigurata, con condizioni peraltro migliori per lo stato italiano, molti mesi fa. Ora resta aperta la partita degli aeroporti. Si fa un gran parlare di Malpensa e di Linate, ma la questione è relativamente semplice: Cai accetta di investire in Malpensa a patto di eliminare ogni concorrenza con gli aerei da Linate. Altro non è che il vecchio piano che, da dieci anni a questa parte, ha cercato di mandare avanti. In realtà è un piano che già negli anni scorsi si è mostrato fallimentare e che è contrario agli interessi di sviluppo del Nord. Ci sono le infrastrutture che sono Linate e Malpensa; l’unica strada coerente con le esigenze di sviluppo è proprio quella di liberalizzare l’utilizzo degli aeroporti e di conseguenza aumentare l’offerta. E’ l’unica strada utile per lo sviluppo industriale del paese.

SE IL PETROLIO NON INFIAMMA L’INFLAZIONE*

Dal 2002 al 2008 l’economia americana si è trovata nella morsa di uno shock petrolifero comparabile per entità alle due crisi provocate dai paesi Opec negli anni Settanta e Ottanta. Eppure gli effetti sono stati molto diversi, a partire da un’inflazione core rimasta sostanzialmente stabile. Un risultato che dipende da una lunga serie di fattori, nessuno dei quali sembra predominante, ma ognuno dei quali gioca un ruolo. Con un po’ di fortuna e politiche sagge, non è più necessario che gli shock alimentari ed energetici abbiano quegli effetti devastanti che invece hanno avuto in passato.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Come era prevedibile, una parte dei commenti si è divisa in due fronti contrapposti. Da un lato quelli che plaudono a “un articolo finalmente controcorrente”, come ha scritto un lettore, e che “scava fra le macerie del provincialismo”, come ha scritto un altro. Dall’altro quelli che vi hanno visto “una difesa d’ufficio”, o addirittura l’espressione di “una casta che intende perpetuare i propri privilegi”. La maggior parte dei lettori che hanno scritto un commento, tuttavia, entrano nel merito, con osservazioni interessanti per le quali li ringrazio.
Poiché la proliferazione dei corsi di laurea è stata un effetto della riforma del 3+2, un primo gruppo di commenti si sofferma su questo nuovo modello di organizzazione degli studi. Prevale un giudizio moderatamente positivo sulla riforma, con alcune riserve. Chi scrive condivide questa posizione, e in particolare la convinzione che ora la priorità non sia certo un’ulteriore revisione del 3+2, bensì altri aspetti cruciali che questa riforma non ha toccato: un efficace sistema di valutazione, la governance degli atenei, i sistemi di reclutamento e di carriera.
Un secondo gruppo di commenti riguarda l’aumento del numero dei docenti, che la riforma, e la moltiplicazione dei corsi di laurea in particolare, hanno comportato. Le cifre richiamate oscillano fra il 19 e il 32% dal 2000 al 2007. Tuttavia, i confronti internazionali mostrano che in Italia non c’è affatto sovrabbondanza di docenti, né rispetto alla popolazione né in rapporto agli studenti. I dati OCSE per il 2005 danno un rapporto di 20.4 studenti equivalenti a tempo pieno per docente in Italia, a fronte di un rapporto decisamente più basso in Francia, Olanda, UK e USA, e ancor più basso in Germania e Spagna.
Infine, un terzo gruppo di commenti riguarda più specificamente il senso e le conseguenze della moltiplicazione dei corsi di studio. Alcuni lettori continuano a considerarla solo una assurda fonte di costi, altri un falso problema, o una illusione ottica, come si diceva nel mio articolo. Un lettore nota come i dati mostrino che anche in altri paesi alcuni “prodotti universitari” vengono lanciati, falliscono e vengono ritirati dal mercato, in una logica di “sperimentazione come necessaria all’evoluzione”. Ma un altro osserva che il sistema dei crediti, se potesse essere utilizzato in percorsi flessibili anziché rigidi, consentirebbe allo studente di personalizzare il suo curriculum anziché dover scegliere tra alternative che vengono “inutilmente burocratizzate con percorsi diversi chiamati corsi di laurea”. In effetti, il meccanismo delle “classi dei corsi di laurea”, dettato dalla paura di concedere troppa autonomia alle strutture didattiche e dalla mentalità burocratica per cui si assicura la qualità standardizzando ex ante anziché valutando ex post, ha finito con lo spingere le facoltà a moltiplicare i corsi di studio, anziché a contenerli come era nelle intenzioni.
In conclusione, ringrazio i lettori per avere in larga misura compreso come l’obiettivo dell’articolo, e più in generale del lavoro da cui è tratto, fosse di mostrare che, guardando ai dati in chiave comparata, emerge la necessità di valutazioni più equilibrate rispetto ai pregiudizi, alla disinformazione e alla tendenziosità che purtroppo imperano nel dibattito sull’università italiana.

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