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NON È TUTTO ORO (BLU) QUEL CHE LUCCICA

Molti lettori hanno inviato commenti al mio “Diamo una regolazione all’acqua”, con un leit motiv: l’acqua è un bene comune, un diritto fondamentale, una risorsa essenziale, dunque deve rimanere pubblica. Altrimenti i prezzi aumentano in modo insostenibile.
Potrei cavarmela rispondendo che hanno sbagliato indirizzo, oppure non hanno letto con attenzione: non è mia l’idea di aprire ai privati il settore idrico, ma sta nei fatti oltre che nella legge. Il mio articolo sottolinea semmai le difficoltà insite nella strada intrapresa dal governo e avanza proposte correttive. Chi si illude che il settore idrico possa essere liberalizzato ricorrendo semplicemente alle gare, a mio avviso, commette un errore madornale.

Tuttavia questa risposta è insufficiente, perché se condivido le preoccupazioni dei lettori, non condivido le motivazioni per cui sono preoccupati. Cosa significa veramente “privatizzare” in un contesto come questo? A chi o a cosa può servire? Finirà come in Bolivia? Ce l’ha ordinato il medico di introdurre addirittura l’obbligo di gara? (1)
Sgomberiamo subito il campo da un equivoco. Nessuno, neanche il più accanito mercatista, ha mai pensato di “privatizzare l’acqua” in quanto risorsa naturale: essa è oggi più che mai saldamente in mano pubblica, ogni suo uso deve essere autorizzato e regolato da un formidabile apparato di norme. La dir. 2000/60, che il nostro ordinamento ha in parte già anticipato, benché tra il legiferare e il fare ci sia di mezzo il mare, prevede che su tutti i corpi idrici venga raggiunto il buono stato ecologico, disciplinando le attività antropiche di conseguenza.
Altra cosa sono i servizi idrici. Per dirla con una battuta, l’acqua è un dono di Dio, ma Dio, o chi per lui, si è dimenticato i tubi, gli impianti, i depuratori e tutto quello che occorre per farli funzionare. Quelli dobbiamo procurarceli da noi. I costi che dovremo sostenere per raggiungere l’obiettivo del buono stato ecologico e, insieme, ammodernare la rete sono molto ingenti. Si parla di investimenti per 50-60 miliardi di €, ma è una stima parziale. Cifre da fare impallidire una manovra finanziaria. Da qualche parte devono saltare fuori.
Quello idrico è un servizio essenziale? Certo che sì, ma non nel senso che “il corpo umano è fatto di acqua al 99%”, “l’acqua è vita” e simili ovvietà. Stiamo parlando di quei circa 200 l/giorno con cui ci laviamo, puliamo casa, facciamo andare gli elettrodomestici, annaffiamo le piante, cuciniamo gli spaghetti, tiriamo lo sciacquone. Un servizio fondamentale per assicurare un moderno standard di vita urbana, quanto l’energia elettrica, ma non nominiamo il vangelo invano. L’acqua che basta a “dar da bere agli assetati” è una piccolissima frazione di quei 200 l.
Orbene, cosa c’entra il privato con tutto questo? Anche qui bisogna evitare confusione. Due sono i temi in discussione: il primo è chi gestisce, ossia chi si assume la responsabilità e i rischi di farli funzionare (un soggetto pubblico o un soggetto privato, e secondo quali modalità di affidamento), il secondo è chi paga (l’utente, attraverso le tariffe, o il contribuente, attraverso la fiscalità).
Riguardo alla prima questione, stiamo parlando di un servizio industriale, con livelli di complessità molto elevati, e che richiede gestione professionale, capitali ingenti, tecnologie avanzate, specializzazione, capacità di relazionarsi con il mercato (fornitori di tecnologia, costruttori, banche, professionisti). Richiede attenzione all’equilibrio di lungo termine tra costi e ricavi. Tutte caratteristiche che sollecitano un approccio commerciale e una visione imprenditoriale. Il che di solito fa rima con mercato; ma qui non è così facile. Non è tanto l’essenzialità del servizio il problema, quanto la sua natura pervicacemente monopolistica. Le soluzioni adottate con alterne fortune in altri settori come tlc, energia e gas risultano qui impraticabili, per i motivi che ho sinteticamente provato a spiegare nell’articolo, e anche dalle gare non ci si deve aspettare miracoli. Ma la gestione pubblica non è migliore: tutte le magagne da cui è afflitto notoriamente lo stato sono in agguato anche qui. Della più grande azienda pubblica italiana, l’Acquedotto Pugliese, si dice che “ha dato più da mangiare che da bere”. Perfino Nichi Vendola ha licenziato in tronco quel Riccardo Petrella che al grido di “fuori i mercanti dall’acqua” stava cercando di azzerare i pochi passi fatti finora per riportarlo ai fondamentali dell’economia aziendale (2). Molte delle società “in house” spuntate come funghi al nord come al sud sembrano motivate soprattutto da ragioni “di casta” (moltiplicazione dei consigli di amministrazione e relative prebende), a dispetto della retorica sull’acqua bene comune che non perdono occasione di sbandierare.

Non voglio fare di ogni erba un fascio. Il pubblico può, in astratto, creare buone aziende, e ce ne sono molte; l’esperienza tuttavia ci dimostra che è anche più sensibile ai ricatti politici (sindacato, lobby dei fornitori, utenti che non vogliono pagare) e tentato di indulgere in politiche gestionali insostenibili (come rinviare gli investimenti o gonfiare i debiti per non aumentare le tariffe).  Il privato, in compenso, è in genere più efficiente, ma anche più interessato a tenere per sé le rendite di monopolio. Occorre trovare un compromesso; come ho affermato nell’articolo, vi sono nel mondo vari schemi alternativi, i cui risultati sono in tutto e per tutto confrontabili. Non sempre eccellenti, da una parte come dall’altra; ma se i dati vengono considerati con obiettività e generalità sufficienti, un po’ di privato di solito migliora le cose, a patto di mettergli di fronte un sistema di regolazione efficace, in grado di vincolare la sua azione al rispetto dell’interesse generale.  
E’ tuttavia la seconda questione – chi paga – ad essere cruciale. In passato, per varie ragioni, è stata la fiscalità a sobbarcarsi l’onere principale. Se questo potesse continuare, la gente a stento si accorgerebbe della privatizzazione, come finora mai si è accorta dei lauti affari fatti dai costruttori e appaltatori di opere, irrorati dal benedetto flusso di denaro pubblico.
Ora, per altre ragioni, non si può più. Non è solo per la situazione contingente della finanza pubblica: una gestione industriale richiede che i soldi ci siano quando servono, dove servono, per fare le cose che servono. I canali della finanza pubblica non sono né tempestivi né selettivi; vanno bene quando si devono concentrare interventi a tappeto in poco tempo o realizzare grandi opere, vanno molto meno bene quando si tratta di fare manutenzione, rinnovo, adattamento, innovazione tecnologica. Basti un dato: negli ultimi 20 anni il sistema idrico italiano ha visto precipitare gli investimenti a praticamente zero. Il motivo è abbastanza ovvio: tra aumentare le tasse, tagliare le pensioni, licenziare i fannulloni, chiudere Alitalia o rinviare investimenti i cui benefici saranno goduti dai nostri figli, nessun politico avrà mai il coraggio di non scegliere l’ultima.
E dunque non c’entra la privatizzazione: se il gestore, pubblico o privato non fa differenza, deve coprire i attraverso le tariffe i costi prima coperti dalla fiscalità, queste devono crescere. Oppure, gli investimenti continueranno a restare fermi. A voi la scelta.
Complessivamente, tutta l’operazione dovrebbe portare le tariffe a circa 160 €/annui pro capite, mezzo caffè al giorno. Non faremo la fine della Bolivia, a patto di saper tenere conto del fatto che intorno a questa media le oscillazioni possono essere anche notevoli, in ragione della densità del territorio; e che siccome i poveri consumano quanto i ricchi, quei 160 € avranno un peso sul reddito molto variabile. Se a Latina le tariffe crescono del 300%, mi viene il sospetto che il livello di partenza fosse irrisorio. Le pur brave Milene Gabanelli e Alessandri Gaeta, prima di partire ad alzo zero sobillando l’indignazione popolare, farebbero bene a fare due conti.

Cos’è che volete davvero: un’acqua di proprietà della collettività (ce l’abbiamo già), un’azienda dell’acqua gestita dallo stato (come detto sopra, non è qui il problema), oppure l’acqua gratis (ce l’abbiamo avuta finora, e non funziona) ? Oppure preferite continuare a dilapidare il nostro patrimonio idrico, come nei 20 anni passati?
Gestione imprenditoriale e costi in tariffa, quindi. Questi principi vennero approvati all’unanimità o quasi del Parlamento, con la l.36/94. Da qui non si fugge. Facendo però attenzione a un paio di cose, però (e qui la regolazione ha un ruolo fondamentale).
La prima: coprire i costi non deve significare “coprire qualsiasi costo”, anche quelli meno efficienti. Il pubblico indulge spesso in auto blu, organici gonfiati, acquisti di beni e tecnologie a prezzi eccessivi. Il privato può tentare di fare il furbo portando profitti alla casa madre dalla quale acquisterà, per poi riversarli in tariffa, servizi specializzati, impianti e lavori. In entrambi i casi, compito del regolatore è costruire un sistema tariffario che limiti questi rischi: in Inghilterra ci sono riusciti, possiamo riuscirci anche noi.
In secondo luogo, attenzione agli effetti distributivi: quando un bene essenziale viene finanziato dalle tariffe, l’impatto è sempre regressivo; può però essere temperato, ad esempio non tariffando tutto al metro cubo, tanto meno “a blocchi crescenti” – ottimo sistema, quest’ultimo, per sussidiare i single benestanti a scapito delle famiglie numerose (3) – ma ricorrendo a tariffe con quote fisse spalmate in base a indicatori come la rendita catastale.
La terza: attenzione al costo del capitale. Il profitto pagato agli azionisti – ma vale lo stesso per il tasso di interesse pagato sui finanziamenti ottenuti dal mercato, anche da parte di aziende pubbliche – è commisurato al rischio che l’investitore sostiene. In questo come in tutti i settori. Ma qui il costo del capitale incide di più, perché questa è un’industria capital intensive e i rischi imprenditoriali sono molto alti. Occorrono sistemi di finanza pubblica capaci di catturare risorse dal mercato garantendo il finanziamento, ma senza intaccare il principio secondo cui le rate di ammortamento le pagano le tariffe. L’intervento pubblico deve servire a far costare meno il denaro, non a finanziare gli investimenti a spese dei contribuenti.
La quarta: se è sbagliato avere paura preconcetta del privato, è sbagliato anche il furore con cui i “talebani della liberalizzazione” insistono per adottare il modello della gestione delegata e affidata con gara, che non è né l’unico né il migliore. L’esperienza francese ci dice che il miglior concorrente del privato è la minaccia del ritorno al pubblico, così come il miglior incentivo all’efficienza del pubblico è la minaccia di privatizzare.

(1)    Ragioni di spazio mi costringono a semplificare al massimo e ad essere un po’ apodittico. I lettori mi perdonino se li rinvio per una trattazione più ampia al mio “L’acqua, un dono della natura da gestire con intelligenza”, Farsi un’idea, il Mulino, 2008.
(2)    Prima di diventare un bene comune, l’acqua deve diventare buon senso comune”, chiosa il governatore pugliese a questo proposito, in un’intervista rilasciata il 10 dicembre 2006 al noto quotidiano conservatore “il Manifesto”.
(3)    Per maggiori particolari su questo punto, si vedano la documentatissima indagine di K.Komives, Water, electricity and the poor: who benefits from utilities subsidies?”, World Bank, 2005 o il rapporto dell’Oecd, 2005.


CONCORRENZA FERMA IN AUTOSTRADA

L’Antitrust giudica negativemente la nuova regolamentazione del settore autostradale e indica possibili revisioni. Come il rinnovo delle concessioni mediante procedure a evidenza pubblica. O se possibile l’affidamento delle diverse tratte a una pluralità di gestori, per promuovere forme di concorrenza comparativa. E un sistema di adeguamento tariffario i cui benefici possano tradursi in pedaggi più bassi.

FONDI SOVRANI IN TRASPARENZA

Nell’ultimo anno i fondi sovrani sono stati una boccata d’ossigeno per molte società con difficoltà patrimoniali. Suscitano però anche molti sospetti, soprattutto per la loro scarsa trasparenza. Tanto che Ocse e Fmi preparano linee guida ad hoc. I governi occidentali temono in particolare che i veicoli cinesi investano in settori considerati strategici. E si acceleri un processo di migrazione del know-how tecnologico verso la Cina. Ma il mercato sembra aver già scontato questi rischi. Semmai il problema è che producano una nuova forma di statalizzazione.

Quello che avremmo voluto sapere su Alitalia, ma nessuno osa chiedere

Sette domande per Corrado Passera, Roberto Colaninno e Augusto Fantozzi, gli uomini che si adoperano per trovare una soluzione alla vicenda Alitalia. Nascono dai punti vaghi, oscuri, contraddittori di un’operazione che invece deve essere condotta con il massimo della trasparenza. Siamo certi che vorranno risponderci.

 

IL MAESTRO UNICO? NON TORNI PER DECRETO

La controriforma proposta dal ministro Gelmini con il maestro unico, è meritevole di una discussione non preconcetta. Soprattutto, ricordando che del tutto inadeguata fu invece la riflessione sui costi e benefici della riforma introdotta con la legge 148/90, essenzialmente per motivi occupazionali. Nulla giustifica, tuttavia, il ricorso al decreto legge.

ELEMENTARE, GELMINI!

Pedagogisti e scienziati dell’educazione discutono da decenni vantaggi e svantaggi del maestro unico. Ed è vero, come dice Bossi, che “Se c’è un solo insegnante è più facile che si rovini il bambino”. Ma sulla scuola bisogna comunque rifiutare l’immobilismo e intervenire per migliorarla. Tenendo conto del livello qualitativo attuale. Ecco in che modo.

OBBLIGO DI PREMIARE IL MERITO

Anche nella Pa si va finalmente verso l’adozione di un sistema di indicatori di produttività e di misuratori della qualità del rendimento del personale. I settori che raggiungono standard più alti dovranno beneficiare di maggiori risorse per premiare la produttività individuale. Come riconoscimento della capacità di cambiamento e di propensione all’innovazione. Per esempio, usufruendo di una parte più consistente di fondi, collegata a un percorso di diminuzione della percentuale fissa di retribuzione a favore della parte variabile.

Alitalia: una privatizzazione molto privata

“Questa è una vera privatizzazione e quindi i soci devono essere solo entità private”. E’’ la dichiarazione rilasciata dall’A.D. di Intesa SanPaolo, Corrado Passera, ieri a Cernobbio a commento della richiesta del Governatore della Regione Lazio, Marrazzo, e del Presidente della provincia di Milano, Penati, di entrare nella cordata che controllerà CAI – la compagnia che dovrebbe rinascere dalle ceneri di Alitalia.

LA BELLEZZA? E’ MEZZA RICCHEZZA

E’ opinione comune che altezza e bellezza siano di aiuto non solo nella vita in generale ma anche sul lavoro, determinando stipendi più alti per chi è esteticamente più “dotato”. Alcuni studi recenti sfatano però questo mito. Bellezza e altezza sono importanti nell’ adolescenza perchè incidono positivamente sull’autostima.  Ed è questo, a ben vedere, che nella vita adulta può fornire un vantaggio, anche salariale. Sia per gli uomini sia per le donne.

INSOLVENZA ALITALIANA

Non c’è più un’alternativa tra rilancio e fallimento: l’Alitalia ha già imboccato la strada della procedura di insolvenza, che si concluderà con la vendita degli asset e il licenziamento dei lavoratori. Ma il fallimento avviene con una procedura particolare. Che dà alla cordata costituita da Intesa San Paolo uno straordinario potere contrattuale, frutto della ricerca a qualsiasi prezzo dell’italianità. Mentre tutti i costi dell’operazione ricadono sui contribuenti, si regala così un’altra fetta del mercato nazionale, con ampi vantaggi oligopolistici, ai soliti noti.

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