La golden share può ostacolare la circolazione dei capitali all’interno del mercato comune europeo. Per questo la Corte di giustizia impone ai paesi che la contemplano di circoscriverne il raggio dÂ’azione. Non sembra quindi ipotizzabile che il nostro governo possa esercitare il diritto di veto sulle operazioni Telecom di scorporo della rete fissa e mobile. Al massimo, può esigere che lo statuto della società cui è conferita la rete fissa contenga una golden share. Per mantenere gli stessi poteri di salvaguardia che ha oggi in caso di pericolo. Niente da fare invece per Tim.
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La vicenda Telecom ha reso ancora più evidenti le debolezze del nostro sistema politico ed economico. Ma offre qualche insegnamento per le necessarie future privatizzazioni e liberalizzazioni: dall’importanza di un’efficace regolamentazione all’alta probabilità di fallimento del mercato italiano degli assetti proprietari. Se la Cassa depositi e prestiti dovesse diventare proprietaria delle maggiori infrastrutture a rete, occorrerebbe ripensarne i compiti. Per ora, il governo non sembra aver definito un adeguato disegno di policy making.
La riunione annuale del Fondo monetario non ha indicato come aumentare l’influenza dei paesi in via di sviluppo senza ridurre quella degli americani e degli europei. Non c’è da stupirsene. Ora, si continuerà a negoziare e si correggerà leggermente il sistema delle quote. Ma una vera redistribuzione dei poteri sarà ancora rinviata. E ciò non cambierà la determinazione dei grandi a conservare il loro potere. Intanto alcuni paesi potrebbero decidere di organizzarsi tra loro e di ignorare l’Fmi. E’ un’idea molto in voga in Asia.
Se per ipotesi il riassetto di Telecom non fosse nell’interesse della società , ma solo del gruppo di controllo, quali speranze avrebbe un azionista di minoranza di bloccare il piano o almeno di ottenere il risarcimento del danno? E’ tutto nelle mani degli amministratori e, in particolare, di quelli indipendenti. Se questi approvano la proposta, agli azionisti di minoranza restano solo due strade. Possono coalizzarsi in una maggioranza alternativa nella successiva assemblea. Oppure cercare una tutela in giudizio. Entrambe appaiono decisamente impervie.
L’unico modo per difendere l’istruzione pubblica è migliorarne la qualità . Ma anche nella scuola è l’organizzazione del lavoro che va modificata perché non dà ai dirigenti scolastici gli incentivi e gli strumenti necessari affinché possano migliorare i risultati didattici. Per questo va difeso il principio di un esercizio di valutazione per ogni scuola. Utilizzando i punteggi ottenuti dai singoli istituti per valutare l’operato dei presidi. Con l’obiettivo di migliorare rispetto a sé stessi, non genericamente rispetto al sistema scolastico nazionale.
La nuova direttiva Invalsi non chiarisce la funzione di una rilevazione degli apprendimenti senza standard di riferimento definiti, realizzata all’inizio dell’anno scolastico e attraverso la sola somministrazione di prove cognitive. Perché poi affidarla a rilevatori esterni, quando il problema è superare la diffidenza degli insegnanti verso gli obiettivi delle rilevazioni e l’uso dei loro risultati? Accettabile che sulla legge 53 si proceda con gradualità . Ma non per questo si devono dimenticare le prospettive di medio e lungo periodo.
La laurea è la condizione necessaria per partecipare ad alcuni concorsi nel pubblico impiego e per accedere agli albi delle professioni regolamentate. Oltre a stabilire alcuni livelli minimi di inquadramento nel settore privato. Ma la selezione è sempre determinata da un mix tra valutazione degli studi e prove specifiche, più o meno formalizzate. Abolire il valore legale del titolo di studio significa ampliare la discrezionalità . Con effetti che possono essere tutt’altro che positivi. Anche la competitività tra atenei si può raggiungere con altri strumenti.
Riportiamo opinioni diverse, già  espresse su queste pagine.
L’Italia partecipa alle indagini campionarie internazionali che misurano il livello di apprendimento degli studenti, costruite con metodologie rigorose nella selezione dei campioni, degli indicatori e nello svolgimento delle prove. Ma a livello nazionale la valutazione è affidata all’Invalsi, che però utilizza criteri meno rigorosi, con risultati che suscitano più di una perplessità . Soprattutto, non si risponde al bisogno delle famiglie di conoscere quale sia la “qualità ” dei diversi istituti, prima di iscrivervi i propri figli.
Una sommaria analisi della politica industriale del Governo mostra come ancora manchi una guida unitaria. Ma il rapporto con “il mercato” resta problematico e gli interventi effettuati non indicano che si voglia alleggerire la presenza pubblica nell’economia. Non è certo con proposte di nazionalizzazione e interferenze con l’operato di imprese private che si può caratterizzare una discontinuità col passato.
Ben 34 miliardi di differenza nel gettito per il 2006 tra le previsioni del Dpef del luglio 2005 e quello di quest’anno. Spiegabili per la metà con la revisione contabile operata dall’Istat e per 11 miliardi con interventi discrezionali. Il resto è una sottostima. Ma i dati relativi al primo semestre 2006 segnalano una crescita ancora maggiore, che il governo valuta in 5 miliardi. Davvero strutturali? Saperlo sarebbe importante. Alcuni suggerimenti per rendere più trasparenti le informazioni sulle entrate, in linea con quanto avviene in altri paesi.