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EVASORI IN EQUILIBRIO

L’evidenza empirica mostra che pressione fiscale apparente ed evasione sono guidate da un andamento di lungo periodo comune: variano nel tempo, ma nel rispetto di una relazione di equilibrio di lungo periodo. E’ come se ciascun agente osservasse l’aliquota richiesta dal governo, decidesse qual è quella tollerabile e adattasse il reddito dichiarato in modo da ottenere l’aliquota desiderata sul reddito effettivo. Non a caso la penalizzazione per i contribuenti virtuosi appare invariata nei decenni, col passare di generazioni e governi.

IL COSTO DEL CUMULO

Il pacchetto delle misure previdenziali varate dal governo contiene l’abolizione del divieto di cumulo tra rendite da lavoro dipendente o autonomo e prestazione da pensione di anzianità. Si potrà quindi lavorare e nello stesso tempo godere di una pensione di anzianità. Da notare che il divieto era sinora totale tra pensione di anzianità e lavoro dipendente e parziale tra pensione di anzianità e lavoro autonomo. Nell’ultimo caso era cumulabile un reddito corrispondente al minimo INPS più il 70% dell’eccedenza della pensione sul minimo, con una trattenuta comunque non superiore al 30% del reddito conseguito. Secondo le intenzioni del Ministro Sacconi  l’abolizione del cumulo mira a combattere il lavoro nero e far emergere il gettito sui redditi da lavoro ora sommerso. Ma la misura porterà anche a ridurre le entrate di coloro che al momento subiscono una trattenuta sui redditi da lavoro se pensionati. Inoltre l’abolizione del divieto di cumulo rende più appetibile l’opzione del pensionamento d’anzianità, abbassando l’età di pensionamento e facendo lievitare la spesa previdenziale. La Ragioneria Generale dello Stato stima un costo della totale cumulabilità pari a 390 milioni di Euro. Può essere una stima per difetto. Il provvedimento infatti si applica a tutte le pensioni di anzianità successive al 31 dicembre 2002. Secondo l’INPS lo stock di pensionati-lavoratori è di circa 2 milioni e 40mila, ma questo dato non  tiene conto di coloro che avrebbero comunque deciso di continuare a lavorare e in più potranno godere della loro pensione di anzianità. Se il flusso delle nuove pensioni di anzianità aumentasse del 40% (rispetto al flusso in assenza del cumulo), il costo potrebbe più che raddoppiare. E’ difficile fare delle previsioni accurate. Buona quindi l’idea della rimozione del divieto, ma andrebbe applicata in un sistema “neutrale”, quale il sistema contributivo, e non in un sistema in cui le pensioni di anzianità sono in media generose.

IL PREZZO DEL PREGIUDIZIO

In Italia solo il 46 per cento delle donne in età lavorativa ha un’occupazione, uno dei livelli più bassi tra i paesi Ocse. Non solo per la scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro. I differenziali nei tassi d’occupazione e nelle retribuzioni sono dovuti anche a pratiche discriminatorie. E se la progressiva liberalizzazione dell’economia può contribuire a ridurle, una rigorosa legislazione è strumento irrinunciabile. Ma deve prevedere autorità competenti a compiere indagini anche senza querela individuale e sanzioni per l’impresa riconosciuta colpevole.

E’ GIUSTO PUBBLICARE I VOTI DEGLI STUDENTI AI PROFESSORI?

NO, NON E’ GIUSTO PUBBLICARLI

Recentemente, come riportato anche da Repubblica (edizione milanese) alcune organizzazioni studentesche della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Statale di Milano, hanno richiesto la pubblicazione  delle valutazioni espresse dagli studenti sui loro Professori. Nel campo favorevole a questa proposta si distinguono due argomentazioni reiteratamente espresse: i docenti che vengono valutati male avranno un incentivo a migliorare; i docenti che praticano l’assenteismo saranno smascherati. Non voglio,qui, entrare nel merito della validità di queste specifiche motivazioni, riservandomi di farlo altrove. Piuttosto, mi preme esprimere alcune considerazioni di carattere etico-politico.
Credo che sia un dovere di ciascuno avere ben chiaro quali siano i limiti che un’organizzazione, come l’Università, lo Stato, o anche un’impresa, sia essa pubblica o privata, deve porsi nella ricerca di strumenti di controllo e di stimolo della produttività. Una volta fissati tali limiti è lecito cercare il modus operandi più efficace. Il provvedimento in questione è, chiaramente, fondato sull’idea seguente: un docente che privatamente prenda visione della bassa valutazione da parte dei suoi studenti non ha un incentivo sufficiente a  migliorarsi, mentre se la sua posizione relativa, sottolineo, relativa, rispetto al resto del corpo docente è resa pubblica, il suo atteggiamento cambierà. Sarebbe quindi la vergogna di essere stato esposto come meno abile a fungere da stimolo. Può darsi che, a mio avviso imprudentemente, la pubblicazione dei voti avvenga in alcune Facoltà in Italia (a me non risulta), ma ciò non dovrebbe indurre all’imitazione.
Sottolineo che, naturalmente, è il provvedimento che va rifiutato, non l’intenzione di migliorare l’efficienza dei docenti. In un approccio di Economia Politica è ben noto che il raggiungimento dell’efficienza, talora, è in conflitto con altre considerazioni, quali l’equità o la morale. Per fare un esempio estremo: la legge, rispettando la visione morale prevalente nella società, per fortuna, vieta che i donatori di organi siano pagati, eppure il mercato dei trapianti di reni potrebbe funzionare in modo più efficace se i donatori venissero compensati pecuniariamente (l’equilibrio sul mercato porterebbe a un prezzo che uguaglia domanda e offerta). Questo è un caso in cui l’efficienza, giustamente, viene sacrificata alla morale.
Nel caso della pubblicazione dei voti ai docenti vi è un serissimo, seppur meno tragico ed eclatante, problema morale di salvaguardia della dignità umana, di quella sfera di riservatezza e, oserei dire, di fragilità della persona umana. Credo che il rispetto della persona sia un punto fermo della nostra legislazione proprio perché i cittadini hanno diritto a non vedere invase certe sfere che possono fare della loro fragilità uno strumento di abuso, ricatto, pressione, sofferenza psichica.
Purtroppo duole constatare che proprio su queste leve fa perno l’idea che la pubblicazione dei voti possa migliorare l’efficienza dell’insegnamento.
A mio avviso, questo provvedimento è, in un Paese sempre più “borderline” come il nostro, uno di quei distratti passi verso la barbarie che è necessario a tutti i costi evitare.
Che si usino strumenti accurati di valutazione del rendimento individuale è una necessità oramai acclarata e imprescindibile in tutte le Istituzioni che servono interessi pubblici, necessità sulla quale concordo pienamente. Nessuno è intoccabile e non devono esistere caste privilegiate né dentro né fuori delle Università. Ma, mentre la valutazione dell’istituzione o delle sue articolazioni può, come avviene sempre più di frequente, essere resa pubblica, quella individuale deve restare “ad uso interno”. Naturalmente facendo in modo che questo “uso interno” ci sia davvero e sia efficace. Che tutti debbano essere messi alla gogna affinché gli scansafatiche siano smascherati è un procedere incivile, con un costo sociale (il costo sociale è la somma di tutti i costi privati) che supera di gran lunga i benefici. E’ auspicabile che si cerchino strade meno rozze per risolvere un problema così rilevante.
Naturalmente, immagino che chi è favorevole alla pubblicazione abbia un punto di vista etico diverso da quello qui espresso. Favorirebbe il dibattito vederne articolate le argomentazioni per poterle apprezzare.

Paolo Garella

PERCHE’ E’ NECESSARIO PUBBLICARLI

Raccolgo l’invito del Signor Garella ad argomentare alcune ragioni a favore del provvedimento. Non essendo un esperto del settore, mi è difficile trovare dati aggiornati, perciò faccio quello che posso con numeri che dovrebbero essere a sfavore della mia tesi (divertente che quando uno cita dei numeri un altro riesca sempre a dimostrare che sono sbagliati). La retribuzione media dei lavoratori italiani è pari a circa 22000 EUR (anno 2007, da varie fonti che citano un rapporto Eurispes), mentre la retribuzione dei professori universitari italiani (di seguito PUI) al livello piú basso (anno 2004, [1]) è pari a circa 47600 EUR, per la prima fascia, e circa 36000 EUR per la seconda; spero di non sbagliare i calcoli ma: 47600/22000 = 2.16… e 36000/22000 = 1.63… [1] A fianco di questo confronto osservo che non mi risultano: un numero di incidenti sul lavoro dei PUI significativo rispetto a quello di altre categorie; PUI in cassa integrazione, in mobilità o in esubero; PUI costretti riqualificarsi completamente; PUI licenziati perché l’ateneo è in crisi finanziaria; PUI licenziati perché l’ateneo viene acquistato, svuotato del valore, infine lasciato fallire; PUI licenziati perché l’ateneo ristruttura e taglia cinquantenni e sessantenni. In piú, i PUI possono continuare l’attività fino a 70 anni godendo della massima retribuzione nell’ultimo periodo (forse non il piú produttivo). I PUI di prima fascia vivono un oggettivo potere nell’ambiente lavorativo, che consente loro un certo agio nell’affrontare le proprie "sofferenze psichiche". Accoglierò volentieri delle smentite. Nel complesso il trattamento dei PUI è non male per un’istituzione che deve "porsi dei limiti". Mettere nella stessa pentola della trasparenza delle prestazioni istituzioni pubbliche e aziende private è fuori luogo; l’Università, poi, è proprio un’altra categoria. Chiedo: qual’è il ruolo dell’Università a finanziamento pubblico? La mia opinione: quello che non può essere ricoperto dai privati, vincolati a seguire il mercato reale: creare e difendere un ambiente in cui le idee circolino liberamente e che ponga al centro di tutto la competizione libera e onesta sulla materia. Il lavoro dell’universitario a finanziamento pubblico deve essere di tipo imprenditoriale in uno speciale mercato a parte: si concede a una persona la possibilità, per un numero di anni non infinito, di sviluppare e trasmettere le proprie idee, finché è in grado di farlo con qualità comprovata. Le prestazioni sul "mercato" si manifestano in tre modi principali: qualità delle pubblicazioni, quantità di finanziamenti privati raccolti, valutazione della didattica. Questo mercato deve essere presente ovunque, tra gli atenei e all’interno dello stesso ateneo; il buon universitario deve essere disposto alla competizione aperta su tutto. La classificazione "università di ricerca" e "università di insegnamento" non può essere presente (in Italia) se il finanziamento è pubblico; lo dimostrano vicende di splendore assoluto come quella di Sviluppo Italia. Ciò deve valere anche per gli studenti: essere studente universitario significa vivere il diritto/dovere di competere onestamente sulla materia, esporre coraggiosamente le proprie idee originali, dimostrando ciò che si è capaci di fare. Una didattica di scarsa qualità è un impedimento enorme alla propria capacità di competere. Chi cerca di dimostrare le proprie capacità, implicitamente si mette in competizione con tutti; i PUI come accolgono il confronto? Heh… che differenza con quanto scrisse il Professor Rota[2], al punto che l’impostazione stessa del rapporto PUI/studenti è un falso ideologico; e non è un problema di soldi. [2] La pubblicazione delle valutazioni degli studenti è uno dei pochi strumenti, complementare alla formazione di un piano degli studi personalizzato, a disposizione per difendere la propria capacità di competere; si deve almeno sapere chi insegna male, chi è poco in aula e si fa sostituire da dottorandi e assegnisti impreparati, chi non accetta il confronto su approcci alternativi alla materia. Invece di secretare i risultati della valutazione, essa dovrebbe essere estesa in modo da essere maggiormente centrata su competenze e autonomia raggiunte al termine del corso. In piú occorrerebbe la possibilità di partecipare, anche negli anni successivi e post-laurea, a un dibattito sulla formazione dei programmi dei corsi, per poter dire la propria su quanto gli argomenti svolti si siano dimostrati validi o meno. Servono altri strumenti nello stesso spirito: se un barbiere mi taglia male i capelli: vado da un altro; se un professore insegna male: perché, una volta scelto un indirizzo di laurea, sono costretto a seguire il suo corso quando nello stesso ateneo quel corso è offerto anche da altri docenti? Chi insegna male deve restare senza studenti, non ci devono essere quote garantite. E chi decide quali corsi sono retribuiti? Il rifiuto della pubblicazione delle valutazioni rientra nell’ottica: non si deve sapere perché cosí chiudiamo la porta e aggiustiamo le cose tra di noi. Questa è la negazione della competizione aperta e onesta. Purtroppo, in conseguenza di un costume che nei fatti è principio di non responsabilità, gli studenti possono trovarsi in situazioni di vulnerabilità che diventano "uno strumento di abuso, ricatto, pressione"; situazioni che possono invadere la vita privata (!) e quindi diventare un "problema morale di salvaguardia della dignità umana, di quella sfera di riservatezza e, oserei dire, di fragilità della persona umana." Chiedo perdono per l’esposizione rozza: gli studenti pagano le tasse; i PUI mangiano (anche) con quei soldi. Allora perché uno studente deve svolgere lavoro nero? Ad esempio redazione ed editoria elettronica per pubblicazioni, didattiche e non, che alla fine vedranno il nome del PUI sulla prima pagina? E chi resta a rispondere al telefono del Dipartimento in Agosto? Mh, non c’è un tesista? La proposta di pubblicazione delle valutazioni è stata avanzata anche nella recente campagna elettorale studentesca al Politecnico di Milano; si vedrà se le intenzioni dichiarate diventeranno azioni…

Marco Maggi

* Ex studente Politecnico di Milano

UN BEL DAZIO ANTI-INFLAZIONE?

Il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia, di fronte ad una platea amica a Mogliano Veneto (TV), ha lanciato la sua idea: ci vorrebbe un dazio europeo per aumentare la produzione agricola interna, difendere il mercato dei prodotti agricoli e, in tal modo, combattere l’aumento dei prezzi dei cereali. Non ci posso credere, direbbe Aldo del popolare trio Aldo, Giovanni e Giacomo. L’inflazione in giugno ha raggiunto il 3,8%, mai così alta da 12 anni. Pane e pasta hanno contribuito a questo aumento rispettivamente con un +13% e +22% annuo. E il ministro, non contento di ciò che passa il mercato mondiale di questi tempi, vuole anche tassare le importazioni di cereali. E’ vero che una tassa sulle importazioni, dicono i libri di economia, favorisce i produttori interni a discapito di quelli esteri. Ma lo fa a discapito del benessere complessivo dell’economia perché incoraggia produttori forse italiani ma certamente inefficienti. E lo fa togliendo i soldi dalle tasche dei consumatori. A giudicare dai dati sull’inflazione, gli italiani con i problemi più grossi per arrivare alla fine del mese sono i consumatori, non i produttori, tanto meno i produttori di cereali che continuano a godere dei supporti di reddito garantiti dalla Politica Agricola Comune dopo la riforma del 2003. Almeno la Robin Tax di Tremonti è una tassa sui profitti che non aumenta i costi di produzione e quindi di per sé potrebbe non essere trasferita sui prezzi finali (anche se sulla benevolenza di petrolieri e banchieri sarebbe meglio non fare conto). Ma un dazio sulle importazioni di grano, no: aumenterebbe di sicuro i costi e sarebbe trasferito pari pari su più alti prezzi dei cereali, del pane e della pasta. Ministro Zaia, non sarebbe meglio ripensare alla sua idea ed evitare così di far piovere sul bagnato?

TUTTE LE EVOLUZIONI DEL RISPARMIO GESTITO

Il risparmio gestito attraversa in Italia una crisi senza precedenti: dall’inizio del 2007 i fondi comuni hanno subito deflussi per 106 miliardi di euro. Il futuro dell’industria dipende da come gli azionisti bancari vorranno modificare la catena del valore e i margini sulla distribuzione, preservando al tempo stesso la redditività di lungo termine. Ma anche dall’emergere e dal consolidarsi di altri distributori puri. L’importante è capire se queste evoluzioni possano avvenire sotto la spinta delle forze del mercato, oppure se debbano essere guidate da interventi del regolatore.

CHI HA RAGIONE PAGA

La regola generale vigente nei processi civili prevede che le spese processuali vengano pagate dalla parte che perde la causa. Ora il governo propone che siano addebitate a chi vince la causa se questi ha rifiutato senza giustificato motivo una proposta vantaggiosa di conciliazione. L’idea, di per sé buona, è di incentivare la conciliazione. Ma rischia di non tener conto del contesto italiano, nel quale la parte che ha ragione è in una situazione di debolezza cronica. E i meccanismi conciliativi potrebbero costituire una minaccia in bianco ad accettare accordi anche ingiusti.

QUEGLI INDICATORI NEMICI DELLE DONNE*

La legge sugli incentivi alle aziende che assumono donne non si applica alla Calabria, che pure ha un tasso di occupazione femminile al 31 per cento. Un caso che deve servire da monito per il futuro. Se gli indicatori utilizzati per ripartire gli stanziamenti per le politiche sociali e del lavoro si basano solo sulla disoccupazione, in alcune fasi potrebbero essere penalizzati proprio i segmenti più deboli sul mercato del lavoro. Costruire o individuare l’indicatore adeguato a misurare un fenomeno è difficile, ancora più complesso è costruirne uno sensibile al genere.

SPAGNA-ITALIA: IL SORPASSO

In Spagna, la classe dirigente ha chiara l’urgenza della principale sfida per il futuro: far crescere la produttività totale. E non si ha paura di lasciare indietro chi non tiene il ritmo dell’innovazione, siano università inefficienti o imprese poco competitive. In Italia il ministro dell’Economia indica la globalizzazione come causa dei nostri malanni. Ma se vogliamo tornare a crescere, dobbiamo risolvere i problemi interni. A partire da due risorse inutilizzate come Mezzogiorno e lavoro femminile. Aggiungendo molta concorrenza. L’alternativa è solo un dolce declino.

LO SPREAD CHE ALLARGA L’ATLANTICO

Da qualche mese si registra un persistente spread tra Libor e tassi di riferimento attesi. Le banche centrali possono intervenire per eliminarlo? E come? Europei e americani hanno sulla questione punti di vista diversi. I primi lo interpretano come la semplice quantificazione da parte del mercato di un rischio di credito. Secondo la Fed, invece, la causa è in una carenza di capitale delle banche. Nessuna delle due posizioni è pienamente convincente.

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