Dare addosso agli economisti sembra sia diventato uno sport nazionale. Lo ha fatto il Ministro del Tesoro che li ha invitati a tacere, già li criticava Eugenio Scalfari ai tempi del governo Prodi (essenzialmente perché non risparmiavano critiche anche a quel governo), ora inaspettatamente si aggiunge al coro anche Lei, Professor Sartori, che dal pulpito del Corriere della Sera tuona per la seconda volta in pochi giorni contro gli economisti per non aver saputo prevedere la crisi finanziaria e quindi consentire di evitarla (anche se da una cosa non segue lÂ’altra – Cassandra insegna). Lei non se la prende con tutti gli economisti (nel mucchio è ovvio che qualcuno avrà previsto giusto) ma solo con quelli di rilievo, nessuno dei quali secondo lei “… ha davvero visto in tempo e capito a fondo i fatti e misfatti di Wall Street”. Fa eccezione Paul Krugman, che però secondo Lei non sarebbe abbastanza economista (assomiglia piuÂ’ a uno scienziato politico?). E si chiede: “Mi sono sbagliato?”
Sì, caro Sartori, si è sbagliato. Per capire perché, occorre intendersi su che cosa sia una previsione. Uso la sua definizione per comodità : “dato un ben circoscritto e precisato progetto di intervento, quale ne sarà precisamente l’effetto? Riuscirà come previsto o no? Se no, perché no?”. Dice bene, dato un ben circoscritto progetto etc., e lei infatti cita il “mattarellum” come esempio su cui Lei si è esercitato a prevederne con ragione gli effetti nefasti. Purtroppo la crisi finanziaria non è il mattarellum. Non c’è nessun “precisato progetto di intervento” a cui si possa imputare la crisi. Vi sono molti elementi che congiuntamente hanno prodotto la miscela della crisi finanziaria: la politica monetaria eccessivamente espansiva di Greenspan dopo lÂ’11 settembre, la bolla immobiliare (sostenuta anchÂ’essa dalla politica monetaria della FED), la riduzione dei coefficienti di capitalizzazione delle banche dÂ’affari e numerosi altri – incluso lÂ’assetto privato di Fannie Mae and Freddie Mac e la natura pubblica delle garanzie che essi offrivano sui mutui. LÂ’importanza di questi elementi e il loro potenziale destabilizzante sono stati messi in evidenza da tanti economisti. Uno per tutti: Robert Shiller e i suoi scritti sulla bolla immobiliare o sull’“esuberanza irrazionale” dei mercati americani. Ovviamente nessuno ha previsto che ad agosto di questÂ’anno la crisi sabebbe precipitata in una crisi di fiducia e che questa ad ottobre sarebbe potuta degenerare in corsa agli sportelli. Si poteva prevedere tutto ciò con congruo anticipo, in particolare il timing di questi eventi? No. Così come Lei non ha previsto e non poteva prevedere che i politici italiani avrebbero adottato il mattarellum. Ciò che Lei ha fatto è analizzare le possibili conseguenze di quella legge servendosi dello strumentario analitico che la sua disciplina Le mette a disposizione. Prevedere gli effetti di “un progetto di intervento” una volta adottato è una cosa, prevedere lÂ’ adozione di un determinato progetto di intervento è cosa diversa e molto più complessa: richiede che si prevedano le mosse e le astuzie di Bossi, quelle di Berlusconi, il potere contrattuale degli altri partiti, etc. È opera improba anche per un politologo del Suo calibro. Infatti non ci ha provato: ha aspettato che facessero e poi ha sentenziato quali sarebbero state le conseguenze. E ha fatto la cosa giusta. Ma se uno dovesse applicare a Lei e alla scienza politica quello che Lei chiede alla scienza economica e agli economisti, allora ci avrebbe dovuto avvisare con congruo anticipo che i politici di casa nostra avrebbero partorito il mattarellum. Non lo ha fatto.
Se prevedere è quello che dice lei, allora gli economisti lo fanno di routine. Con riferimento alla crisi e “ai ben precisati progetti di intervento”, molti economisti hanno capito e previsto che il piano Paulson, nella versione iniziale, non avrebbe funzionato perché non interveniva nel capitale delle banche (vedi l’articolo di Luigi Zingales “Why Paulson is wrong”). L’amministrazione americana ha modificato il provvedimeno di conseguenza. In tanti abbiamo anticipato che provvedimenti adottati in via isolata dai paesi europei, senza un serio coordinamento sarebbero stati inefficaci come risposta alla crisi. Chissà , forse anche per questo alla fine i governi hanno convenuto su una serie di misure comuni. Da tanti anni, da quando è stata adottata la moneta unica, andiamo predicando che bisogna avere un’istituzione che faccia vigilanza per l’intera Europa. Lo facciamo perché prevediamo che sia questo l’assetto istituzionale migliore per prevenire l’emergere delle crisi e per gestirle se la prevenzione non fosse sufficiente. L’abbiamo fatto sulle riviste e non pretendo che Lei le legga, ma l’ha fatto Francesco Giavazzi tante volte dalle colonne del suo giornale, e quello suppongo che Lei lo legga (da ultimo Marco Pagano).
Tutto questo, mi darà atto, è prevedere secondo la sua definizione; nè più nè meno. E, mi pare che sia chiaro dagli esempi, queste previsioni sono fatte per cercare di prevenire. Che effettivamente ci si riesca è un altro paio di maniche. Qui entra in gioco la politica e anticiparne le mosse è più compito Suo che degli economisti.
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In Europa, governi conservatori e progressisti hanno fatto proprio l’obiettivo di dare una risposta al disagio sociale delle famiglie. Non in Italia. Eppure, le disparità di reddito tra ricchi e poveri sono maggiori da noi che nella media dei paesi Ocse, le diseguaglianze nella distribuzione del reddito sono aumentate nel tempo e il rischio povertà è al 14 per cento per le famiglie con figli. Il costo dello status quo per la crescita economica futura potrebbe essere ben più salato di quello di riforme ambiziose, soprattutto se ben concepite.
Se l’Europa non coordina le politiche finanziarie, abbandonando l’ortodossia, si creeranno aspettative di una crisi ben peggiore di quella del 1929. Per i prossimi due anni, allora, il Patto di stabilità dovrebbe costringere i governi ad aumentare sensibilmente tutti i deficit, ben al di là del 3 per cento, se necessario. Politiche di bilancio aggressive, se temporanee, hanno il pregio di ricostruire la fiducia e limitano la caduta della domanda aggregata. Ed è l’ora di impegnarsi in riforme che richiedono investimenti proficui nel lungo periodo, anche se costosi nel breve.
L’adozione di meccanismi come la ricapitalizzazione e l’assicurazione esplicita delle passività bancarie vanno salutati con favore, pur ricordando che altro non sono che trasferimenti di ricchezza dai contribuenti agli azionisti delle banche. Prima però di gettare a mare un sistema di adeguatezza patrimoniale sofisticato ed evoluto come Basilea 2, occorre valutare con attenzione se i problemi sperimentati in questi mesi non possano in realtà essere superati più agevolmente rivedendo aspetti relativamente più semplici, quali il meccanismo delle riserve e quello dei rating.
Una delle conseguenze più rilevanti della crisi finanziaria è la sfiducia dei risparmiatori verso le banche. Le conseguenze che ne derivanno hanno un costo che ricade sull’intera società . Un aiuto per comprendere il fenomeno viene dalle scienze cognitive. Che ci mostrano come negli ultimi anni gli investitori si sono sentiti spiazzati dalla costante mutazione di nomi e prodotti finanziari. E ci spiegano che sarà lungo il periodo di tempo necessario alle banche per riconquistare la fiducia dei clienti.
L’immigrazione è un tema che suscita forti divergenze d’opinione. Per questo è molto usato in campagna elettorale. Alcuni studi sono utili a sfatare diversi miti: ad esempio non è detto che un forte flusso migratorio abbia ricadute su salari e occupazione della popolazione nativa. Altre ricerche aiutano a comprendere la nostra percezione degli immigrati. E illustrano come, in Europa, il dibattito sull’argomento verte soprattutto sugli effetti sociali, mentre, negli Stati Uniti, ci si interessa maggiormente sugli effetti economici.
EÂ’ unÂ’occasione triste.
Ho conosciuto Riccardo per gran parte della mia vita di adulto. Abbiamo studiato assieme al MIT. Non posso dire di averlo conosciuto intimamente: era più una conoscenza di lavoro, perché lavoravamo nello stesso campo. Non riesco nemmeno a ricordare quante volte ci siamo incontrati nei vari convegni e, anche se non abbiamo probabilmente mai parlato per più di 45 minuti consecutivi, percepivo ugualmente che genere di persona fosse: una compagnia ideale, brillante, divertente, interessante. Era anche una persona molto pacata e discreta, quindi ci si metteva un po’ a capire che egli intuiva, prima degli altri, nuove soluzioni in campo economico. Mi ci vollero anni per comprendere che il famoso paper del 1984 mi aveva dischiuso prospettive totalmente inedite della geografia economica. E mi accorgo che quei miei lavori, che oggigiorno riscuotono maggior interesse, sono proprio quelli ispirati alle idee di Riccardo. Devo molto della mia reputazione accademica alle sue intuizioni, che gli permisero di aprire un campo nuovo.
Aveva il dono di saper vedere ciò che non era evidente. All’epoca, aveva cominciato a lavorare su alcune regioni e su base geografica . Può darsi che qualcun altro avesse già iniziato ad occuparsi del caso italiano, ma non era un argomento di moda, non era considerato importante; eppure in seguito divenne enormemente importante. Poi, con l’andar degli anni gran parte del suo lavoro si concentrò sulle molteplici dimensioni della globalizzazione. Gli ultimi suoi paper, che ho letto, evidenziano come vi siano molteplici canali ricorrenti, che si rinforzano a vicenda.
Ora, se mi guardo indietro, mi accorgo che studiavamo gli stessi argomenti – e spesso era lui il primo a farlo. Era vivamente interessato al processo di interazione economica delle nazioni – quello visibile e quello invisibile – grazie al quale alcune economie nazionali evolvono in un modo che sarebbe impossibile senza quella specifica interazione.Â
Una carriera straordinaria.
Nei miei discorsi, talvolta, faccio riferimento (e non so neanche se tale accenno venga sempre capito) a quel gruppo di economisti internazionali, che negli anni ’80-90 lavoravano sui temi dei rendimenti crescenti e che tentavano di essere sempre un passo avanti agli altri. Bene, di quel gruppo di economisti della mia generazione, sempre gli stessi ad incontrarsi ai convegni, Riccardo Faini è stato il primo ad andarsene. E’ una perdita molto dolorosa.
(traduzione di Daniela Crocco)
 * Questo intervento è uno stralcio tra tto dal libro “Riccardo Faini. Un economista al servizio delle istituzioni” edito da il Mulino e curato da Alessandra Del Boca. Il testo è anche un estratto della Fifth Luca d’Agliano Lecture, presentata da Paul Krugman a Torino, il 7 giugno 2007
La crisi finanziaria ha fatto crollare il valore delle azioni di molte società quotate in borsa. E benché quelle scalabili siano in Italia davvero poche, si cercano strumenti per rendere più difficili le offerte pubbliche di acquisto. Per esempio, rimuovendo la passivity rule, la norma che impedisce al management della società bersaglio di intraprendere azioni per ostacolare il successo dell’Opa. Ma una limitazione simile non tutela i piccoli azionisti. A trarne beneficio sono in genere i gruppi manageriali oppure gli azionisti di controllo. Regole speciali per i fondi sovrani.
Il piano europeo per uscire dalla crisi va nella giusta direzione. Ma potrebbe incontrare l’ostilità dell’opinione pubblica, per le ingenti risorse pubbliche dirottate verso un sistema bancario che negli ultimi dieci anni ha realizzato enormi profitti. Tre proposte a vantaggio dei cittadini europei: aumentare la concorrenza nel sistema bancario per ridurre i costi e migliorare i servizi. Prevedere un programma di aiuto per famiglie in difficoltà con le rate del mutuo. E riduzioni fiscali per i redditi più bassi. Servirebbe anche a rendere la recessione meno duratura.
Se sono chiare le linee generali degli interventi decisi dai governi europei per contrastare la crisi finanziaria, poco ancora si sa sui dettagli del piano. Ma si tratta di dettagli molto importanti, che vanno dai criteri per decidere in quali banche iniettare capitale alla durata dell’implicita nazionalizzazione. Inoltre il piano non affronta un punto chiave: come affrontare l’eventuale salvataggio di grandi banche sovra-nazionali. Affrontare questo punto potrebbe darci finalmente l’occasione di creare un’autorità di vigilanza per l’area dell’euro, a cui affidare la tutela della stabilità di queste banche.