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I SALARI NON SCIVOLANO SULLE TASSE

Si discute molto in Italia di salari bassi e di potere di acquisto che si è ridotto negli ultimi dieci anni. Tutta colpa del cuneo fiscale, si dice. Tuttavia, la differenza tra costo del lavoro e stipendio netto non è imputabile solo alle trattenute fiscali, ma anche ai contributi sociali e previdenziali,  assimilabili a premi assicurativi e a retribuzione differita. Ma il punto fondamentale è che secondo i dati Ocse per i lavoratori dipendenti il cuneo è leggermente calato.

TESTIMONIANZA DI PIER LUIGI VIGNA E DONATO MASCIANDARO

Vigna è Procuratore Nazionale antimafia dal 1997 al 2005. Insieme a Masciandaro, economista, fa parte
della Commissione per la stesura di un Testo unico delle norme contro il riciclaggio

CRIMINE ORGANIZZATO ED ECONOMIA: SLOGAN VUOTI O RICETTE EFFICACI?

Investire nella trasparenza e nella sicurezza: è questa lÂ’indicazione da recepire nei programmi elettorali per combattere il legame tra crimine organizzato ed economia, al Sud ma non solo. La lotta alla criminalità comincia dall’economia: ma non seguendo il tradizionale e mistificante slogan: "più sviluppo, meno criminalità", ma piuttosto le indicazioni della più recente analisi economica: "più sicurezza, più sviluppo".

Occorre decisamente superare il vecchio paradigma che lega il ristagno economico alla crescita della criminalità organizzata. Anzi, segnali di crescita economica e finanziaria, non inseriti in quadro caratterizzato da:
a) una struttura economico – finanziaria di base trasparente e competitiva;
b)  un sistema pubblico efficiente che garantisca la tutela dei diritti personali e delle relazioni contrattuali, rischia di produrre rischi di alta vulnerabilità ambientale all’inquinamento da criminalità organizzata.

La spinta alla accumulazione con ogni mezzo di risorse, rappresenta la finalità principale – per non dire lÂ’unica – che spiega le scelte strategiche delle organizzazioni criminali. Ma la possibilità di profitto da sola non basta; deve essere accompagnata da una situazione ambientale favorevole, di vulnerabilità economica ed istituzionale. La vulnerabilità economica è collegata a situazioni di bassa competitività ed efficienza: la vulnerabilità istituzionale si può riscontrare quando in un contesto territoriale la competizione economica e lo sviluppo non sono garantite da una struttura di pubbliche autorità e istituzioni che assicurano la tutela dei diritti, la risoluzione dei conflitti ed in generale il rispetto delle norme, la criminalità ha buon gioco per far valere nellÂ’area della produzione e degli scambi gli strumenti e le procedure extra – economiche che la caratterizzano.
La vulnerabilità ambientale diviene così condizione essenziale per l’insediamento ed il diffondersi di forme di criminalità organizzata. Cresce l’economia illegale; la presenza della criminalità organizzata in settori dell’economia reale e finanziaria si riflette peraltro in un inquinamento progressivo non solo dell’ambito economico, ma inevitabilmente del contesto sociale e della vita pubblica. Si innesta così un circolo perverso: la vulnerabilità ambientale facilita l’inquinamento da criminalità, che a sua volta deteriora ulteriormente il contesto ambientale.
In un contesto di alta vulnerabilità ambientale anche le scelte degli operatore legali diventano a rischio. Il singolo operatore economico segue verosimilmente un comportamento adattivo rispetto alle regole del gioco in atto; perciò, in un contesto deteriorato e vulnerabile, è più alto il rischio che progressivamente le condotte patologiche, di atteggiamento passivo, o addirittura collusivo e cooperativo, con la criminalità organizzata, si diffondano. L’economia nera e l’economia grigia aumentano la loro diffusione e pervasività, ed anche le politiche di prevenzione e contrasto, generali e specifiche per il sistema economico e finanziario, perdono grandemente di efficacia.
La singola impresa può e deve contrastare il rischio di infiltrazione da parte della criminalità organizzata. Non bastano le generali regole di corporate governance. L’impresa deve conoscere di più tutti i propri interlocutori: dipendenti, fornitori, clienti, e su tali informazioni costituire indici di attenzione e meccanismi di autotutela, “suonatori di fischietto” inclusi. E’ questa la direzione su cui, insieme a Giovanni Fiandaca ed Alberto Alessandri, stiamo provando a definire un Decalogo Antimafia per l’Impresa. Ma l’impegno della singola impresa non è sufficiente, se manca l’investimento pubblico in tutela dei diritti fondamentali.
Tanto maggiore è la distanza delle regole di governo dellÂ’economia da quelle desiderabile, tanto maggiore è il rischio vulnerabilità alla criminalità, sia dei mercati nel loro complesso, sia per quel che concerne la condotta o lÂ’atteggiamento del singolo operatore. LÂ’insegnamento generale che se ne trae è che, per spiegare comportamenti poco desiderabili degli operatori economici, anche in termini di efficacia delle politiche di prevenzione e contrasto, occorre sempre andare alla radice delle regole del gioco, e chiedersi: in quel territorio, sono tutelati i pilastri fondamentali di un’economia di mercato, o meglio ancora di una società democratica: la tutela dei diritti della persona e della proprietà?
Se la risposta è negativa, il flusso di spesa pubblica deve andare prima a rinforzare l’azione delle istituzioni pubbliche (polizie e magistrature), sottoposte però a controlli di efficienza, e poi pensare a finanziare infrastrutture. Per la prevenzione ed il contrasto al crimine è molto più utile investire in qualche buona guardia e qualche buona legge in più, anche a costo di qualche ponte in meno.
A proposito di buone leggi, decise azioni sono necessarie anche nel settore legislativo, abbandonando la logica “emergenziale” con la quale sono stati affrontati i temi relativi alla “criminalità strutturata”, sia essa di tipo mafioso o terroristico.
Due categorie, queste, che a volte hanno tratti comuni. Si pensi, ad esempio, al traffico di stupefacenti i cui proventi possono essere finalizzati al finanziamento di gruppi terroristici o al fatto che anche strutture mafiose possono assumere valenze eversive quando non si limitano – il che già offende i parametri che secondo l’art. 41 della Costituzione, disegnano, in termini di utilità sociale la libera iniziativa economica privata, a gestire, con capitali “sporchi” attività di impresa che producono beni leciti, finalizzate alla sola utilità del gruppo, ma anche quando il clan, come recita l’art.416 bis c.p., in tal senso aggiornato nel 1992, mira a “impedire od ostacolare il libero esercizio del voto” o “a procurare voti a sé o ad altri in occasioni di consultazioni elettorali”.
In tale prospettiva pensiamo che siano necessari alcuni interventi di fondo, quali: la completa revisione della normativa sulle misure di prevenzione in materia patrimoniale, adeguando le previsioni legislative, che si sono stratificate nel tempo, anche alle nuove strategie economiche delle organizzazioni mafiose mosse anchÂ’esse da ispirazioni globalizzanti; la redazione di un testo unico delle leggi antimafia che razionalizzi gli interventi frammentari e frantumali che, nel corso del tempo, hanno caratterizzato la disciplina di questa materia con interpolazioni, aggiunte, abrogazioni che rendono ardua lÂ’individuazione della corretta via applicativa; lo stesso vale per quanto riguardo il terrorismo, dopo gli interventi, anchÂ’essi succubi dellÂ’emergenza, del 2001 e 2005.
EÂ’ poi necessario, una buona volta, mettere mano, tenendo presenti i lavori svolti da varie Commissioni, ad una revisione del codice processuale penale, sul cui tessuto originario hanno inciso leggi e decisioni della Corte costituzionale e del codice penale, adoperandosi, per il primo strumento, per contemperare armonicamente efficienza e garanzie, eliminando, fra queste, quelle puramente formali che ritardano lo svolgimento e la conclusione dei processi e, per il secondo, per prevedere, con riferimento a taluni reati, sanzioni di tipo nuovo, ad esempio interdittive e prescrittive, limitando solo alle fattispecie che offendono o pongono in pericolo beni costituzionalmente protetti, quelle detentive.
In questo contesto potrebbe muoversi e progredire anche una “politica di depenalizzazione”.
In un momento nel quale l’economia legale è sempre più insidiata dalla pervasività di quella criminale, sarebbe inoltre opportuno che nella struttura di almeno alcune procure della Repubblica venisse stabilmente inserito, sul modello francese, un esperto di economia per collaborare con il pubblico ministero, da un lato professionalizzandolo anche in questa materia e dall’altro coadiuvandolo nel disvelamento delle pratiche economiche e finanziarie sempre più evolute prescelte dalle mafie che, loro sì, sono consigliate spesso da abili tessitori di trame.

TESTIMONIANZA DI ANTONIO LA SPINA

Docente Università degli studi di Palermo

CHE FARE CONTRO LA MAFIA?

La criminalità di stampo mafioso non è presente soltanto nel Mezzogiorno, giacché come è noto si è da tempo espansa verso altre aree dell’Italia e dell’Europa. È tuttavia in alcune regioni del Mezzogiorno (che poi sono anche quelle che presentano le condizioni più gravi di arretratezza socioeconomica) che tali organizzazioni hanno il loro radicamento territoriale e hanno tradizionalmente svolto le loro attività avvalendosi sia di intrecci con parte delle istituzioni e del ceto politico, sia della collusione con taluni imprenditori, professionisti, “colletti bianchi”, o quanto meno dello loro acquiescenza.
Su questo fronte stiamo assistendo, come è noto, a novità radicali, che a loro volta sono favorite dai grandi successi conseguiti dall’azione di contrasto. La presenza delle varie mafie è tutt’ora pervasiva e pericolosissima, ma oggi si comincia ad immaginare come possibile un momento non lontano in cui queste saranno sconfitte. Il che deve indurci non già a rilassare l’impegno antimafia, adagiandoci sui risultati indiscutibilmente ottenuti (ma fino a poco tempo fa negati anche da una certa parte della mafiologia), bensì a mantenere l’abbrivio e a moltiplicare gli sforzi fino alla definitiva sconfitta di organizzazioni che sono certamente sotto stress (mi riferisco in particolare a Cosa nostra), ma hanno anche, ciascuna secondo le proprie peculiarità, una proteiforme capacità di adattarsi e riprendersi.
LÂ’iniziativa della Voce.info è tempestiva e meritoria. Fin da subito ha consentito ai lettori di prendere buona nota di chi ha risposto e di chi ha taciuto, nonché dei contenuti delle posizioni espresse. Visti i limiti di spazio (ma in certa misura anche se tali limiti non vi fossero) ho ben poco da aggiungere alle indicazioni di policy formulate nel testo di Veltroni, che a loro volta rinviano al programma del Pd. Si tratta di una summa articolata e completa di linee di intervento avvalorate come efficaci e promettenti sulla base di unÂ’esperienza – quella italiana – che è unica al mondo quanto a varietà e intensità delle forme di contrasto. Inoltre, il leader del Pd ha pubblicamente e recisamente rifiutato i voti riconducibili alle mafie, mentre almeno fino al momento in cui scrivo non si è sentita unÂ’analoga presa di posizione da parte di altri soggetti politici.

Mi limito ad alcune sottolineature. La prima è che quelle che possiamo definire politiche dirette contro le organizzazioni mafiose (volte cioè ad aggredire direttamente gli affiliati, i loro beni, le loro reti di relazioni e così via) sono già molto incisive, ma possono essere ulteriormente irrobustite e affinate (come evidenziato nei testi appena richiamati) quanto a potenziamento dell’attività delle forze dell’ordine, intensificazione delle sanzioni, velocizzazione e snellimento delle procedure sia giudiziarie sia amministrative (pensiamo ai beni confiscati, e anche all’esigenza che essi vadano destinati a soggetti dotati di capacità imprenditoriali, così da reimmetterli nel processo produttivo e farne mezzi di produzione efficiente di ricchezza). La seconda è che vanno diventando sempre più importanti le politiche indirette, vale a dire quelle che invece modificano il contesto in cui hanno finora operato con grande efficacia le varie mafie, ad esempio diffondendo una cultura della resistenza al racket nelle giovani generazioni, ovvero favorendo e rendendo conveniente la ribellione da parte degli imprenditori, finora il più delle volte vittime passive dell’estorsione e in genere della distorsione della concorrenza. Una delle grandi novità del momento attuale è che vi è una spinta dal basso (anziché soltanto o prevalentemente da parte delle istituzioni pubbliche) a modificare il contesto in modo da ostacolare le mafie. Penso ovviamente a iniziative come quelle di Addiopizzo, di Confindustria, di singoli imprenditori e in genere operatori economici che vanno diventando sempre più numerosi. È molto importante valorizzare un’impostazione del genere. È altrettanto importante comprendere le difficoltà di chi fa impresa in territori in cui sono presenti le mafie, senza aggiungere difficoltà e oneri ulteriori (ad esempio, ipotizzando, come è stato erroneamente fatto in un recente passato, la possibilità che la mano pubblica si sostituisse alla libertà d’impresa nei casi di operatori economici “assoggettati” alla mafia).

UN MEZZOGIORNO DISPERATO

La mafia è uno dei problemi più gravi del Mezzogiorno. Non è l’unico. Ve ne sono altri, almeno altrettanto difficili da sradicare. D’altro canto, molti di tali problemi non vanno disgiunti dalla presenza delle organizzazioni criminali, perché in parte la favoriscono, e in parte ne sono aggravati.
In estrema sintesi, la gran parte dei mali deriva dall’onnipervasività della distribuzione delle risorse da parte del ceto politico, da un’economia e da una società civile che ne è dipendente, dalla tendenza a trasformare financo le emergenze (a cominciare dai terremoti per finire alla protezione civile e ai rifiuti) in occasioni per espandere il settore pubblico, moltiplicare gli scambi politici, fornire risposte particolaristiche e clientelari alla domanda di lavoro.
Ne segue che la povertà relativa al Sud non solo è molto superiore rispetto al Nord, ma negli ultimi anni è cresciuta. Le prestazioni effettive del sistema sanitario, dellÂ’istruzione, dei servizi pubblici al Sud restano sensibilmente inferiori rispetto al Centro-Nord. Il rendimento delle pubbliche amministrazioni è in genere scadente, nonostante la massiccia immissione di personale senza concorso tratto dalle file di un certo precariato (anzi probabilmente anche a causa di ciò). Il livello di protezione di beni pubblici, come lÂ’ambiente, il territorio, il paesaggio, la sicurezza, è basso in modo allarmante. Il senso civico appare debole. Se una delle raffigurazioni non ufficiali più efficaci del Mezzogiorno comÂ’era fu il Cristo si è fermato a Eboli di Levi, quella del Mezzogiorno – o almeno di un certo Mezzogiorno (giacché è vero che ve ne sono diversi) – com’è oggi non è forse la Gomorra di Saviano?

Occorre quindi rendersi conto che la questione meridionale non è affatto superata, e riguarda non soltanto il Sud come tale, ma anche l’intero paese e l’Unione europea. D’altro canto, un certo meridionalismo (nelle sue varie riedizioni, che arrivano fino ai fallimenti della “nuova programmazione” dei fondi comunitari), finalizzato all’attrazione di flussi di denaro pubblico, ha in definitiva agito a favore della permanenza nel sottosviluppo economico e civile.
La risposta a tale situazione di degrado non può che essere l’isolamento di certi processi decisionali pubblici dalla pressione distributiva. Ciò sicuramente vale per le risorse destinate allo sviluppo (che invece vengono disperse in mille rivoli e avviate a utilizzi inutili o dannosi), che occorrerebbe sfruttare secondo priorità e con prestazioni decisionali che le amministrazioni locali, a partire dalle regioni, non sono di norma in grado di garantire. Ma vale anche per la fornitura di servizi ordinari (dalla gestione dei rifiuti all’acqua, in genere ai servizi pubblici locali). Mai più si dovranno nominare commissari i “governatori” o i sindaci, o comunque soggetti a essi strettamente legati. Gli interventi sostitutivi dovranno essere mirati, ma anche tanto frequenti quanto ciò viene richiesto dalla gravità delle varie situazioni, avere una durata congrua, essere accompagnati dai poteri necessari. È appena il caso di ricordare che, sia pure talvolta con le migliori intenzioni, l’impostazione complessiva dell’ultimo quindicennio delle politiche nostrane è andata in senso diametralmente opposto.

LA QUESTIONE SETTENTRIONALE

Un’ultima riflessione, sempre legata al momento elettorale. Come è noto, le difficoltà in cui versa l’economia delle aree più sviluppate del paese sono oggi, e giustamente, molto sentite. A prima vista, dedicare i propri sforzi alla soluzione della “questione settentrionale” ha un’alta utilità attesa. In primo luogo perché, visto il peso di tali forze produttive, sia pure in difficoltà, il rilancio dell’attività in tali aree produrrebbe un beneficio notevole in termini assoluti. In secondo luogo, sebbene certamente non sia facile prevenire ad una soluzione, che vi si riesca è assai più plausibile rispetto al Mezzogiorno, come ci insegna la sua storia antica e recente. Vi è dunque un beneficio elevato, che potrebbe per di più ottenersi con una probabilità anch’essa elevata. In terzo luogo, vi sono i ritorni politico-elettorali: per il Pdl, il settentrione è favorevole, sicché va coltivato; ma ciò vale a maggior ragione per il Pd, che ha quanto meno necessità di riacquistare consensi perduti. Infine, è opinione diffusa che al Sud prevalga il voto di scambio, il che potrebbe significare sia che politiche pubbliche corrette e incisive non saranno premiate da un voto d’opinione, sia anche che proprio perché corrette e incisive potrebbero far perdere i consensi clientelari, quanto meno nell’orizzonte di breve periodo (che poi è quello il più delle volte decisivo).
Tali considerazioni lascerebbero presagire, nei fatti, uno scarso interesse non tanto verso i voti dei meridionali (che invece e ovviamente risultano appetibili), quanto piuttosto verso un impegno per il superamento di quella che, per comodità, continuerei a chiamare questione meridionale. A tale “predizione” del modello dell’utilità attesa sembrano “disubbidire” i punti programmatici sulle politiche antimafia del Pd. È un segnale importantissimo, cui un Mezzogiorno al momento senza speranza dovrebbe sperare si accompagnino altri passi (relativi ai problemi di cui al paragrafo precedente), anch’essi necessari.

REGOLE DI DIFESA

Il dibattito su protezionismo e liberismo è mal posto. L’Omc consente in alcuni casi misure di difesa commerciale per proteggere le industrie nazionali. E la Comunità, che ha tutte le competenze sulla politica commerciale, da sempre ne è uno dei maggiori utilizzatori. Quanto all’Italia, notevoli le sue battaglie degli ultimi anni. Le vere questioni sono il raggiungimento di comuni standard competitivi, sociali e ambientali e una riflessione sul mantenimento in Europa di alcune produzioni.

IL FISCO DIVIDE LE GENERAZIONI

Modalità diverse per ridurre il carico fiscale hanno implicazioni diverse sulla ripartizione del beneficio tra le varie classi di età. Perché queste differiscono per reddito medio e propensione al consumo, ma anche per dotazione di patrimonio. E’ allora importante considerare non solo l’impatto distributivo di eventuali sgravi fiscali, ma anche quali generazioni sarebbero avvantaggiate nelle varie ipotesi. L’abolizione dell’Ici sulla prima casa, per esempio, favorirebbe i più anziani.

MA IL CUNEO SI E’ RIDOTTO

Secondo il rapporto Ocse, il cuneo fiscale sulle retribuzioni in Italia resta elevato, nonostante i provvedimenti della Finanziaria 2007: i lavoratori medi si classificano al sesto posto se single e al dodicesimo se hanno familiari a carico. Ma l’Ocse non tiene conto dell’intervento sull’Irap. L’effetto congiunto delle variazioni, invece, fa scendere il cuneo di 1,20 punti percentuali per un lavoratore single e di 3,53 punti percentuali per un lavoratore con coniuge e due figli a carico.

TESTIMONIANZA DI LILIANA FERRARO

Segretario generale della Fondazione “Giovanni e Francesca Falcone”, Consigliere giuridico del Ministro dell’Interno.

CAVALIERE, RISPONDA

Alcuni giorni fa abbiamo lanciato un appello ai partiti affinché sottoscrivano un impegno comune di lotta incondizionata alle mafie e illustrino le azioni che concretamente intraprenderebbero qualora al governo. La motivazione per l’appello è che assistiamo a un moto spontaneo di ribellione della società civile al ricatto e all’oppressione della malavita organizzata, di cui le scelte di Ivan Lo Bello, capo della Confindustria siciliana, sono l’emblema. Ma senza un supporto incondizionato dello Stato, che incoraggi e dia supporto a queste azioni, vi è il rischio che i moti spontanei vengano riassorbiti dalla paura. Ieri abbiamo ricevuto le dichiarazioni dell’onorevole Veltroni e dell’onorevole Boselli, in cui, accogliendo il nostro appello, illustrano le azioni che i loro partiti intraprenderebbe se dovessero governare. In particolare, le parole dell’onorevole Veltroni, al di là delle singole misure, non lasciano spazio a dubbi: "la ‘ndrangheta, la mafia e la camorra decidano quello che vogliono, ma decidano solo una cosa: di non votare per il Partito democratico, perchè devono sapere che il Pd se governerà l’Italia cercherà di distruggere quei poteri che impediscono al Sud di esprimere tutta la sua forze e la sua energia." Non abbiamo ancora ricevuto risposta dall’altro dei due principali candidati premier, l’onorevole Silvio Berlusconi, accreditato dai sondaggi come vincitore più probabile delle elezioni. Nella lotta alla mafia è cruciale che non vi siano dubbi e asimmetrie nella determinazione dei partiti di voler distruggere questa organizzazione. Il silenzio in questo caso rischierebbe di dare adito al dubbio che una parte politica sia meno risoluta. Chiediamo all’onorevole Berlusconi di dichiarare con la stessa chiarezza dell’onorevole Veltroni che la sua parte politica ripudia i voti della mafia e di qualunque altra organizzazione malavitosa.

 

EXPO VUOL DIRE SVILUPPO?

Nell’entusiasmo per l’assegnazione dell’Expo 2015 a Milano, forse è meglio non accettare in maniera acritica affermazioni non dimostrate sugli effetti benefici della manifestazione. Perché le incertezze sono molte. A partire dal bilancio finale dell’organizzatore: eventuali perdite sarebbero pagate dallo Stato italiano. Nel calcolo dell’impatto occupazionale non si considera l’effetto sostituzione. Quanto alle infrastrutture, seppure utili, la loro costruzione non dipende dall’evento.

MONTAGNE RUSSE E BOCCONI AMARI

Nella vicenda Alitalia-Malpensa la politica nostrana sta offrendo il peggio di sé. Il boccone elettorale è evidentemente troppo ghiotto per resistere agli impulsi demagogici. Così, da una parte, si invocano fantomatiche cordate nazionali a sostegno dell’italianità, dimenticandosi che anche se si trovassero le risorse finanziarie si dovrebbe poi essere in grado di far volare gli aerei. Dall’altra, si moltiplicano gli appelli per la difesa dell’indifendibile, dalle rotte ai livelli occupazionali, dimenticandosi che proprio questa difesa a oltranza è stata la responsabile principale della crisi attuale. Ogni parte in gioco, dai sindacati ai politici nazionali e locali, di maggioranza e di opposizione, appare impegnata a criticare le altre nella speranza di far dimenticare le proprie responsabilità. Nell’incertezza, i corsi azionari assomigliano a montagne russe e la compagnia di bandiera è sempre più vicina al punto di non ritorno. La  confusione è tale da far perdere di vista l’essenziale. Per esempio, nel caso dell’offerta Air France quello che appare più indigeribile non è il prezzo offerto (quanto vale una compagnia fallita?) né gli esuberi di personale, oltretutto limitati e facilmente riassorbibili. Piuttosto, è la pretesa della compagnia d’oltre alpe, per difendere i propri hub di Amsterdam e Parigi, di avere la garanzia da parte del governo italiano che da Malpensa non partiranno più le rotte internazionali extracomunitarie precedentemente servite da Alitalia e ora chiuse, una richiesta che secondo le anticipazioni di stampa l’Enac avrebbe già garantito. Se è vero, questo sì che appare lesivo dell’unico interesse nazionale reale, quello dei consumatori italiani, che avranno pure il diritto di volare da dove gli pare e con chi gli pare. Se una compagnia area d’oltreoceano, poniamo asiatica, vuol provare a servire quelle rotte da Malpensa, perché impedirglielo? E’ possibile che il tentativo si riveli fallimentare, come fallimentare era stato quello di Alitalia. Ma sta al mercato stabilirlo e non al governo per conto di Air France. E’ vero che Air France ha posto come irrinunciabile questa condizione, e che comunque, una eventuale risposta negativa da parte del governo ridurrebbe probabilmente ulteriormente il prezzo che Air France è disposta a pagare o aumenterebbe gli esuberi dichiarati. Ma per la collettività può valere la pena di incassare qualche euro in meno o spenderne qualcuno in più per il sostegno dei lavoratori in mobilità, che rinunciare a delle opportunità di mercato che se funzionano potrebbero offrire ritorni economici che sono multipli della spesa attuale. Ed è anche possibile che una simile scelta da parte del governo ridurrebbe anche le richieste di danno della SEA, che allora sì apparirebbero eccessive e ingiustificate. Speriamo dunque che il governo ci ripensi. Ci farebbe una figura migliore, comunque finisca la vicenda.

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