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IL COMMENTO DI UN RAPPRESENTANTE DEGLI STUDENTI

Mi ricollego a quanto finora commentato. Premetto che come ex-rappresentante in Consiglio degli Studenti e nell’ente per il diritto allo studio, insieme a pochi altri miei colleghi, ho espresso fin da subito perplessità su questa riforma.
Pur considerando il modello molto affascinante, e sicuramente innovativo, individuo alcune criticità. Dato il contesto in cui scrivo, ometterò quelle strettamente legate all’Ateneo di Trento.

A) Pagare il merito.

Il problema di base è la bassa considerazione che alcuni studenti hanno per l’Università. Quella che una volta era considerata una straordinaria opportunità per crescere culturalmente ed "elevare" la propria condizione sociale, è diventata adesso una fisiologica e automatica prosecuzione degli studi superiori.
Il modello cerca di aumentare l’attenzione degli studenti da un lato rendendo più cara la loro iscrizione all’Università, dall’altro premiandoli se seguono dei percorsi considerati virtuosi dall’Ateneo.
Il limite di questa impostazione, a mio modo di vedere, sta nell’idea stessa di far amare lo studio pagandolo.
L’ente per il diritto allo studio di Trento (Opera Universitaria) ha pure predisposto degli incentivi, che però vanno a premiare la regolarità. Lo studente studia perché vuole farlo. L’essere regolare gli consente di avere una borsa più alta. Si supera così la dimensione meramente assistenziale, introducendo piccoli incentivi economici per chi ne ha bisogno.
Gli incentivi per chi non avrebbe bisogni economici, dovrebbero essere non monetari: più punti per il voto finale, corsie preferenziali nel Job Placement, maggior coinvolgimento nella didattica d’Ateneo, etc.

B) Il premio finale.

Il premio finale comporta un maggiore impatto sullo studente: fino a 5000€!!
Tuttavia è fortemente penalizzante, soprattutto per le fasce medio-basse. E’ lontano nel tempo rispetto al merito (fino a due anni dalla laurea). E’ lontano nel tempo rispetto all’incremento della tassazione (fino a cinque anni dalla prima rata per le lauree triennali).
Se proprio andava inserito, sarebbe stato piuttosto preferibile un sistema di premi annuali che andavano a ridurre l’importo delle tasse da pagare.

C) Il merito.

Tutti vogliono il merito, nessuno sa che cosa sia il merito. Per valutare economicamente il merito è necessario quantificarlo. Non si parla quindi genericamente di "merito", ma di una serie di indici che vanno a qualificare il percorso dello studente come "meritevole". Poiché si tratta di valutare il percorso di 15mila studenti, gli indici devono essere oggettivi, privi cioè di valutazioni discrezionali (ancorché tecniche) da parte di un’eventuale commissione. Basta un software, neanche troppo sofisticato, a individuare chi è bravo e chi non lo è. La soluzione dovrebbe limitare il contenzioso, ma premia davvero il merito? Premia piuttosto "il merito", quello stabilito dall’Ateneo (anche se con il coinvolgimento formale dei rappresentanti degli studenti).

D) Il rapporto con il sistema di diritto allo studio.

Come rappresentante all’Opera Universitaria vedo in questo punto la critica più forte. Chi prende la borsa di studio, per legge, non paga le tasse universitarie. Il sistema di tassazione progressiva, anche se astrattamente dovrebbe partire dalle fasce di reddito più basse, di fatto parte da chi, anche per un centesimo, non riesce a prendere la borsa di studio.
Prendendo in esame due studenti provenienti da famiglie di tre persone che si iscrivono alla laurea specialistica, avremo:
ICEF € 30mila: + 2350 (borsa di studio+esonero tasse)
ICEF € 30mila/01: – 1304,62 (importo tasse della prima fascia)
Il sistema crea uno scalone molto ampio tra chi è dentro i parametri ICEF dell’Opera e chi ne è fuori.
Le fasce andavano piuttosto parametrate agli interventi dell’Opera Universitaria, prevedendo un’area senza borsa e senza tasse (esonero totale) e un’area con tasse ridotte (esonero parziale).
Ad esempio:
ICEF € 30mila: + 2350€
ICEF € 30mila/01-32mila: 0
ICEF € 32mila/01-35mila: -700€
ICEF € 35mila/01-40mila: -1500€

Conclusioni.

Se un sistema che "premia il merito" è necessario, all’atto pratico questo sistema dovrebbe tener conto di diversi trade off:
A) premio in denaro/premio in reputazione;
B) vantaggio complessivo/esigenze del breve periodo;
C) merito rigido/merito flessibile;

Ma soprattutto dovrebbe tener conto del contesto istituzionale nel quale si inserisce, per evitare le iniquità di cui al punto D).

Valerio Scollo
Rappresentante degli studenti in Consiglio di Amministrazione dell’Opera Universitaria
Consiglio di Facoltà di Giurisprudenza
Ex-rappresentante degli studenti in Consiglio degli Studenti

IL PRECARIO NELLA MANOVRA DI MEZZA ESTATE

Disparità di trattamento tra lavoratori a tempo determinato privati e pubblici ma anche nell’ambito delle due categorie, dubbi di costituzionalità: sono alcuni dei grossi problemi cui va incontro l’emendamento sui precari della “manovra di mezza estate”. La disposizione proposta scarica le conseguenze dell’illegittimo comportamento del datore di lavoro tutte sulle spalle del dipendente. Questo piace a Confindustria, ma negli ultimi giorni anche da parte del Governo si manifesta la volontà di modificare il testo.

IL BRAVO STUDENTE NON PAGA LE TASSE

Riconoscere il merito nell’ambito della formazione universitaria rappresenta un passaggio  quasi irrinunciabile, in un contesto in cui l’80 per cento circa dei diplomati si iscrive a una facoltà. Per questo lÂ’università di Trento ha introdotto la borsa di merito. In generale, gli importi delle tasse universitarie sono stati aumentati di circa il 50 per cento. Però, per i singoli studenti varieranno sia in base alla condizione economica del nucleo familiare che ai risultati raggiunti. I maggiori proventi serviranno poi a finanziare altre iniziative per combattere l’abbandono.

MISURARE LA PRODUTTIVITA’ NEL SETTORE PUBBLICO

L’Agenzia delle Entrate ha studiato una metodologia per quantificare la produttività del lavoro in ambito pubblico. La chiave di volta consiste nell’individuare i servizi esterni erogati, destinati ai singoli cittadini o alla collettività nel suo insieme. A ciascuna tipologia si associano uno o più indicatori, oggettivamente misurabili e verificabili: la produttività diventa così uno strumento per monitorare l’efficienza. Il metodo scoraggia l’utilizzo di arbitrarie promozioni di massa e incrementi non giustificati delle retribuzioni nelle qualifiche più alte.

QUANDO LA BANCA ENTRA NELL’IMPRESA

Il CICR, Comitato per il credito e il risparmio, si riunisce per liberalizzare – in linea con la normativa europea – la partecipazione delle banche al capitale delle imprese non bancarie. Interventi sul capitale ispirati a logiche imprenditoriali e non di salvataggio possono far bene alla nostra struttura produttiva. A patto che non si abbassi la guardia sulla trasparenza e sulla prevenzione dei conflitti di interesse.

DISCRIMINAZIONE E CULTURA DEL MERITO

La Corte di Giustizia Europea definisce discriminatorio il comportamento di un’impresa belga che dichiara di non voler assumere extracomunitari. Sentenza ineccepibile sia sul piano del diritto sia su quello dell’efficienza economica. Talvolta, tuttavia, le politiche anti-discriminazione vanno in rotta di collisione con la cultura del merito. Il caso delle quote rosa.

SE L’INFLAZIONE DRENA IL REDDITO

Ogni anno, in occasione della discussione sulla manovra di finanza pubblica tornano puntuali le polemiche sul fiscal drag (la differenza tra quanto il contribuente paga e quanto pagherebbe senza un aumento dell’aliquota media) e sulla sua eventuale restituzione da parte del governo. Ma l’alto tasso d’inflazione attuale rende opportuni alcuni calcoli su fiscal drag prodotto dal generalizzato aumento dei prezzi. Vediamo quanto sottrarrà nel 2008 ai contribuenti e al complesso delle famiglie italiane.

INTERNET DI STATO? NO, GRAZIE

Qual è il ruolo pubblico nello sviluppo delle reti di telecomunicazione? Molte iniziative oggi reclamate a gran voce e promosse da enti locali violano in parte o del tutto gli assunti di un intervento rispettoso del mercato. Allo Stato spetta il compito di definire le regole, sostenere la domanda dei soggetti deboli o delle pubbliche amministrazioni ed eventualmente co-investire nelle società che possono favorire la crescita del settore. Con una separazione strutturale tra gestori di rete, fornitori di servizi di accesso Ip e fornitori di servizi applicativi.

LA REPLICA AI LETTORI

Le osservazioni del lettore sono estremamente acute e desidero ringraziarlo per lÂ’apporto di riflessione che ha inteso offrire, partendo da alcune delle indicazioni contenute nel mio articolo.

1)         Per quanto riguarda l’informazione sul primo pilastro, già in passato ebbi ad esprimere perplessità su modalità e contenuti della campagna pubblicitaria svolta dal Governo nel semestre del “silenzio assenso”. Occorre premettere che una certa quale “improvvisazione” fosse inevitabile, data l’estrema ristrettezza del tempo intercorrente tra la decisione di anticipare di un anno l’avvio della riforma e l’attuazione della stessa. Abbiamo però tutti scontato un grave ritardo, che definirei politico-culturale, sull’identificazione degli argomenti da presentare per richiamare l’attenzione degli italiani in ordine all’importanza della previdenza complementare e sulle forme più appropriate di comunicazione da utilizzare a tal fine. In particolare, sembra vi sia ancora una certa ritrosia a rendere espliciti agli occhi dei nostri concittadini gli effetti della introduzione del metodo contributivo sull’ammontare finale della pensione che essi potranno attendersi nei decenni a venire dal sistema obbligatorio. Sarebbe oltremodo auspicabile che si sviluppasse nel Paese una campagna di educazione di massa sulle attuali caratteristiche del sistema pensionistico (pubblico e privato) per dare a tutti modo di conoscere in largo anticipo di quale copertura previdenziale si potrà beneficiare in futuro. E’ un’esigenza che discende da un interesse nazionale (giacché in causa è il destino previdenziale di milioni di italiani) che dovrebbe essere riconosciuto come tale da tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione.
2)         La proposta da Lei avanzata sull’allocazione di parte delle somme dovute per il riscatto a fini previdenziali degli anni di università pare senz’altro meritevole di attenzione. E’ forse inutile precisare che essa riguarderebbe una (pur importante) minoranza del mondo del lavoro dipendente, che non risulta sia quella meno disponibile all’investimento nei fondi pensione.

3)         La questione dei rendimenti e quella dei costi. Non è esatto dire che i rendimenti dei fondi pensione siano stati negativi in assoluto a seguito della crisi del 2001. Guardando ai dati, si osserva che lÂ’impatto della crisi del 2001 è stato abbastanza rapidamente assorbito dalla industria dei fondi pensione italiana. AllÂ’interno di essa, peraltro, si riscontravano rendimenti diversi, soprattutto a causa dellÂ’impatto dei costi sui rendimenti netti (ovviamente, nellÂ’ambito di portafogli confrontabili). Purtroppo, la corrente crisi dei mercati finanziari mondiali ha generato uno shock che sta colpendo pesantemente anche il patrimonio dei fondi pensione. La durata della crisi non è di facile previsione, né si intende utilizzare per tranquillizzare il pubblico unicamente lÂ’argomento, che pure ha una ragionevolezza empirica, riguardante il carattere di lungo periodo dellÂ’investimento previdenziale. Altre componenti giocano un ruolo nel calcolo di convenienza: il contributo addizionale del datore di lavoro, la deducibilità fiscale, il regime impositivo di favore previsto nella fase dellÂ’erogazione delle rendite. LÂ’introduzione di una parziale detraibilità della contribuzione ai fondi avrebbe certamente un notevole impatto nel calcolo di convenienza e determinerebbe una redistribuzione dei benefici a favore delle classi a basso reddito. Sono peraltro dÂ’accordo con lÂ’affermazione che lÂ’offerta di servizi accessori (soprattutto, il Long Term Care e la copertura caso morte) rappresenti un positivo elemento di differenziazione del prodotto fondo pensione rispetto al TFR. Occorre però ricordare che tali servizi hanno un costo aggiuntivo che potrebbe essere ridotto qualora fossero offerti (come già avviene in qualche caso) anche nellÂ’ambito dei fondi ad adesione collettiva. Ritengo che un codice di autodisciplina potrebbe essere la sede adeguata anche per standardizzare lÂ’offerta di tali servizi – e i relativi costi – in modo da evitare lÂ’introduzione di un ulteriore elemento di confusione nella confrontabilità dei prodotti, a tutto scapito della trasparenza e della accountability dei fondi.

Riguardo a tale ultimo concetto, la proposta di favorire forme di aggregazione dei fondi negoziali è anche rivolta allÂ’obiettivo di conseguire economie di scala che consentano ai fondi di minore dimensione (quelli più grandi potrebbero – e dovrebbero – farlo sin dÂ’ora) un aumento delle spese volte a rafforzare lÂ’organizzazione con figure professionali adeguate (a livello dei Consigli dÂ’amministrazione e delle strutture amministrative), e a rendere più efficienti i servizi agli aderenti.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Diversi lettori hanno espresso un certo scetticismo rispetto alla possibilità che la concorrenza possa ridurre la discriminazione sul mercato del lavoro. In particolare, una lettrice argomenta che la concorrenza ha fatto sparire “i concorsi e l’orario di lavoro contrattuale” dando origine a pratiche di assunzione e promozione non basate sul merito e la produttività potenziale. La lettrice sembra tuttavia alludere più al settore pubblico che al settore privato. Il settore pubblico in Italia come in altri paesi non è esposto a una vera concorrenza di mercato. Alcuni paesi hanno introdotto meccanismi volti ad aumentare l’efficienza del settore pubblico ed a promuovere la meritocrazia ma fondamentalmente la pressione concorrenziale sul settore non è cambiata radicalmente (tranne che il settore pubblico o para-pubblico si è tendenzialmente ridotto). Ciò a cui allude giustamente la lettrice, non è la pressione concorrenziale esterna a un’impresa o un’organizzazione, a cui ci riferiamo invece nell’articolo, ma è l’introduzione di una maggiore flessibilità nel pubblico impiego senza adeguati incentivi per il management, che può offrire, al contrario, opportunità per la discriminazione, perché lascia più margini di manovra senza, appunto, aumentare la pressione a fornire servizi più efficienti e dunque a assumere e incentivare i migliori, indipendentemente dal loro sesso. Questo non vuol dire che una maggiore flessibilità, rispetto a un sistema rigido di concorsi, non debba essere introdotta, ma ciò richiede adeguati checks and balances. Nell’articolo, viceversa, discutiamo l’effetto della pressione concorrenziale nel privato, la quale constringe la le imprese  ad assumere e promuovere i migliori per evitare di perdere quote di mercato.

Ma è importante chiarire un punto rispetto alla natura della discriminazione. Da un punto di vista teorico una maggiore concorrenza sul mercato può anche aumentare le pratiche discriminatorie quando queste sono percepite come profittevoli per le imprese. Inoltre, la concorrenza può portare le imprese allÂ’adozione di forme di organizzazione del lavoro che penalizzano certi gruppi, tra cui le donne. Ad esempio, maggior concorrenza spesso costringe le imprese a rispondere rapidamente allÂ’evoluzione della domanda e per far questo le imprese spesso richiedono una maggiore flessibilità dellÂ’orario del lavoro che di fatto penalizza alcuni lavoratori. Due considerazioni si impongono tuttavia a questo riguardo. Primo, gli studi empirici mostrano che, almeno sulle differenze salariali e occupazionali tra uomini e donne, gli effetti benefici di una maggiore concorrenza dovuti alla riduzione della discriminazione “inefficiente” – cioè basata sul pregiudizio — tendono a dominare gli effetti negativi dovuti a un aumento di pratiche di gestione di fatto sfavorevoli alle donne. Secondo, unÂ’adeguata legislazione anti-discriminazione serve appunto a combattere queste pratiche quando sono discriminatorie (per esempio quando una donna si vede rifiutare un posto di responsabilità per il semplice fatto di essere mamma, indipendentemente dalla sua effettiva disponibilità di tempo e dalle sue capacità). Inoltre, altri interventi di politica economica (in particolare unÂ’adeguata politica della famiglia) possono aiutare a disincentivare queste pratiche e/o a ridurne gli effetti quando non si tratta di pratiche discriminatorie.
Infine, le leggi possono favorire cambiamenti culturali quando questi sono alla base della discriminazione . Si pensi, per esempio, all’effetto dell’introduzione delle leggi contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti, in una situazione in cui, almeno in alcuni Stati , il problema era radicato in attitudini sociali e culturali. (1) Ovviamente questo richiede anche che le leggi anti-discriminazione siano efficaci ed applicate  rigorosamente, proprio quello che è assente in Italia.

Su un altro fronte, un altro lettore è scettico sulla possibilità che, dato il livello basso dei salari, ci possa essere oggi in Italia discriminazione basata sul sesso. Questo presupporrebbe che i salari nominali si siano ridotti e schiacciati contro i minimi contrattuali. Ma il problema principale in Italia è la bassa, bassissima, crescita della produttività che limita gli incrementi salariali in generale ma non impedisce che le disparità tra i salari dei lavoratori vengano mantenute se non aumentate. Inoltre, anche se un uomo e una donna fossero pagati nello stesso modo per un lavoro uguale, ciò non impedirebbe, come ricordato dalla lettrice di cui sopra, che la discriminazione si possa realizzare riguardo alle opportunità di lavoro offerte alle donne, generando quindi differenze salariali medie tra i sessi dovute unicamente alla discriminazione.

(1) Si veda per esempio: Leonard (1984), “Antidiscrimination or Reverse Discrimination: The Impact of Changing Demographics, Title VII, and Affirmative Action on Productivity”, The Journal of Human Resources, Vol. 19, No. 2, pp. 145-174, Chay (1998), “The Impact of Federal Civil Rights Policy on Black Economic Progress: Evidence from the Equal Employment Opportunity Act of 1972”, Industrial and Labor Relations Review, Vol. 51, No. 4, pp. 608-632, e Hahn et al. (1999), “Evaluating the Effect of an Antidiscrimination Law using a Regression-Discontinuity Design”, NBER Working Paper No. 7131.

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