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QUALI REGOLE PER LE SCATOLE CINESI

Le ipotesi proposte per regolare le cosiddette scatole cinesi darebbero vita a normative speciali e di settore che consentirebbero arbitraggi regolamentari e legislativi a danno del mercato unico europeo dei capitali. Bene sarebbe approfittare dell’integrazione tra borsa di Milano e London Stock Exchange e dell’avvio della direttiva Mifid. Per separare anche in Italia la funzione pubblica del listing da quella del trading. Verrebbero così eliminate alla radice le occasioni di conflitto di interesse. E si potrebbero adottare regole più severe per l’ammissione.

L’EUROPA ALLA GUERRA DEL RENMINBI*

La Cina avrebbe molto da guadagnare da una rivalutazione della sua moneta perché finirebbe per favorire una crescita più equilibrata. Ma una terapia d’urto non rientra nella strategia del paese e d’altra parte la lobby degli esportatori è molto influente. Dagli Stati Uniti arriva uno scenario ad alto rischio, soprattutto perché punta al coinvolgimento nella disputa delle organizzazioni internazionali. E per permettere a queste di svolgere il loro ruolo di arbitri legittimi, gli europei dovrebbero cedere seggi e voti a beneficio delle nuove potenze.

QUOTE ROSA A PIAZZA AFFARI

Sono davvero pochissime le donne nei consigli di amministrazione delle società italiane. E così si riduce per definizione l’ambito di risorse e di talento a cui il paese può attingere per il proprio sviluppo. Se si vuole contribuire a risolvere il problema della mancanza di ricambio della classe dirigente, in politica come negli affari, bisogna dunque guardare anche alle questioni di genere. Magari seguendo l’esempio della Norvegia. Che la presenza femminile ai posti di comando l’ha imposta per legge, ottenendo risultati più che soddisfacenti.

STRETTO DI MESSINA, LARGO DI MANICA

Ha senso mantenere in attività  la Stretto di Messina spa? E’ un’impresa interamente in mano pubblica, costituita per promuovere e coordinare la costruzione del famoso Ponte. Ovvero di un progetto che è stato accantonato. Ma anche se si volesse riprenderlo, questa società  non sarebbe necessaria perché non è operativa, e la progettazione e costruzione del Ponte sono in mano ad altre imprese. In compenso, secondo il bilancio 2006, tra dipendenti, amministratori, affitti e varie altre voci l’intero carrozzone costa circa 21milioni di euro l’anno.

GLI STRANI MECCANISMI REDISTRIBUTIVI DELLA FINANZIARIA

L’intervento a sostegno delle famiglie previsto nella Finanziaria si concentra esclusivamente sulla casa. Senza occuparsi invece della razionalizzazione degli aiuti al costo dei figli o dei servizi sociali ed educativi. Questo governo, come quelli precedenti, continua a utilizzare la leva fiscale per effettuare una distribuzione tra famiglie, dimenticando che nel nostro sistema fiscale lÂ’imposta è a base individuale. E prendere a criterio di una prova dei mezzi il reddito familiare può produrre iniquità e redistribuzioni inverse.

LA RISPOSTA AI COMMENTI

Ringrazio anzitutto per l’attenzione. L’articolo per sua natura è un testo breve, e non può affrontare la questione se non superficialmente, e con diverse lacune. I due commenti ne indicano giustamente alcune. Prima di rispondere nel merito desidero però ribadire l’oggetto fondamentale del mio intervento: le condizioni economiche e politiche attuali sono tali che -a mio parere- ha scarso senso, in termini economici, continuare a puntare su una strategia che voglia garantire un posto fisso ad ognuno, dove con posto fisso intendo un’occupazione nella stessa azienda o anche solo nello stesso settore produttivo. In particolare, non intendevo indicare i dettagli di specifiche misure di politica economica (come il reddito minimo garantito o la provenienza dei fondi con cui finanziarlo), ma suggerire l’obiettivo che la politica dovrebbe darsi, per dibattere sugli strumenti in maniera più ordinata.
Sui numeri: iniziamo con quanto l’Italia già spende. Dovremmo anzitutto distinguere tra reddito minimo e sussidio di disoccupazione. La prima è una misura residuale, che vuole impedire che chiunque abbia un reddito inferiore una certa soglia. Per la povertà l’Italia spende 11€ pro-capite, dunque letteralmente non ci sono cifre di cui parlare.
I trattamenti di disoccupazione hanno invece lo scopo di sostenere temporaneamente il reddito dei lavoratori, nel passaggio da un’occupazione ad un’altra. Per ciò l’Italia spende circa lo 0.5% del PIL, contro una media europea dell’1.8%; mentre per le politiche per il lavoro complessivamente l’1.3% contro il 2.2% europeo (dati Eurostat). Senza bisogno di paragoni con la solita Danimarca, è di tutta evidenza che i 3 punti di PIL in più che dedichiamo alla spesa per pensioni in qualche maniera ci impediscono di fare tante altre cose (così come la grossa spesa per interessi sul debito pubblico). Non sono tra quelli che credono dovremmo sempre imitare l’estero, ma proporre uno scambio tra quanto si può risparmiare in previdenza, e quanto in più si può dedicare al Welfare State mi sembra un’idea ragionevole.
Oltre i livelli di spesa, dovremmo parlare anche di come spendiamo: da un lato, come detto nel testo, il sostegno al reddito riguarda attualmente solo categorie di privilegiati (coloro che accedono alla Cassa Integrazione, semplificando un pò). D’altro lato, questi fondi sono concessi senza alcuna condizione a chi li riceve (in teoria ci sarebbe il divieto di rifiutare un’offerta di lavoro “congrua”, ma di fatto non c’è sanzione). Inserendo l’obbligo di partecipare ad attività di formazione e reimpiego, non solo favoriremmo la capacità del sistema di adattarsi continuamente agli sviluppi economici e sociali, ma introdurremmo limiti temporali alla durata del beneficio (pari al massimo alla durata dei programmi) ed eviteremmo disincentivi al lavoro, dunque complessivamente risparmiando risorse.
Desidero concludere notando che alcune misure possono intanto essere introdotte, in misura minore a quanto idealmente auspicabile, come prima risposta a situazioni insostenibili. Considerando ad esempio il numero di lavoratori veramente “precari” (gli iscritti alla Gestione Separata dell’INPS, a parte professionisti, amministratori e sindaci di società, membri di collegi e commissioni), è stato presentato in Senato un emendamento alla Legge Finanziaria che quantifica il costo di un sussidio di disoccupazione pari a 300€ al mese per 6 mesi, per un costo complessivo inferiore (sotto ipotesi pessimistiche) agli 800 milioni di euro l’anno. Una cifra non impressionante: più o meno quanto le Regioni nel periodo 2001-2006 hanno accumulato in fondi europei non spesi (Fondo Sociale Europeo).
Insomma, a volte l’inazione politica deriva da non condivisione degli obiettivi, e non da mancanza di mezzi. Ad esempio, alcuni partiti legittamente aspirano all’abolizione completa della flessibilità del lavoro, come fine ultimo. Così facendo finiscono però per agire, per le concrete condizioni di vita dei lavoratori flessibili, molto meno di quanto sarebbe possibile.
Per quanto attiene le differenze regionali, non c’è dubbio la questione merita un approfondimento. Non posso qui discutere delle cause del sottosviluppo del Sud, e non ne avrei le competenze. Per quanto riguarda l’occupazione, noto solo che l’analisi a volte deve astrarre da fattori pur rilevanti, ma non oggetto di indagine al momento (ad esempio, il mio ragionamento astrae anche dalle differenze di genere, certo non meno rilevanti per il mercato del lavoro).
Per quanto riguarda la contrattazione, ribadisco solo che si tratta di scegliere tra una strategia che punti a sopravvivere riducendo i costi (che io considero fallimentare di fronte ai giganti emergenti, ma si tratta di una scommessa), e una che invece punti a competere favorendo l’accumulazione capitalistica e l’innovazione tecnologica.
Anche per questo condivido l’osservazione finale: se le imprese usano permanentemente contratti temporanei, evidentemente non cercano flessibilità, ma bassi costi (a parte la libertà di licenziare e il ricatto che ne deriva). Qui però entriamo nel problema degli abusi delle forme contrattuali flessibili, che va distinto da quello sull’esistenza della flessibilità, quella vera. A tal proposito, noto solo che alcune imprese sostanzialmente sopravvivono nel mercato (e fanno profitti) solo grazie a tali abusi: vale dunque l’ultima osservazione del mio testo, sull’opportunità di liberarsene, ma anche una necessaria prudenza nei modi e nei tempi, trattandosi pur sempre di posti di lavoro (di bassa qualità, ma posti di lavoro).

LAVORO DELLA DONNA, FECONDITÀ E MISURE DI CONCILIAZIONE

Daniela Del Boca e Alessandro Rosina sostengono che le politiche per conciliare lavoro di cura e per il mercato messe in atto dal governo Prodi sono molto timide. A mio avviso, tale affermazione non tiene nella giusta considerazione le misure effettivamente adottate.

I "fatti" del governo

La Finanziariadel 2007 ha stanziato 300 milioniper creare nuovi servizi per la prima infanzia, equamente ripartiti per gli anni 2007, 2008 e 2009. Inoltre, per il 2007 a questa cifra sono stati aggiunti 40 milioni provenienti dal Fondo politiche per la famiglia. Ancora: nel decreto legge n. 159, articolo 45 del 1° ottobre 2007, in attesa di conversione, per il 2007 è stato assegnato un ulteriore stanziamento di 25 milioni di euro per i nuovi servizi alla prima infanzia. Infine, il governo nella Finanziaria del 2007 ha stanziato anche 35 milioni di euro per le cosiddette "sezioni primavera", ossia classi aggiuntive nelle scuole per l’infanzia destinate ai bambini di età 24-36 mesi. Tirando le somme, il governo nel 2007 ha destinato 205 milioni all’attuazione di servizi di cura per i bambini con meno di tre anni, oltre a 100+100 milioni per il 2008-09. Queste ultime due somme potranno essere incrementate nei prossimi mesi, se si destinerà a questo scopo parte del Fondo politiche per la famiglia. L’intenzione è di arrivare a stanziamenti simili a quelli del 2007. Inoltre, in un decreto emanato il 28 settembre, i 140 milioni già stanziati per il 2007 sono stati ripartiti fra le Regioni .
Questi soldi sono sufficienti? A mio avviso sì, non certo perché in grado di coprire la domanda potenziale, ma perché verosimilmente congruenti con le capacità di spesa delle Regioni e dei comuni. Se riuscissimo, nei prossimi tre anni, a spendere effettivamente 200 milioni di euro l’anno per costruire nuovi asili nido o mettere in atto misure di cura alternative (come le sezioni primavera, i nidi integrati, le organizzazioni di mamme di giorno, eccetera), sarebbe un successo straordinario. L’insoddisfazione del ministro Bindi per la Finanziaria 2008 non riguarda tanto i mancati nuovi stanziamenti per politiche di conciliazione, quanto la mancata implementazione dell’assegno unico universale per i figli, che avrebbe dovuto unificare detrazioni e assegni familiari, estendendo la misura anche ai lavoratori autonomi, e accentuando la progressività per numero di figli e reddito.

Occupazione femminile e fecondità

Ora, qualche commento più "demografico" all’articolo. In che misura il recupero di fecondità in Italia è dovuto, come sembrano sostenere Del Boca e Rosina, ai primi cenni dell’inversione del tradizionale rapporto conflittualefra fecondità e lavoro della donna? Del Boca e Rosina, in figura 2, mostrano una forte relazione positiva fra tasso di occupazione femminile e ripresa della fecondità, utilizzando dati per le 20 Regioni italiane. Probabilmente, il risultato sarebbe stato lo stesso se, invece dell’occupazione femminile, si fosse messo in ascissa qualsiasi altro indicatore territoriale correlato allo sviluppo socioeconomico. I recenti dati Istat sulla fecondità per età mostrano che 1) per generazione, la fecondità dell’Italia non è mai scesa sotto 1,5 figli per donna; 2) il declino della fecondità in età giovanile è terminato, grazie anche alla maggior fecondità prima dei 30 anni delle donne straniere; 3) il recupero di fecondità oltre i 30 anni, per le coorti nate negli anni Settanta, è molto vivace. (1)Quindi, la ripresa della fecondità in Italia è in buona parte dovuta al recupero oltre i 30 anni della mancata fecondità in età giovanile per le donne nate negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, oltre che a una fecondità un po’ più elevata delle donne straniere. I due fenomeni sono stati più accentuati nelle regioni più sviluppate (che hanno attratto più stranieri) e dove la fecondità era maggiormente diminuita negli anni Ottanta e Novanta, e questo spiega risultati come quelli illustrati nella figura riportata nel lavoro di Del Boca e Rosina.
Purtroppo, in Italia " a livello individuale" il legame fra occupazione femminile e fecondità è ancora fortemente negativo. Un lavoro comparativo molto ricco e documentato sull’argomento è stato recentemente scritto dal demografo spagnolo Pau Baizan. (2)Solo in Danimarca le coppie dove entrambi i coniugi lavorano hanno più figli di quelle dove l’uomo lavora per il mercato e la donna è casalinga. Negli altri tre paesi studiati (Italia, Spagna e Regno Unito) avviene l’opposto.
In conclusione, a mio avviso, Del Boca e Rosina si sono lasciati un po’ trascinare dalla passione. È vero che le misure di conciliazionesono fondamentali per aiutare le coppie ad avere figli. Non è però vero che il governo sta facendo poco su questo versante. Le maggiori manchevolezze sono su altri aspetti, in particolare sullemisure monetarieper le coppie con più figli a reddito moderato. È vero, inoltre, che nelle società ricche la fecondità si alza se il lavoro di cura e per il mercato sono conciliabili. Non è vero, invece, che in Italia si osserva un’inversione di tendenza del legame negativo fra lavoro della donna e fecondità.

(1)Vedi il recente lavoro di Marcantonio Caltabiano
(2)Pau Baizan, "Family formation and family dilemmas in contemporary Europe", 2007, Fundacion BBVA.

EPPURE L’INVERSIONE DI TENDENZA C’È

Ringraziamo Gianpiero Dalla Zuanna (che -è bene sottolinearlo- è consulente del ministro delle Politiche per la Famiglia), per l’attenzione dedicata al nostro pezzo. Le sue obiezioni a quanto da noi scritto si possono riassumere nei due punti seguenti:

a) Non avremmo tenuto nella giusta considerazione le misure effettivamente messe in atto.
b) Non sarebbe vero che in Italia si osserva un’inversione di tendenza del legame negativo fra lavoro della donna e fecondità.

Misure "timide" e lavoro femminile

Noi però non possiamo che ribadire quanto abbiamo scritto. Ovvero:

a) A noi sembra di aver ben riconosciuto, nel nostro pezzo, che la Finanziaria 2007 ha avviato un piano straordinario di asili nidi, il primo intervento complessivo dopo un lungo periodo di stasi. Tuttavia, come lo stesso Dalla Zuanna ammette, lo stanziamento non è sufficientea coprire la domanda potenziale. Diamo atto al ministro Bindi di possedere una grande sensibilità su questi temi, e concordiamo con la sua insoddisfazione sulla parte dedicata dalla Finanziaria 2008 alla famiglia, anche se secondo Dalla Zuanna l’insoddisfazione sarebbe solo da imputare alla mancata implementazione dell’assegno unico universale per i figli.
L’accusa che ci si rivolge è di aver definito "timide" le misure per la famiglia contenute sulla Finanziaria 2008, in particolare sulla conciliazione. Era lecito avere aspettative più alte? Secondo noi sì. Non solo relativamente agli asili nido (secondo noi cruciali e che meritano ogni sforzo utile per potenziarne copertura e qualità), ma anche perché, come è stato dimostrato da vari studi recenti le politiche per la conciliazione hanno effetto soprattutto in sinergia. Sarebbe stato auspicabile allora una riforma dei congedi parentali , nonché sgravi fiscali per chi lavora e svolge lavoro di cura che incentivano sia lavoro che fecondità. Il fatto poi che su questi punti la Finanziaria possa essere legittimamente considerata timida è ulteriormente confermato dalla recente notizia di possibili emendamenti che vanno proprio nella direzione di potenziare le misure di conciliazione. (1)

b) Appare poi inconsistente la critica di Dalla Zuanna sull’inversione del legame tra lavoro femminile e fecondità Non dobbiamo essere noia ricordare a Dalla Zuanna quanto la letteratura scientifica, e vari rapporti Ocse, abbiano molto insistito negli ultimi anni sul cambiamento di segno della correlazione cross-country tra occupazione femminile e fecondità nei paesi occidentali. Non si tratta quindi di una nostra balzana invenzione: stiamo parlando di due indicatori e di una relazione tra di essi che viene costantemente presa a riferimento in ambito scientifico. Fino a qualche anno fa, però, non vi era alcuna evidenza di cambiamento di segno all’interno del territorio italiano. Ora qualcosa in tale direzione appare, come abbiamo messo in evidenza, soprattutto se guardiamo al recupero di fecondità dal 1995 in poi. Quello che si ottiene è che il recupero (comunque lo si guardi e al netto del contributo degli stranieri) è stato maggiore nelle regioni nelle quali l’occupazione femminile è più alta. Si dovrà convenire che ciò quantomeno significa che l’occupazione femminile non ha ostacolato il recupero.

Livello macro e livello micro

Contestare poi, come fa Dalla Zuanna, la relazione macro con il fatto che a livello individuale il legame rimane invece negativo, è un argomento completamente fuori bersaglio. Primo perché il legame negativo a livello micro era già chiaro dalla nostra relazione, dove si dice infatti che: "Risulta inoltre più ridotto, nel Nord Italia, il divario nei tassi di occupazione delle donne in funzione della loro condizione familiare. Ciò significa che lavorare deprime meno la fecondità nel Nord che nel Sud. In particolare, secondo i dati forniti dall’Istat, nel Nord Italia tra le donne single di 35-45 anni le occupate sono l’87 per cento, e si scende al 67 per cento tra le donne in coppia con figli. Nel meridione i valori sono rispettivamente il 68 per cento e il 35 per cento". Appare molto chiaro da tale frase che ha più figli chi non lavora, ma anche che nel Nord (dove gli strumenti di conciliazione sono più diffusi) "lavorare deprime meno la fecondità".

Ma il secondo motivo per cui l’obiezione di Dalla Zuanna proprio non ci torna, è che una relazione negativa a livello individuale di per sé non smentisce per nulla la sostanza della nostra argomentazione. Lo spieghiamo con un esempio molto semplice. Supponiamo che nella regione A ci siano quattro donne: due lavorano e hanno un figlio e due non lavorano ed hanno tre figli. Il numero medio di figli regionale risulta pari a 2. Supponiamo poi invece che nella regione B sia maggiore l’occupazione e sia più conciliabile con la possibilità di avere figli. Per le quattro donne della regione B la situazione sia allora la seguente: tre lavorano e hanno due figli, mentre una non lavora e ha tre figli. La media in questo caso risulta pari a 2,25.
Risulta chiaro allora, da questo semplice esempio, come il numero medio di figli dove c’è maggiore occupazione e conciliazione possa risultare più elevato, anche se a livello micro fanno più figli le donne non occupate.

(1) Un esempio è la proposta di cui è relatore Giovanni Legnini, Ulivo.

LA RETE E LE REGOLE DELLA LEGGE

La retromarcia e le molte precisazioni che il governo ha diffuso dopo l’iniziale presentazione del disegno di legge sulla riforma dell’editoria confermano come sia estremamente arduo provare a regolare una materia quella dei molti prodotti e siti della rete. E come sia raccomandabile una linea estremamente cautelativa nell’estendere al mondo variegato e in continua mutazione di Internet quei controlli e garanzie attuate nel più tradizionale mondo dell’informazione.

TRE RIVOLUZIONI CONTRO LA PRECARIETA’

Per uscire dal dualismo del mercato del lavoro sono necessarie tre rivoluzioni: abbandonare l’idea che il posto fisso possa continuare a essere la normalità, istituire un reddito minimo garantito a tutti i cittadini e tutelare la contrattazione collettiva come base contrattuale. L’Italia si prepara a decenni di rilevanti cambiamenti strutturali, in quel che produciamo e in come e dove lo produciamo. Controproducente illudersi che la flessibilità del salario permetta di sopravvivere alla produzione di merci a basso contenuto tecnologico.

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