Interpretare i dati sulla povertà non è semplice. Rivalutare una soglia relativa, aggiornandola per il solo aumento del costo della vita, equivale a tenere immobile la soglia di povertà. Mentre utilizzare una soglia della povertà relativa che si aggiorna automaticamente al variare della distribuzione del reddito è una prassi radicata nel nostro paese, ma non consente di monitorare con efficacia l’evoluzione del fenomeno, proprio per la sua eccessiva mobilità. Sul piano concettuale e su quello empirico sembra dunque preferibile seguire la dinamica della povertà assoluta.
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Nel ringraziare l’Istat per la replica alla mia nota del 4 settembre, mi preme innanzitutto precisare che in essa non vi era alcuna critica all’Istituto, ma anzi un apprezzamento indiretto per la mole di informazioni comunque messa a disposizione del pubblico.
Le riflessioni di Raffaele Tangorra ci fanno tornare a dibattere, come molte volte è accaduto, sugli indicatori di povertà.
I dati Istat mostrano che, nonostante la crisi, l’incidenza della povertà negli ultimi dieci anni è rimasta sostanzialmente ferma all’11 per cento. Sembra un paradosso. Ma l’analisi dell’incidenza di povertà andrebbe sempre accompagnata almeno dall’esame dei movimenti della soglia di povertà. E se si rivaluta la soglia del 2008 per l’inflazione registrata negli anni successivi, nel 2011 si registra un incremento dell’incidenza di circa un punto e mezzo percentuale, cioè un milione di poveri in più. La questione della capacità d’acquisto della soglia di povertà relativa.
Il nostro paese è ai primi posti della classifica europea sul rischio povertà minorile. Una situazione certo peggiorata dalla crisi economica, ma frutto soprattutto di politiche carenti e frammentarie, molto lontane da quelle degli altri paesi europei. Un piano strategico di contrasto alla povertà minorile richiederebbe un progressivo adeguamento delle risorse destinate all’infanzia dall’attuale 1,3 per cento del Pil al 2 per cento entro il 2020. Non andrebbe considerata una spesa che crea debito, ma un investimento sul capitale umano e sullo sviluppo e la crescita dell’Italia.
Se nel 2010 l’economia italiana ha dato un leggero segnale di ripresa, non altrettanto si può dire dei redditi delle famiglie, che hanno accumulato una pesante perdita del potere d’acquisto. Come era già accaduto nel biennio precedente, è soprattutto il reddito delle famiglie più povere a cadere. I dati mostrano che sono in larga parte nuclei familiari il cui il capofamiglia è donna, ha una scarsa istruzione, non ha lavoro, è single, monoreddito e risiede nel Meridione. Alla riforma del mercato lavoro va dunque chiesto di tutelare anche le fasce più deboli della società.
Con le temperature particolarmente basse si è tornati a parlare di una parte di popolazione altrimenti invisibile: i senza dimora. Gli interventi sono quasi sempre di tipo emergenziale e assistenziale, spesso affidandosi a volontari. Certo, è importante fornire servizi di base, ma il rischio è che portino alla cronicizzazione dello stato di homeless. Sarebbe invece necessario ricorrere a politiche di riduzione e prevenzione del fenomeno. Da valutare in modo rigoroso, così da incanalare le risorse verso gli interventi che effettivamente producono risultati positivi.
Anche in un periodo di crisi e tenendo conto delle esigue risorse disponibili, si può riformare l’assistenza sociale, in modo da garantire efficacia ed equità. Purché non si persegua solo il contenimento della spesa pubblica. La proposta dell’Irs prevede il decentramento di funzioni e risorse alle istituzioni del territorio. Tra le misure, un sostegno monetario alle famiglie con figli complementare a politiche di conciliazione dei tempi di lavoro e cura; l’introduzione di un reddito minimo di attivazione per il contrasto alla povertà e una dote di cura per anziani non autosufficienti.
La grande recessione seguita alla crisi finanziaria del 2007-2008 è stata la prima forte contrazione economica su scala globale dalla seconda guerra mondiale. L’impatto di breve periodo sui redditi familiari medi, sulla disuguaglianza della loro distribuzione e sui tassi di povertà relativi è stato diverso, ma complessivamente contenuto, tenuto conto della caduta dell’attività produttiva. Rispetto alla grande depressione degli anni Trenta, si è imparato come affrontare le conseguenze sociali di una grave crisi. Meno chiara, tuttavia, la prospettiva di più lungo periodo.
Il 2010 ha segnato uno dei punti più bassi per la cooperazione allo sviluppo italiana: il nostro paese vi ha destinato appena lo 0,15 per cento del Pil, meno di quanto fatto da tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale. Si tratta di un record negativo che non è giustificabile con la crisi: nello stesso anno gli aiuti degli altri donatori hanno raggiunto i massimi storici. (1) Ma guardare alla sola quantità dell’aiuto non basta. Negli ultimi anni, la comunità internazionale ha prestato una rinnovata attenzione al tema della qualità, inteso come efficacia ed efficienza dell’aiuto per la lotta alla povertà e per il raggiungimento degli obiettivi del Millennio.