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PERCHE’ AUMENTA IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE

Dopo due anni di continua discesa, il tasso di disoccupazione nel primo trimestre dell’anno in Italia è tornato a crescere: 7,1 per cento rispetto al 6,4 per cento del primo trimestre del 2007. Non è una buona notizia, ma deve comunque essere letta con attenzione. Il tasso di disoccupazione può aumentare perché diminuiscono gli occupati o perché aumentano le persone che vogliono cercare un lavoro. In Italia negli ultimi dodici mesi sono stati creati più di trecentomila posti di lavoro grazie a un importante contributo dei lavoratori stranieri. Il tasso di occupazione, il rapporto tra occupati e persone tra 15 e 65 anni, è infatti aumentato ancora e si attestato al 58,3 per cento. In sostanza il tasso di disoccupazione è aumentato perché vi è stato un massiccio aumento dell’offerta di lavoro. L’aumento della disoccupazione non è ancora un fenomeno preoccupante, anche perché ad aumentare è stata soprattutto la componente femminile della forza lavoro, con una crescita quasi del 4 per cento in tutto il territorio, mezzogiorno compreso. Se il mercato del lavoro funziona, queste persone troveranno presto un lavoro e contribuiranno ad aumentare il tasso di occupazione del Paese. A livello legislativo, il Governo ha presentato una serie di modifiche legislative sulla regolamentazione dl lavoro. Il disegno di legge prevede la reintroduzione del lavoro a chiamata, una figura prevista dalla legge Biagi e cancellata dal Governo Prodi. Si prevede anche un’ulteriore liberalizzazione del lavoro a termine, con l’introduzione di deroghe oltre i 36 mesi introdotti nella precedente legislatura. Si tratta, tutto sommato, di modifiche marginali e che non cambieranno in modo significativo il nostro mercato del lavoro. Più importante è invece l’abolizione completa del divieto di cumulo tra pensione e lavoro. E’ una misura che certamente contribuirà a aumentare il tasso di occupazione degli individui sopra i 55 anni. Ne avevamo bisogno.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

La democrazia in Europa

La tesi del dissenso disinformato dell’Irlanda sul trattato di Lisbona ha attirato diversi commenti, molti di adesione, ma anche molti di critica. Ringraziando tutti i lettori, cercherò di fornire qualche risposta ai critici

Valutate nel loro complesso le osservazioni critiche mi pare possano essere raggruppate in due filoni.

A) Non tiene il presupposto centrale della tesi sostenuta, vale a dire l’impossibilità di porre la questione della ratifica del trattato d Lisbona ad un referendum, per l’inevitabile complessità e lunghezza della materia oggetto del trattato. Anzi, gli irlandesi sono una frazione infinitesimale di europei che si sono pronunciati contro l’Europa, per il solo fatto che sono gli unici che sono stati messi nella posizione di esprimersi. Se referenda fossero stati indetti in tutti i 27 paesi, probabilmente il no sarebbe espresso dalla maggioranza dei cittadini.
B)  Le politiche europee, molte delle quali non piacciono (allargamenti improvvidi, dumping sociale, euro, politiche commerciali eccessivamente liberiste, ecc), sono decise da ‘tecnici’, ovvero ‘oligarchie’ più o meno illuminate, e i cittadini non hanno (o hanno scarsissimo) diritto di parola. Dunque ben vengano i referenda e i conseguenti esiti negativi. 

Proverò a dimostrare che entrambe queste osservazioni non sono molto solide.
Per quanto riguarda la posizione sub A) posso tranquillamente ammettere che se proponessimo ai cittadini un quesito referendario analogo a quello sottoposto agli irlandesi, la maggioranza degli europei risponderebbe come questi ultimi. Il quesito nella sostanza era questo: “volete voi accettare un trattato incomprensibile il cui eventuale rifiuto non cambia nulla nelle vostre vite?” Occorre un bella fede europea per rispondere sì.
Ma perché non proporre invece un quesito di questo genere: “volete voi denunciare i trattati europei, sostenendo i costi della non-Europa?” A me sembra che anche questo sia un modo del tutto legittimo e più esaustivo di interrogarci sull’Europa. In questa maniera ci domanderemo seriamente se siamo disposti ad abbonare quella casa comune che ci garantisce benessere e pace da 60 anni. Se siamo disposti ad abbandonare le regole sulla tutela dei consumatori, della concorrenza, dell’ambiente, dell’educazione, della sanità, della ricerca, del sostegno all’agricoltura, della distribuzione di fondi strutturali di cui, ad esempio, Italia e Irlanda, hanno ampiamente usufruito negli ultimi 30 anni.
Forse saremmo meno sicuri anche su questioni a cui oggi risponderemo con un no secco. Ad esempio, l’abbandono della politica commerciale comune ci farebbe riacquistare la sospirata sovranità commerciale ma, Stati Uniti e Cina, invece che con il gigante Unione europea, si troverebbero a poter trattare con 27 nanetti (alcuni dei quali praticamente invisibili dal punto di vista economico) che giocano separatamente e contraddittoriamente. Un buon risultato?
Insomma a seconda della domanda che si pone ai cittadini, e del dibattito che ne segue, credo che l’esito di un referendum possa essere molto diverso e questo conferma la tesi che esso non è uno strumento idoneo per decidere su un tema complesso e articolato come l’Europa. Su questo tema devono deliberare i Parlamenti, posto che questi sono eletti dai cittadini proprio con il compito di prendere decisioni tecnicamente complesse e politicamente delicate, e soprattutto lontano da suggestioni populiste.

Vengo alla critica sub B) secondo la quale in Europa le decisioni sono prese in maniera non democratica da euro-burocrati. Non è affatto così.
Come è (o dovrebbe essere) ampiamente noto, i grandi orientamenti politici europei sono decisi dal Consiglio di Capi di Stato e di Governo, dove siedono i responsabili politici degli Stati membri (per l’Italia, il nostro Primo Ministro). Tali orientamenti vengono tradotti in proposte dalla Commissione europea. Questo organo, peraltro nominato dai governi nazionali, è effettivamente quello in cui operano i c.d. euro-burocrati, ma il punto sta che esso non decide nulla in maniera definitiva. Affinché un atto di portata legislativa (regolamento o direttiva) sia adottato, occorre un doppio assenso alla proposta della Commissione: anzitutto è necessario il voto del Consiglio dei ministri degli Stati membri e successivamente occorre il voto positivo del Parlamento europeo. Se uno di questi due organi non è d’accordo, l’atto non entra in vigore.
I ministri che siedono nel Consiglio sono i componenti dei nostri governi e dunque sono soggetti al controllo e alla fiducia dei nostri parlamenti nazionali. Il Parlamento europeo lo eleggono direttamente i cittadini dei paesi europei in base alle singole leggi elettorali nazionali. Quest’ultimo, se il trattato di Lisbona entrerà in vigore, eleggerà il Presidente della Commissione.
In questo quadro, com’è possibile sostenere che qualcuno, a Bruxelles, magari un burocrate senza volto e senza mandato elettivo, decide per noi? Non è piuttosto vero che spetterebbe a noi essere più attenti a cosa fanno a Bruxelles i nostri governi, sostenuti dalle nostre maggioranze parlamentari? Ovvero chiedere conto ai parlamentari europei a cui abbiamo dato il voto? Ovvero tenere a mente, quando sentiamo i nostri politici dire “ce lo ordina Bruxelles”, che in realtà a Bruxelles quelle decisioni le hanno prese loro insieme ai governi degli altri Stati?
Certo, l’Europa ha bisogno di spiegarsi ai cittadini europei e questi hanno bisogno di interrogarsi sull’Europa. Il paradosso è che cittadini europei ed Europa sono la stessa cosa.

UNA NUOVA UNIONE DALLE CENERI DEL REFERENDUM

Il sistema di incentivi non funziona se una piccola nazione può punire Bruxelles e la sua classe politica a costi bassissimi. L’Irlanda rappresenta l’1 per cento dell’Unione Europea e il costo del suo no ricade sull’altro 99 per cento. Ma la soluzione per superare il veto irlandese c’è, anche se è radicale: gli altri Stati membri dovrebbero abbandonare la vecchia Unione e fondarne una nuova con il Trattato di Lisbona come legge fondamentale. A quel punto gli irlandesi dovrebbero dire se vogliono stare dentro o fuori la nuova Europa.

PER CHI SUONA IL NO DELL’IRLANDA

Gli interessi economici sono stati uno dei fattori che hanno determinato l’esito del referendum irlandese sul Trattato di Lisbona. La distribuzione del voto mostra una larga maggioranza di sì nelle aree più ricche, mentre in quelle più povere ha prevalso il no. Come in Francia, i lavoratori non qualificati si sono sentiti minacciati dalla concorrenza e dall’immigrazione dai paesi dell’Est Europa. Ma se gli elettori della classe operaia e delle campagne votano sistematicamente contro una maggiore integrazione europea, i leader politici non possono far finta di niente.

UN TRATTATO DA ATTUARE COMUNQUE

Il referendum irlandese conferma la difficoltà delle classi dirigenti nazionali, generalmente favorevoli all’Europa, a mantenere su questa linea il consenso dell’opinione pubblica interna. Invece di diventare un punto di riferimento rassicurante, le politiche dell’Unione hanno talora alimentato le paure, con messaggi confusi su mercato del lavoro, immigrazione, sicurezza interna, ambiente, prezzi dei beni alimentari. La ricerca di compromessi ha frenato la capacità di agire in difesa dei cittadini europei. Nulla vieta di adottare presto le norme su presidenza e ministro degli Esteri.

LE SORTI DELL’EUROPA

Il no dell’Irlanda al Trattato di Lisbona ripropone la contraddizione di un’Europa che deve raggiungere una maggiore integrazione e dotarsi di istituzioni più efficaci e responsabili e che però non riesce a superare gli ostacoli frapposti da piccole minoranze. Con conseguenze assai serie. Tuttavia, non vi è un termine ultimo per la ratifica e si può cercare di riavviare il negoziato. Intanto, gli altri paesi dovrebbero confermare rapidamente gli impegni assunti. Vale soprattutto per l’Italia. Per far parte di un’avanguardia coesa che vada avanti comunque.

IL NO IRLANDESE, UN DISSENSO DISINFORMATO

Per loro stessa ammissione, gli irlandesi hanno votato no al Trattato di Lisbona perché non ne capivano il contenuto. Ma non esiste alcun modo di scrivere le regole della vita comune di ventisette paesi in modo immediatamente leggibile anche per i non esperti. Il problema è aver sottoposto a referendum una tale materia. Tradendo così la logica e lo spirito della moderna democrazia parlamentare. Ora una soluzione potrebbe essere l’entrata in vigore del Trattato senza l’Irlanda. Che dovrebbe uscire da tutto il sistema dell’Unione.

NON PASSA LO STRANIERO

La vera cifra, anche sul piano simbolico e comunicativo, del pacchetto sicurezza è l’accanimento contro lo straniero. In un percorso verso il diritto penale del comportamento che si manifesta appieno nel nuovo reato di ingresso illegale nel territorio dello Stato. Anche in un confronto superficiale con gli altri paesi d’Europa, si nota che le sanzioni per lo più previste sono pene pecuniarie e sanzioni amministrative. Diverse, dunque, da quelle detentive che il governo italiano intende adottare. E che oltretutto si riveleranno un’arma spuntata per l’impossibilità di applicarle.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Rispondo collettivamente ai MOLTI lettori che hanno avuto la cortesia di commentare il mio articolo. Alcuni di questi hanno sostenuto la loro netta contrarietà alla ripesa del nucleare sia per i livelli dei costi, sia per la minaccia alla sicurezza dell’ambiente e della popolazione . Altri, pur con molte preoccupazioni, hanno mostrato maggiore disponibilità alla ripresa del nucleare sottolineando la necessità di adottare ogni tipo di controllo. Altri ancora hanno valutato più importanti i problemi tecnici rispetto a quelli legislativi e regolamentari su cui mi ero soffermato.
Da parte mia desidero esplicitare ai lettori che non sono mosso da alcuna pregiudiziale scientifica e culturale alla ripresa del nucleare anche in Italia. La mia visione del problema dunque non è del tipo "nucleare si", "nucleare no", ma sul "come" si riavvia il nucleare nel nostro paese. Ciò che temo è una sorta di "via italiana" al nucleare che non adotti le "best practice" adottate nei paesi che da anni hanno promosso e potenziato il nucleare. Come noto l’industria civile del nucleare è una ricaduta dell’industria bellica (non a caso il prezzo dell’uranio è sceso ai minimi storici anche per effetto dell’abbandono della corsa agli armamenti); passaggio questo  che nel tempo ha creato competenze, controlli e accettazione sociale sostanzialmente in un processo di trial and error sia nel mondo dei privati sia in quello del pubblici controlli. In Italia, invece, nulla di tutto ciò da quasi venti anni. E’ possibile recuperare tale gap culturale, sociale e scientifico in un breve lasso di tempo in un paese (forse vittima di Croce) che – a scuola e all’università – ha troppo spesso trascurato l’istruzione scientifica di massa (non di alcune eccellenze) la cui conoscenza consentirebbe invece di non scorgere soltanto i fantasmi del nucleare?
Penso che sia possibile se per tempo si ragiona sul fatto che il la ripresa del nucleare non è soltanto questione che riguarda i tecnici del settore ( e la loro supposta supremazia), ma in particolare il ruolo e le competenze della pubblica amministrazione che deve esercitare i controlli  onde evitare che si formini vantaggi privati e costi collettivi. Osserviamo tutti i giorni che la nostra pubblica amministrazione non è in grado di esercitare con sufficiente efficacia il rispetto delle leggi (fiscali, sanitarie, ambientali, ecc.). Come deve cambiare dunque la pubblica amministrazione per la puntuale verifica del il rispetto delle norme in campo nucleare? Saranno sufficienti le abituali verifiche cartacee oppure saranno indispensabili quelle sul campo? E quale corpo dovrà effettuarle? Non a caso altri paesi hanno istituito apposite autorità per la sicurezza nucleare. Il governo ha annunciato che nei prossimi giorni adotterà alcuni provvedimenti al riguardo, Mi auguro che non siano soltanto quelli che daranno il permesso alla costruzione delle centrali nucleari (acciaio, cemento, piombo, rame, ecc) me che comprendano anche l’avvio di una riflessione sulle istituzioni pubbliche per il controllo di questo settore così delicato per la sicurezza della popolazione.
Vi  è infine chi mi a fatto notare che gli ingegneri nucleari già esistono in Italia. Ricordo al riguardo che per effetto dell’abbandono del nucleare molte università italiane hanno ridenominato i corsi di ingegneria nucleare in "ingegneria energetica" oppure "ingegneria nucleare e della sicurezza industriale" e così via. In ogni caso sono felice di scoprire che esistono ancora rappresentanti di una specie che consideravo, erroneamente, in estinzione se non del tutto estinta.

LA NAZIONALIZZAZIONE NON E’ UNA RICETTA PER BANCHE

La stabilità finanziaria è un bene pubblico e nei casi di crisi governi o banche centrali devono poter intervenire. Ma con un intervento di breve termine, teso a ristabilire la fiducia nel sistema. La soluzione della nazionalizzazione solleva molti dubbi proprio per i vincoli comunitari sugli aiuti di Stato. Meglio un sistema di regole su misurazione del rischio, gestione dei prodotti strutturati e operazioni fuori bilancio, supervisione degli intermediari, cooperazione e scambio di informazioni tra autorità e attori del mercato. Rafforzando la tutela dei risparmiatori.

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