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QUANDO LA BANCA ENTRA NELL’IMPRESA

Il CICR, Comitato per il credito e il risparmio, si riunisce per liberalizzare – in linea con la normativa europea – la partecipazione delle banche al capitale delle imprese non bancarie. Interventi sul capitale ispirati a logiche imprenditoriali e non di salvataggio possono far bene alla nostra struttura produttiva. A patto che non si abbassi la guardia sulla trasparenza e sulla prevenzione dei conflitti di interesse.

INTERNET DI STATO? NO, GRAZIE

Qual è il ruolo pubblico nello sviluppo delle reti di telecomunicazione? Molte iniziative oggi reclamate a gran voce e promosse da enti locali violano in parte o del tutto gli assunti di un intervento rispettoso del mercato. Allo Stato spetta il compito di definire le regole, sostenere la domanda dei soggetti deboli o delle pubbliche amministrazioni ed eventualmente co-investire nelle società che possono favorire la crescita del settore. Con una separazione strutturale tra gestori di rete, fornitori di servizi di accesso Ip e fornitori di servizi applicativi.

LA REPLICA AI LETTORI

Le osservazioni del lettore sono estremamente acute e desidero ringraziarlo per l’apporto di riflessione che ha inteso offrire, partendo da alcune delle indicazioni contenute nel mio articolo.

1)         Per quanto riguarda l’informazione sul primo pilastro, già in passato ebbi ad esprimere perplessità su modalità e contenuti della campagna pubblicitaria svolta dal Governo nel semestre del “silenzio assenso”. Occorre premettere che una certa quale “improvvisazione” fosse inevitabile, data l’estrema ristrettezza del tempo intercorrente tra la decisione di anticipare di un anno l’avvio della riforma e l’attuazione della stessa. Abbiamo però tutti scontato un grave ritardo, che definirei politico-culturale, sull’identificazione degli argomenti da presentare per richiamare l’attenzione degli italiani in ordine all’importanza della previdenza complementare e sulle forme più appropriate di comunicazione da utilizzare a tal fine. In particolare, sembra vi sia ancora una certa ritrosia a rendere espliciti agli occhi dei nostri concittadini gli effetti della introduzione del metodo contributivo sull’ammontare finale della pensione che essi potranno attendersi nei decenni a venire dal sistema obbligatorio. Sarebbe oltremodo auspicabile che si sviluppasse nel Paese una campagna di educazione di massa sulle attuali caratteristiche del sistema pensionistico (pubblico e privato) per dare a tutti modo di conoscere in largo anticipo di quale copertura previdenziale si potrà beneficiare in futuro. E’ un’esigenza che discende da un interesse nazionale (giacché in causa è il destino previdenziale di milioni di italiani) che dovrebbe essere riconosciuto come tale da tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione.
2)         La proposta da Lei avanzata sull’allocazione di parte delle somme dovute per il riscatto a fini previdenziali degli anni di università pare senz’altro meritevole di attenzione. E’ forse inutile precisare che essa riguarderebbe una (pur importante) minoranza del mondo del lavoro dipendente, che non risulta sia quella meno disponibile all’investimento nei fondi pensione.

3)         La questione dei rendimenti e quella dei costi. Non è esatto dire che i rendimenti dei fondi pensione siano stati negativi in assoluto a seguito della crisi del 2001. Guardando ai dati, si osserva che l’impatto della crisi del 2001 è stato abbastanza rapidamente assorbito dalla industria dei fondi pensione italiana. All’interno di essa, peraltro, si riscontravano rendimenti diversi, soprattutto a causa dell’impatto dei costi sui rendimenti netti (ovviamente, nell’ambito di portafogli confrontabili). Purtroppo, la corrente crisi dei mercati finanziari mondiali ha generato uno shock che sta colpendo pesantemente anche il patrimonio dei fondi pensione. La durata della crisi non è di facile previsione, né si intende utilizzare per tranquillizzare il pubblico unicamente l’argomento, che pure ha una ragionevolezza empirica, riguardante il carattere di lungo periodo dell’investimento previdenziale. Altre componenti giocano un ruolo nel calcolo di convenienza: il contributo addizionale del datore di lavoro, la deducibilità fiscale, il regime impositivo di favore previsto nella fase dell’erogazione delle rendite. L’introduzione di una parziale detraibilità della contribuzione ai fondi avrebbe certamente un notevole impatto nel calcolo di convenienza e determinerebbe una redistribuzione dei benefici a favore delle classi a basso reddito. Sono peraltro d’accordo con l’affermazione che l’offerta di servizi accessori (soprattutto, il Long Term Care e la copertura caso morte) rappresenti un positivo elemento di differenziazione del prodotto fondo pensione rispetto al TFR. Occorre però ricordare che tali servizi hanno un costo aggiuntivo che potrebbe essere ridotto qualora fossero offerti (come già avviene in qualche caso) anche nell’ambito dei fondi ad adesione collettiva. Ritengo che un codice di autodisciplina potrebbe essere la sede adeguata anche per standardizzare l’offerta di tali servizi – e i relativi costi – in modo da evitare l’introduzione di un ulteriore elemento di confusione nella confrontabilità dei prodotti, a tutto scapito della trasparenza e della accountability dei fondi.

Riguardo a tale ultimo concetto, la proposta di favorire forme di aggregazione dei fondi negoziali è anche rivolta all’obiettivo di conseguire economie di scala che consentano ai fondi di minore dimensione (quelli più grandi potrebbero – e dovrebbero – farlo sin d’ora) un aumento delle spese volte a rafforzare l’organizzazione con figure professionali adeguate (a livello dei Consigli d’amministrazione e delle strutture amministrative), e a rendere più efficienti i servizi agli aderenti.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Diversi lettori hanno espresso un certo scetticismo rispetto alla possibilità che la concorrenza possa ridurre la discriminazione sul mercato del lavoro. In particolare, una lettrice argomenta che la concorrenza ha fatto sparire “i concorsi e l’orario di lavoro contrattuale” dando origine a pratiche di assunzione e promozione non basate sul merito e la produttività potenziale. La lettrice sembra tuttavia alludere più al settore pubblico che al settore privato. Il settore pubblico in Italia come in altri paesi non è esposto a una vera concorrenza di mercato. Alcuni paesi hanno introdotto meccanismi volti ad aumentare l’efficienza del settore pubblico ed a promuovere la meritocrazia ma fondamentalmente la pressione concorrenziale sul settore non è cambiata radicalmente (tranne che il settore pubblico o para-pubblico si è tendenzialmente ridotto). Ciò a cui allude giustamente la lettrice, non è la pressione concorrenziale esterna a un’impresa o un’organizzazione, a cui ci riferiamo invece nell’articolo, ma è l’introduzione di una maggiore flessibilità nel pubblico impiego senza adeguati incentivi per il management, che può offrire, al contrario, opportunità per la discriminazione, perché lascia più margini di manovra senza, appunto, aumentare la pressione a fornire servizi più efficienti e dunque a assumere e incentivare i migliori, indipendentemente dal loro sesso. Questo non vuol dire che una maggiore flessibilità, rispetto a un sistema rigido di concorsi, non debba essere introdotta, ma ciò richiede adeguati checks and balances. Nell’articolo, viceversa, discutiamo l’effetto della pressione concorrenziale nel privato, la quale constringe la le imprese  ad assumere e promuovere i migliori per evitare di perdere quote di mercato.

Ma è importante chiarire un punto rispetto alla natura della discriminazione. Da un punto di vista teorico una maggiore concorrenza sul mercato può anche aumentare le pratiche discriminatorie quando queste sono percepite come profittevoli per le imprese. Inoltre, la concorrenza può portare le imprese all’adozione di forme di organizzazione del lavoro che penalizzano certi gruppi, tra cui le donne. Ad esempio, maggior concorrenza spesso costringe le imprese a rispondere rapidamente all’evoluzione della domanda e per far questo le imprese spesso richiedono una maggiore flessibilità dell’orario del lavoro che di fatto penalizza alcuni lavoratori. Due considerazioni si impongono tuttavia a questo riguardo. Primo, gli studi empirici mostrano che, almeno sulle differenze salariali e occupazionali tra uomini e donne, gli effetti benefici di una maggiore concorrenza dovuti alla riduzione della discriminazione “inefficiente” – cioè basata sul pregiudizio — tendono a dominare gli effetti negativi dovuti a un aumento di pratiche di gestione di fatto sfavorevoli alle donne. Secondo, un’adeguata legislazione anti-discriminazione serve appunto a combattere queste pratiche quando sono discriminatorie (per esempio quando una donna si vede rifiutare un posto di responsabilità per il semplice fatto di essere mamma, indipendentemente dalla sua effettiva disponibilità di tempo e dalle sue capacità). Inoltre, altri interventi di politica economica (in particolare un’adeguata politica della famiglia) possono aiutare a disincentivare queste pratiche e/o a ridurne gli effetti quando non si tratta di pratiche discriminatorie.
Infine, le leggi possono favorire cambiamenti culturali quando questi sono alla base della discriminazione . Si pensi, per esempio, all’effetto dell’introduzione delle leggi contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti, in una situazione in cui, almeno in alcuni Stati , il problema era radicato in attitudini sociali e culturali. (1) Ovviamente questo richiede anche che le leggi anti-discriminazione siano efficaci ed applicate  rigorosamente, proprio quello che è assente in Italia.

Su un altro fronte, un altro lettore è scettico sulla possibilità che, dato il livello basso dei salari, ci possa essere oggi in Italia discriminazione basata sul sesso. Questo presupporrebbe che i salari nominali si siano ridotti e schiacciati contro i minimi contrattuali. Ma il problema principale in Italia è la bassa, bassissima, crescita della produttività che limita gli incrementi salariali in generale ma non impedisce che le disparità tra i salari dei lavoratori vengano mantenute se non aumentate. Inoltre, anche se un uomo e una donna fossero pagati nello stesso modo per un lavoro uguale, ciò non impedirebbe, come ricordato dalla lettrice di cui sopra, che la discriminazione si possa realizzare riguardo alle opportunità di lavoro offerte alle donne, generando quindi differenze salariali medie tra i sessi dovute unicamente alla discriminazione.

(1) Si veda per esempio: Leonard (1984), “Antidiscrimination or Reverse Discrimination: The Impact of Changing Demographics, Title VII, and Affirmative Action on Productivity”, The Journal of Human Resources, Vol. 19, No. 2, pp. 145-174, Chay (1998), “The Impact of Federal Civil Rights Policy on Black Economic Progress: Evidence from the Equal Employment Opportunity Act of 1972”, Industrial and Labor Relations Review, Vol. 51, No. 4, pp. 608-632, e Hahn et al. (1999), “Evaluating the Effect of an Antidiscrimination Law using a Regression-Discontinuity Design”, NBER Working Paper No. 7131.

QUALCHE DATO IN PIU’

Come accadde negli anni ’90, il Governo ha previsto di ridurre l’indebitamento pubblico anche attraverso una significativa flessione delle spese in conto capitale sia in percentuale del PIL che in valore assoluto.
La tabella 1 sintetizza questa strategia esposta nell’ultimo DPEF.
Il DPEF riformula le previsioni a legislazione vigente contenute nella Relazione Unificata sull’Economia e la Finanza (RUEF) del marzo scorso, riducendone i valori per effetto di alcune misure già intraprese (decreto legge 93/2008, abolizione ICI) e di nuove ipotesi sull’effettivo utilizzo delle risorse. Tali effetti sono visibili nel rigo D e confermano un abbassamento omogeneo di tali previsioni tendenziali tra marzo e luglio di 3-4 miliardi per ciascun anno.
Più significativa comunque è la flessione tra programmatico e tendenziale relativo alla stesso DPEF (rigo E). A regime, nel 2011, nel quadro programmatico si avrebbero minori spese in conto capitale per circa 11 miliardi di cui la metà relativi ad investimenti pubblici.
Se poi si considerano gli effetti totali (misure già avviate e successive alla pubblicazione della RUEF più misure da attivare con l’approvazione del DPEF, rigo F) si osserva che la caduta di tali spese raggiunge livelli molto elevati, con riflessi in termini di PIL dell’ordine di quasi 1 punto percentuale tra il 2008 e il 2013.

Tab. 1 – Spesa in conto capitale e investimenti fissi lordi della PA: previsioni a legislazione vigente e previsioni programmatiche (milioni di euro)

APRI TABELLA

Fonte: Relazione Unificata sull’Economia e la Finanza (RUEF) per il 2008; DPEF 2009-2013

Può essere inoltre utile confrontare il rigo C della tab. 1 con le ultime previsioni formulate dal Dipartimento per le Politiche di Sviluppo (DPS) del Ministero dello sviluppo, predisposte al fine di approntare la programmazione delle risorse per l’intero periodo 2007-2013 e di costruire un Quadro Finanziario Unico di cassa che funzionasse come una sorta di “obiettivo di spesa” annuale.

  2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013
QFU(*) programmatico
Spese in conto capitale
63.200 66.500 68.500 71.500 74.400 76.500 79.500

(*) Quadro Finanziario Unico stimato dal Dipartimento per le politiche di sviluppo del Ministero dello sviluppo economico al fine delle allocazione delle risorse ordinarie  straordinarie tra Mezzogiorno e Centro-Nord. Tale stima è al netto di eurotassa, cartolarizzazioni, sentenza IVA, debito ex Ispa, ecc.

Fonte: Rapporto 2007 del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo (DPS)

La differenza, come si vede, è piuttosto impressionante: il DPS (nel mese di marzo 2008) aveva infatti stimato per il 2013 una spesa in conto capitale di circa 22 miliardi superiore a quanto poi riportato nell’ultimo DPEF.
Ugualmente, sembra che la flessione della spesa debba passare per una riduzione delle dotazioni finanziarie destinate al riequilibrio territoriale (leggi: Mezzogiorno) come risulta dalla tab. 2 tratta dalla manovra in atto con decreto legge 112/2008.

Tab. 2 – Riduzioni delle dotazioni finanziarie della missione di spesa “Sviluppo e riequilibrio territoriale” (2009-2011) (milioni di euro)

  2009 2010 2011 Totale
Missione 28:
Sviluppo e riequilibrio territoriale
1.747 2.111 3.862 7.720
% su riduzioni dotazioni
tutte le missioni ministeriali
21,5 24,8 25,4 24,2

Fonte: Decreto legge 112/2008

Ridurre il deficit attraverso le spese in conto capitale e in particolare comprimendo gli investimenti nel Mezzogiorno può sembrare poco accettabile. Ma è proprio così?
Certo, qualcuno dovrebbe informare il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti che ha rilanciato il programma delle grandi opere richiedendo nuovi finanziamenti per importi non coerenti con quelli del DPEF. Ma, a parte questo, non vi è nulla di veramente scandaloso nella riduzione delle spese in conto capitale soprattutto se esse contengono sprechi e inefficienze in misura equivalente a quelle relative alla spesa corrente. In altri termini, se tale spesa non contribuisce nella maniera dovuta a ridurre i costi per le imprese e/o ad aumentare i servizi per i cittadini essa non può essere considerata spesa “buona” rispetto a quella corrente. Non conosciamo analiticamente gli effetti della spesa per investimenti pubblici; tuttavia molti segnali (e analisi parziali) ci informano che essa non raggiunge gli obiettivi desiderati o non lo fa a costi accettabili.
Cosa dunque dovrebbe cambiare? Questo o un altro Governo potrebbe senza problemi ridurre la spesa in conto capitale anche in maniera consistente, a condizione che decreti contestualmente la fine della spesa non selettiva, ossia quella spesa prevista e realizzata senza una preventiva (e successiva) misurazione dei risultati.
Se la riduzione di spesa colpisce programmi e progetti che proseguono stancamente nel tempo con continui rifinanziamenti senza offrire un effettivo contributo a una maggiore dotazione infrastrutturale (dove peraltro ve n’è realmente bisogno), ben venga.
Ma per dar seguito allo scambio minore spesa = maggiore efficienza occorre dichiarare esplicitamente questa intenzione e lavorarci molto su.
Occorre un attento lavoro di misurazione e valutazione, che non è mai stato fatto nel nostro paese e che ancor oggi viene visto con diffidenza (siamo ormai gli ultimi in Europa).
Oggi è possibile (anche con l’aiuto dell’informatica) fare ricorso a metodi di valutazione sufficientemente rigorosi ma di facile applicazione. Perché non lanciare una vasta campagna governativa sulla necessità della valutazione degli effetti degli investimenti pubblici in presenza di risorse molto e sempre più scarse?

PAURA DELLA MATEMATICA

I dati sui test di matematica dell’indagine Pisa sono impietosi per gli studenti quindicenni italiani. Solo il Nord-Est è in media europea, con punte di eccellenza nei licei. Sud e Isole hanno punteggi da paese in via di sviluppo. La situazione è ancora peggiore se si considerano gli iscritti agli istituti regionali di formazione professionale, che invece sono sottorappresentati nel campione. Ma per essere efficace nel risollevare lo scarso livello di competenze una azione di monitoraggio deve concentrare l’attenzione sulle scuole con i risultati peggiori.

MERCATO INTERBANCARIO: QUALCOSA SI E’ ROTTO

Per quasi mezzo secolo i mercati interbancari sono stati considerati un esempio di efficienza e autoregolamentazione. Ora sono l’archetipo della difficoltà del sistema. Le autorità monetarie riescono a governare solo i tassi a brevissima scadenza e si è molto ampliato il differenziale fra quelli ufficiali e gli interbancari oltre la settimana. Difficile la soluzione poiché la causa principale delle anomalie sembra risiedere proprio nelle politiche più stringenti imposte dal mercato, dalle autorità di vigilanza e dal buon senso. Il problema dei tassi Libor sul dollaro.

PLURALISMO: IL MALATO E’ GRAVE

La difesa del pluralismo nelle telecomunicazioni si affida in primo luogo a un’articolata struttura dei media e a una attitudine dei mezzi di comunicazione a riportare una pluralità di opinioni al proprio interno. Il quadro italiano resta perciò problematico anche per il 2007. Nel settore televisivo, esiste ora un terzo gruppo di forte impatto economico. Ma il modello di business dell’operatore pay ha scarsa incidenza su audience e pubblicità. E per la stampa, abbiamo molte realtà locali nelle quali pochissimi giornali coprono la gran parte delle scelte dei lettori.

SPESA PER IL SUD, SI CAMBIA

La manovra economica del governo dà un giudizio implicito, ma impietoso delle politiche di riequilibrio territoriale finora adottate. E infatti i risultati conseguiti nel Mezzogiorno nel ciclo di programmazione 2000-2006 sono sconfortanti. Ora, la manovra centralizza le risorse, proponendo di concentrarle su un limitato numero di interventi di rilevanza strategica nazionale. Il disegno governativo sarebbe più comprensibile, tuttavia, se indicasse precisi criteri di valutazione per selezionare i progetti, come vogliono anche le regole europee. Qualche dato in più.

IL FABBISOGNO DIMEZZATO: A VOLTE RITORNA

Anche questa legislatura, come quella precedente, si apre all’insegna di stime del fabbisogno eccessivamente pessimistiche. Per fine anno il Dpef lo indica a 46,1 miliardi contro i 23,5 miliardi di euro registrati a giugno, quando, come documentiamo, il fabbisogno cresce nei primi sei mesi dell’anno, per poi assestarsi su quei livelli a fine anno. Ma si tratta di errori di stima o di un pessimismo ricercato per escludere a priori misure anticicliche, che servirebbero ad allontanare lo spettro di una recessione? In ogni caso fondamentale rafforzare il servizio bilancio di Camera e Senato. Il Parlamento non può approvare queste stime a scatola chiusa.

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