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Riforma delle pensioni e mercato del lavoro.

In risposta ad una lettera di Luca Paolazzi, Pietro Garibaldi torna a discutere l’impatto della riforma previdenziale sulla domanda di lavoro.
La decisione di andare in pensione rientra nella sfera delle scelte individuali. Ma un nuovo sistema previdenziale che alza l’età del pensionamento influenza il mercato del lavoro. Con due sole possibili alternative: un abbassamento delle retribuzioni lungo tutto l’arco della vita lavorativa. Oppure, se i salari sono rigidi, una diminuzione della domanda di lavoro. La terza alternativa, un aumento della produttività dei lavoratori più anziani, appare poco plausibile.

Informare nel riformare

Manca informazione sugli effetti che la riforma previdenziale avrà sui redditi futuri degli italiani. E l’incertezza non fa bene nè al dialogo, nè ai consumi. La tabella qui proposta calcola la pensione attesa per alcune tipologie rappresentative di lavoratori. Se ne ricava che la riforma Tremonti colpisce in particolare le classi dal 1951 al 1956, che vincola molto le fasce di età successive, ma con riduzioni relativamente modeste delle prestazioni e dunque con una riduzione contenuta della spesa pensionistica dal 2013.

Padri e figli, non c’è scontro sul lavoro

Più lavoro per gli anziani uguale meno lavoro per i giovani? Un vecchio luogo comune della vulgata economico-sindacale torna a far capolino nel dibattito sulla proposta di riforma della previdenza avanzata dal Governo Berlusconi. Cosa afferma questo luogo comune? Che il prolungamento della vita lavorativa delle persone più anziane impedisce l’accesso all’occupazione ai più giovani, perché non libera posti di lavoro. In altre parole i padri tolgono lavoro ai figli. Da questa convinzione discende la ricetta delle pensioni di anzianità come strumento di creazione di occupazione giovanile.
Ciò sarebbe vero se il numero di posti di lavoro fosse fisso e immutabile nel tempo. Quasi fosse una stanza tanto stipata di persone che per farne entrare un’altra occorrerebbe che qualcuna uscisse. (Il che può accadere per alcune categorie professionali altamente protette). Questa visione ha il fascino discreto della semplicità e a ciò deve la sua popolarità.
Quanto tale visione sia però errata lo dimostra il confronto internazionale: l’occupazione tra gli anziani è maggiore negli stessi Paesi in cui c’è minore disoccupazione giovanile (vedere grafico). Ciò perché in realtà non vi è nessuna legge di natura che predetermina un numero costante di posti di lavoro. In un sistema economico esistono invece condizioni di domanda e offerta. Condizioni che cambiano, aumentando o diminuendo l’occupabilità delle persone. E l’aspetto dinamico è quello più difficile da inglobare nelle analisi. Ma è l’aspetto più rilevante, perché non solo varia la dimensione dell’occupazione ma anche e soprattutto la sua composizione tra settori produttivi, tra imprese e, all’interno di una stessa impresa, tra figure professionali. Perciò è ben difficile, e comunque rappresenta un caso particolare, che al pensionamento di una persona corrisponda l’assunzione di un’altra.
Proprio a questo caso particolare, che può essere anche importante per una singola impresa, pare si riferisca una critica, elaborata da Pietro Garibaldi su lavoce.info e ripresa da Tito Boeri su Il Sole 24 Ore, al nuovo progetto di riforma previdenziale. Sostenendo che “l’aumento della vita lavorativa determina un aumento del costo del lavoro” (per unità di prodotto, aggiungiamo) e dunque riduce la domanda di lavoro, a scapito dei giovani, essendo gli anziani “bloccati” nel lavoro dal progetto di riforma previdenziale o da qualunque intervento determini l’allungamento della vita lavorativa.
Questa critica sollecita due osservazioni. Prima osservazione. Delle due l’una: se si ritiene che le misure proposte di incentivazione al rinvio del ritiro dal lavoro siano efficaci allora porteranno a un risparmio nella spesa previdenziale, e ciò implica una riduzione del costo del lavoro via abbassamento delle aliquote fiscal-contributive (o un loro mancato aumento). Se invece si ritiene che non saranno efficaci (e vi è più di una ragione per pensarlo) allora non ci sarà “ingabbiamento” di persone anziane nell’occupazione. In ogni caso quel che rileva è il costo del lavoro e ogni riforma che, abbassando la spesa, riduca la pressione fiscal-contributiva accresce l’occupabilità delle persone di ogni generazione.
Seconda osservazione. Se anche i meccanismi di spiazzamento descritti da Boeri-Garibaldi funzionassero, e non c’è da dubitare che in alcuni casi funzionino (ma l’evidenza aneddotica evidenzia anche casi contrari: la produttività di alcune figure professionali è più alta negli ultimi anni di vita lavorativa e le imprese si lamentano di perdere per pensionamento d’anzianità lavoratori preziosi), credo che per contrastarlo occorrerebbe usare strumenti diversi dal sistema previdenziale (che incide sulla sfera della libertà personale nel suddividere la vita in tempo di lavoro e in tempo libero). Per esempio, facendo ricorso a una maggiore flessibilità del mercato del lavoro, alla formazione e riqualificazione, al sostegno integrativo delle retribuzioni.
Non mi pare invece molto formativo, nella già scarsa cultura economica italiana, risvegliare antichi luoghi comuni in un paese che negli ultimi anni ha imparato finalmente che si possono aumentare assieme l’occupazione degli anziani e l’occupazione dei giovani.

Se il sindacato è “vecchio”

Gli iscritti alle organizzazioni sindacali in Italia hanno l’età più alta in Europa. Anzi, molti sono già in pensione. Questa composizione demografica influenza la posizione dei sindacati sulla riforma previdenziale. Nessuna opposizione alla legge Dini, che non toccava gli interessi di gran parte degli iscritti, chiusura oggi a nuove riforme per difendere i benefici di una particolare fascia di lavoratori, già forti politicamente perché sono la maggioranza degli elettori. Ma chi rappresenta i giovani?

L’effetto annuncio


La teoria economica si basa sul principio di razionalità degli agenti economici, che può essere applicato anche al modo in cui i consumatori e i lavoratori prefigurano il loro futuro: nel decidere comportamenti e scelte attuali formulano “aspettative razionali” su di esso. In particolare, i cittadini sono in grado di prevedere, senza commettere errori sistematici, gli effetti futuri delle riforme che vengono attuate. Di conseguenza, i lavoratori possono avere delle reazioni oggi in risposta a tali previsioni sul loro futuro, e in alcuni casi modificare o addirittura vanificare, l’efficacia delle riforme.

Riforme e aspettative

Le riforme del sistema previdenziale sono fra quelle che sicuramente inducono i cittadini italiani a non essere miopi. Infatti, tali riforme mirano a intervenire su equilibri di lungo periodo che riguardano il loro futuro e quello dei loro figli. I processi riformatori dei sistemi pensionistici europei attuati a partire dagli anni Ottanta sono stati tutti rivolti a un contenimento della spesa pensionistica, è quindi razionale attendersi che ogni nuovo intervento riduca la generosità del sistema piuttosto che aumentarla. I processi decisionali che portano alla loro formulazione finale non passano mai inosservati, ma, anzi, riempiono le prime pagine dei giornali e, spesso, le piazze.
Il rischio di riforme volte al contenimento della spesa pensionistica è quindi quello di ingenerare fughe verso il pensionamento. L’annuncio dell’intenzione di intervenire sul sistema previdenziale, e il dibattito conseguente, può essere un elemento sufficiente a spingere migliaia di lavoratori ad abbandonare il posto di lavoro, indipendentemente dai contenuti della riforma stessa.
Ma i cittadini razionali dovrebbero anche conoscere i contenuti della riforma: i lavoratori più accorti, che sono in grado di interpretare le nuove regole di quiescenza e abbiano calcolato un vantaggio a restare sul posto di lavoro, dovrebbero invece rimanere nel mercato del lavoro.
Ma le aspettative si formano sulla storia passata: potrebbero anch’essi temere nuovi cambiamenti in futuro.

Cosa dicono i dati

Il grafico, risultato di elaborazioni Frdb e Cerp su dati Laboratorio R. Revelli.- Inps, ci permette di seguire l’andamento nel corso degli anni del numero di lavoratori (di età compresa tra i 45 e i 67 anni) che hanno scelto di andare in pensione. Sull’asse verticale troviamo il numero di nuovi pensionati, su quello orizzontale gli anni dal 1985 al 1998, mentre le righe verticali indicano le tre riforme attuate finora, Amato (dicembre 1992), Dini (agosto1995) e Prodi (dicembre 1997).

Emerge in maniera evidente l’estrema variabilità dei valori da un anno all’altro. Un altro dato importante è l’aumento del numero medio di pensionamenti prima e dopo il 1992 – anno in cui si è avviato il processo riformatore tuttora in corso – con un passaggio da circa 150mila pensionati all’anno a oltre 230mila (linee tratteggiate).

L’effetto annuncio può essere riconosciuto nei tre picchi che contraddistinguono il grafico: nell’anno della riforma, o in quello immediatamente precedente, il numero di lavoratori che hanno optato per il pensionamento ha superato abbondantemente il numero di 250mila, raggiungendo un picco assoluto nel 1992, con quasi 350mila.

La riforma della previdenza

Una raccolta di interventi precedenti sulla riforma previdenziale elaborata dal Governo. Come cambieranno le pensioni degli italiani? Gli interrogativi lasciati aperti dalle stime della Ragioneria Generale dello Stato sugli effetti della riforma. E il rischio di fughe di anzianità scatenate dal cosiddetto “effetto di annuncio”: facile profezia, dato che nel 2003 le domande di prestazioni di anzianità sono aumentate del 20%.

2008, spartiacque fra generazioni

La riforma previdenziale proposta dal Governo non è né equa né graduale. Il passaggio dai trentacinque ai quaranta anni di contributi in un’unica soluzione e procrastinato al 2008 “salva” i lavoratori che già erano stati risparmiati dalla Legge Dini e apre un divario generazionale. Dubbi anche sull’effettiva realizzazione del provvedimento perché l’esecutivo in carica tra cinque anni potrebbe decidere di rinviare ancora l’innalzamento dell’età di pensionamento.

Riforma delle pensioni e domanda di lavoro

Un dibattito tutto concentrato sugli interventi sull’offerta di lavoro ignora le possibili conseguenze sul lato della domanda. Che probabilmente tenderebbe a diminuire perché l’aumento della vita lavorativa determina una crescita del costo del lavoro. Oltre agli incentivi per chi rimanda la pensione, è necessario pensare a premi per le imprese, magari sotto forma di sgravi fiscali. Ben sapendo che il sistema imprenditoriale assorbe già molte risorse pubbliche.

Sarà strutturale?

Sembra esserci l’accordo nella maggioranza sulla riforma delle pensioni. Dal 2008 si chiuderà uno dei due canali di accesso alle pensioni di anzianità. Tentiamo una prima valutazione sulla base dei (pochi) dati disponibili. Vi è il rischio di forti fughe verso le anzianità da qui al 2008, che potrebbero compromettere i risparmi successivi. Inoltre, aumenterebbero le disparità di trattamento, accentuando la complessità del sistema.

Anziani in cerca di risposte

Finita l’estate, restano i problemi dei non autosufficienti. Se è imperativo incrementare le risorse da destinare all’assistenza, è altrettanto necessario chiarire le fonti di finanziamento. Tra le ipotesi, un significativo spostamento di risorse dalla spesa previdenziale, una modifica di quella ospedaliera e un prelievo fiscale aggiuntivo. Oltre a un riordino delle prestazioni agli invalidi. Così come deve essere risolto il nodo delle competenze tra i diversi livelli di governo. Il punto di partenza è una maggiore assunzione di responsabilità dello Stato.

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